Forum Giovani Imprenditori Confcommercio-Imprese per l'Italia

Forum Giovani Imprenditori Confcommercio-Imprese per l'Italia

Venezia, 9 - 10 novembre 2012

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12 novembre 2012

Cari Amici,
anzitutto, grazie: grazie ai Giovani Imprenditori di Confcommercio-Imprese per l’Italia ed al loro Presidente, l’amico Paolo Galimberti, per la qualità dei lavori di questa quinta edizione del loro forum.

Lavori che - con il contributo di tutti gli autorevoli relatori che hanno accettato l’invito all’approfondimento ed al confronto ed a cui rinnovo il ringraziamento mio personale e di Confcommercio tutta - si sono sviluppati sotto il titolo generale del “futuro dopo la crisi”.

Un’indagine sul futuro ed una ricerca di futuro, che necessariamente muovono dalle emergenze e dalle sfide aperte nel presente.

Ma anche - come mi sembra sia chiaramente emerso dalla discussione - un’indagine ed una ricerca consapevoli del fatto che la risposta urgente alle emergenze ed alle sfide chiama in causa la mobilitazione di responsabilità comuni e certamente non di breve termine: la responsabilità della politica e delle istituzioni non meno che la responsabilità delle forze sociali.

E’ questa, infatti, la responsabilità che occorre per la “salvezza” dell’Italia: per risolvere, cioè, i problemi strutturali della finanza pubblica e per far sì che il nostro Paese torni ad imboccare il cammino della crescita.

E’ questa, ancora, la responsabilità che occorre per affrontare un tornante cruciale della storia della Repubblica: il tornante, cioè, di una stagione in cui i costi pesantissimi della recessione si incrociano con una crisi profonda della politica, determinando così una miscela esiziale per la stessa tenuta della democrazia.

Ed esattamente questo è, del resto, il tornante con cui è stata chiamata a misurarsi l’esperienza dello “strano” governo tecnico, sorretto dalla sua “strana” maggioranza.

Occorreva reagire tempestivamente ad uno scenario da “deriva greca”.

L’emergenza è stata affrontata e - al prezzo, tra l’altro, di un’impennata della pressione fiscale complessiva con pesanti effetti recessivi - si è rafforzata la fiducia nei confronti della capacità dell’Italia di onorare il proprio debito pubblico.

Ma il vero test di credibilità resta quello della nostra capacità di tornare a crescere: la fotografia di sintesi di un’Italia in cui prodotto interno e consumi pro capite fanno un balzo all’indietro di circa quindici anni ne conferma tutta la necessità.

Rispetto a questo scenario, anche in occasione del varo della Legge di Stabilità, il Governo ha comunque confermato che saremo in grado di onorare l’impegno al raggiungimento, nel 2013, del pareggio di bilancio per come inteso in sede europea.

Benissimo.

Ma va pur detto che - proprio alla luce di questo stesso scenario e pur riconoscendo la tenacia della nostra Italia produttiva - l’uscita dal tunnel della crisi appare davvero ancora lontana.

Il Fondo Monetario Internazionale, ad esempio, prevede che il nostro prodotto interno registri, nel 2013, un’ulteriore riduzione dello 0,7%. La più recente previsione della Commissione europea è, comunque, di una riduzione dello 0,5%.

Insomma, sul versante della crescita, occorre decisamente più ambizione e più determinazione: occorre, insieme, in Europa ed in Italia.

Perché - in Europa ed in Italia - rischiamo davvero di avvitarci nella spirale tra disciplina fiscale e recessione.

Serve meno rigore? No.

Ma, sul versante del rigore, è ormai lo stesso capo economista del Fondo Monetario Internazionale, Olivier Blanchard, a ricordare che l’aggiustamento dei bilanci pubblici non è una gara da centometristi, ma una maratona, in cui “chi va piano va sano e va lontano”.

Soprattutto, per contrastare l’avvitamento tra disciplina fiscale e recessione, servono i fatti che consentano di dire che, sulle ragioni della crescita, l’Europa e l’Italia - per dirla giusto con un’efficace espressione del Presidente Monti - “ci mettono la faccia”.

Per questo occorre un’Europa politicamente compiuta.

Un’Europa in cui si passi dalle cessioni emergenziali di sovranità in risposta alla crisi dei debiti sovrani ad una scelta di condivisione di sovranità in nome di solidissime, buone e comuni ragioni.

La buona ragione dell’irreversibilità della scelta dell’euro e, insieme, le buone ragioni del ruolo complessivo dell’Europa e della sostenibilità del suo modello economico e sociale nel quadro della competizione globale.

Dopo molte incertezze che molto hanno nuociuto, il processo sembra essersi messo in moto: il processo - voglio dire - di costruzione dell’Unione bancaria, dell’Unione economica, dell’Unione fiscale, dell’Unione politica.

Ma bisogna davvero accelerare e battere in breccia incertezze ed attendismi.

Servono, infatti, chiare scelte europee:

  • per il decollo operativo dei project-bond dedicati al finanziamento degli investimenti infrastrutturali;
  • per depurare qualificati investimenti pubblici in infrastrutture materiali ed immateriali dal computo del deficit rilevante rispetto ai parametri europei;
  • per il più celere pagamento dello stock di debiti, statisticamente sommersi ma perniciosamente reali, accumulati dalle pubbliche amministrazioni nei confronti delle imprese;
  • per un’applicazione “ben temperata” di Basilea 3 attraverso l’adozione di correttivi utili a contrastare un’ulteriore stretta creditizia, in particolare a danno delle piccole e medie imprese.

Stretta ulteriore, dicevo.

Perché la restrizione creditizia - se ne è discusso nel corso dei lavori sulla scorta dell’indagine presentata in apertura - c’è stata e ancora c’è.

E’ stata - ed è ancora - tratto tipico del circuito vizioso di una recessione che riduce la domanda di finanziamento delle imprese per nuovi investimenti, determina crescita dei prestiti in sofferenza, spinge il sistema bancario ad irrigidire l’accesso al credito per contenere i rischi.

Mentre crisi del debito sovrano e lievitazione dello spread si traducono in malfunzionamento o addirittura, nelle fasi più critiche, in paralisi del mercato interbancario e in costi crescenti di provvista.

Le iniezioni di liquidità operate dalla Banca Centrale Europea non sono bastate. E il credito con il “contagocce” risulta insufficiente a bagnare il terreno della crescita divenuto troppo arido.

Moltissimo dipende dalla normalizzazione dei mercati e dal miglioramento della congiuntura. E davvero meriterebbe di essere accolta la sollecitazione del Presidente dell’ABI, Giuseppe Mussari, al rinvio dell’entrata in vigore delle regole di Basilea 3.

Intanto, però, va comunque pigiato con forza il pedale della collaborazione tra banche ed imprese secondo quella relazione di prossimità territoriale, che è tanta parte della storia italiana del sostegno creditizio all’economia reale.

Il rafforzamento dei consorzi fidi e l’evoluzione della loro missione sono, a tal fine, essenziali. Al pari del ruolo prezioso del Fondo centrale di garanzia e dell’incentivazione fiscale del rafforzamento patrimoniale delle imprese.

Gli accordi in materia di moratoria dei debiti delle imprese e di ristrutturazione delle loro esposizioni bancarie hanno poi fornito un contributo importante - circa diciassette miliardi di euro - alla liquidità delle imprese. E’, dunque, una concreta modalità di collaborazione, che, anche per il prossimo futuro, merita di essere confermata e rafforzata.

Ancora, dovrebbe essere ormai imminente il decollo operativo degli accordi in materia di certificazione, garanzia e sconto dei crediti vantati dalle imprese nei confronti delle pubbliche amministrazioni. E’ necessario che si parta al più presto e che si proceda di buona lena nell’utilizzazione del plafond di dieci miliardi di euro.

Fermo restando che si tratta, comunque, soltanto di una parte di quanto occorre fare per onorare i debiti commerciali delle pubbliche amministrazioni, che, secondo recenti stime, sembrerebbero avere oltrepassato il tetto dei novanta miliardi di euro.

Bene, allora, il recepimento della direttiva europea che prevede, a partire dal 2013, il pagamento da parte pubblica entro trenta giorni, con limitate deroghe fino a sessanta giorni.

Ma la “montagna” dei debiti accumulati va comunque affrontata ed abbattuta, anche attraverso le intese europee cui ha fatto riferimento il Presidente Monti.

Collaborazione concreta tra banche ed imprese significa anche impegno al contenimento del costo dell’intera gamma dei servizi finanziari, a partire dagli strumenti elettronici di pagamento.

Con le previsioni del secondo decreto crescita e nel contesto dell’agenda digitale, l’impulso alla diffusione di questi strumenti tracciabili è stato segnalato come aspetto rilevante tanto della strategia di contrasto e recupero di evasione, quanto di una complessiva modernizzazione del sistema-Paese.

Giusto.

Ma osserviamo che il perseguimento dell’obiettivo del maggiore ricorso agli strumenti elettronici di pagamento dovrebbe fare perno non su universali obblighi di accettazione da parte degli esercenti, ma su puntuali scelte di riduzione dei costi e delle commissioni che gravano su tali strumenti.

Scelte ancor più necessarie e possibili nella prospettiva di una forte crescita dei volumi delle transazioni. Al riguardo, si porti dunque a compimento il confronto in materia al tavolo di lavoro da tempo insediato presso il Ministero dell’economia.

Torno alle linee generali dell’agenda per la crescita.

Ne fanno parte le scelte europee che prima sinteticamente richiamavo. Ne fanno parte le scelte italiane per il risanamento, la ricostruzione e lo sviluppo.

Le scelte necessarie, affinché - senza tagli lineari, ma con la precisione e la profondità di una vera e propria chirurgia ricostruttiva della spesa pubblica - la spending review avanzi, recidendo inefficienze, improduttività e sprechi.

E avanzi anche come occasione strategica di revisione del perimetro stesso della funzione pubblica e della sua ridondante complessità di livelli istituzionali ed amministrativi.

Devono avanzare i processi di dismissione del patrimonio pubblico: a vantaggio dell’abbattimento del debito e del contenimento della spesa per gli interessi sui titoli di stato.

Devono avanzare le semplificazioni utili a liberare le energie del fare impresa e a ridurre la “tassa della burocrazia”, come è stato rimarcato nel corso dei lavori.

E, ancora ed anzitutto, deve avanzare - con determinazione, ma senza cedimento alcuno alla demagogia - l’azione di contrasto e recupero di evasione ed elusione come chiave di volta della connessione tra le ragioni del rigore, dell’equità e della crescita.

Attivando al più presto - lo sottolineo - il principio di destinare almeno una quota rilevante delle risorse derivanti dal recupero di evasione ed elusione alla riduzione della pressione fiscale a carico dei contribuenti in regola.

Una pressione giunta ormai al livello record del 55% circa e che costituisce, dunque, un’insostenibile zavorra a carico di investimenti e consumi.

Occorre, insomma, una prospettiva realistica di riduzione netta della pressione fiscale complessiva.

Dunque, anzitutto per questo non ci aveva convinto lo scambio tra più IVA e meno IRPEF, inizialmente proposto con il recentissimo varo del disegno di Legge di Stabilità.

Si è preso atto del fatto che questo scambio non avrebbe giovato né alla crescita né all’equità.

Si è così cancellata l’ipotesi di riduzione di un punto delle due prime aliquote IRPEF, evitando, dall’altra parte, il ricorso all’applicazione già nel 2012 - applicazione retroattiva e in violazione dello Statuto del contribuente - dei tagli alle detrazioni ed alle deduzioni fiscali.

Quanto all’IVA, si è scelto di bloccare l’aumento, a partire dal luglio del 2013, dell’aliquota ridotta dal 10% all’11%, ma è rimasta aperta la prospettiva dell’aumento dell’aliquota ordinaria dal 21% al 22%.

Lo abbiamo detto e lo ribadiamo: si è fatto un passo in avanti, ma ancora non ci siamo.

Si è fatto un passo in avanti, perché l’inasprimento dell’aliquota ridotta avrebbe colpito, tra l’altro, un’ampia gamma di prodotti alimentari e due volani del possibile ritorno alla crescita, come il settore del turismo e la filiera delle ristrutturazioni edilizie.

Ancora non ci siamo, però.

Perché l’ aggravio dell’aliquota ordinaria - già aumentata, a settembre del 2011, dal 20% al 21% - colpirà, con un ulteriore onere fiscale complessivamente ben superiore ai quattro miliardi di euro, una larghissima fascia di prodotti e servizi, a partire dai carburanti.

Per questo chiediamo che venga davvero fatto di tutto per archiviare definitivamente anche l’ipotesi del nuovo aggravio dell’aliquota IVA ordinaria, finalizzando al raggiungimento di questo obiettivo ogni margine di manovra disponibile.

E’ assolutamente necessario.

Il Ministro dell’economia - il Professor Vittorio Grilli, che ringrazio per la partecipazione ed il cui intervento concluderà i lavori di questo forum - ha infatti avuto occasione di dichiarare che l’economia italiana potrebbe tornare ad imboccare un percorso di crescita a partire dal secondo semestre del 2013.

Naturalmente, ce lo auguriamo.

Ma, proprio rispetto a questa possibilità, non c’è dubbio che l’aumento IVA, destinato a scattare dal mese di luglio, sarebbe una doccia gelata, che smorzerebbe le prospettive di ripartenza dell’economia.

Quanto all’IRPEF, chiediamo poi che si ricorra, il prima possibile, all’attivazione del fondo “taglia-tasse”, alimentato dai proventi del recupero di evasione, come ora previsto anche dal disegno di legge delega in materia fiscale, che si trova in avanzata fase di discussione parlamentare.

Insomma, servono scelte che sostengano la domanda interna nel suo complesso: la domanda per investimenti ed i consumi delle famiglie.

Quella domanda interna che contribuisce alla formazione del PIL per circa l’80% e che, dunque, resta determinante per il contrasto della recessione e per il ritorno alla crescita.

Tornare a crescere significa, infatti, tenere insieme dinamicità dell’export e tonicità della domanda interna. Tornare a crescere significa anche tenere insieme politica industriale e politica per i servizi.

Perché - è vero - disponiamo del secondo sistema manifatturiero d’Europa.

Ma, già oggi, i servizi di mercato contribuiscono alla formazione del valore aggiunto e dell’occupazione in misura largamente superiore al 40% del totale.

E’ un contributo importante, ma noi siamo convinti che si possa fare di più e meglio.

Per questo è tempo di una politica che si concentri su scelte determinanti per l’accrescimento della produttività di tutto il sistema imprenditoriale italiano e di tutto il Paese: infrastrutture, integrazioni di rete ed internazionalizzazione, ma anche istruzione e formazione, ricerca ed innovazione.

Ecco perché guardiamo con particolare interesse - lo ha ricordato l’approfondimento presentato nel corso dei lavori da Mariano Bella, Direttore del nostro Ufficio Studi - alle misure, ricomprese nell’ultimo decreto crescita, in materia di start-up innovative.

Ci sembrano, infatti, un contributo rilevante alla costruzione, nel nostro Paese, di un’infrastruttura istituzionale ed organizzativa capace di dare impulso e continuità al circuito virtuoso tra riconoscimento e premio del merito e del talento, rafforzamento della cultura del rischio d’impresa, mobilitazione di capitale di rischio, spinta alla ricerca ed all’innovazione, incremento di produttività e dinamica della crescita e dell’occupazione.

Un dato merita, in particolare, di essere ricordato e sottolineato: al 2011, gli investimenti in capitale di rischio risultano pari, nel nostro Paese, a quattro euro ogni centomila euro di PIL.

Se, al 2011, il rapporto fosse stato pari a quello della Germania - ventotto euro di investimenti in capitale di rischio ogni centomila euro di PIL - il nostro prodotto interno avrebbe potuto far registrare un incremento di ben due punti e mezzo, cioè di trentasette miliardi di euro.

Dunque, il provvedimento per le start-up è un’occasione importante.

Tanto più importante, se nella definizione delle start-up - è questa la nostra richiesta fondamentale - verranno ricomprese iniziative imprenditoriali finalizzate non solo alla produzione, ma anche all’utilizzo di tecnologie innovative.

Insomma, siamo di fronte ad un’opportunità concreta: utile per rimettere in moto dinamismo economico e mobilità sociale e, per questa via, anche per reagire ad un tasso italiano di disoccupazione giovanile del 35% e ad un tasso di giovani inattivi - giovani, cioè, che né studiano, né lavorano - di quasi il 20%.

L’inattività dei giovani è una dissipazione di energie e di spinta al cambiamento che non possiamo più permetterci: significa, a livello europeo, una perdita di ricchezza di circa centocinquanta miliardi l’anno, di cui circa trenta a danno dell’Italia.

Sono dati che, per il nostro Paese, confermano l’esigenza di un tempestivo monitoraggio degli effetti della recente riforma del lavoro e, in particolare, delle restrizioni in materia di flessibilità in entrata e dell’aggravio contributivo dei rinnovati ammortizzatori sociali.

Sono dati, ancora, che, per il nostro Paese, rilanciano le sfide dell’istruzione tecnica e dell’apprendistato, della valorizzazione della auto-imprenditorialità dei giovani e, in generale, del migliore raccordo tra percorsi scolastici, processi formativi e mondo dell’impresa e del lavoro.

E’ la sfida della costruzione, nel nostro Paese, di un ecosistema favorevole agli imprenditori ed ai giovani e, dunque, “doppiamente” favorevole ai giovani imprenditori.

Impresa e lavoro, del resto, sono certamente i motori della crescita. Per questo, è giusto chiedere loro - come il Governo sta facendo - di rafforzare l’impegno cooperativo per il miglioramento della produttività.

Noi lavoriamo proprio per un accordo tra le parti sociali coerente con la portata di questo obiettivo e che sia allora in grado - effettivamente in grado - di accompagnare e stimolare maggiore produttività.

Ma la produttività del lavoro dipende anche - e molto - dalla produttività complessiva del Paese. Dipende, dunque, dall’avanzamento dell’intero cantiere delle riforme - basti pensare al nodo della riforma della pubblica amministrazione - e, dunque, dalla qualità delle scelte politiche.

Oggi, la qualità delle scelte politiche la si misura anzitutto sul versante della risposta ad un drammatico deficit di legalità. Perché qui siamo davvero in condizioni da “allarme rosso”.

Serve, allora, l’efficienza del sistema giustizia ed il contrasto più determinato della piaga della corruzione, giustamente definita dalla Corte dei Conti come una “tassa immorale ed occulta” stimata nell’ordine dei sessanta miliardi di euro l’anno.

Così come occorre la rivisitazione dell’impianto del Titolo V della Costituzione.

Rivisitazione anche come occasione - lo si legge nel comunicato del Quirinale sull’incontro tra il Capo dello Stato e le Regioni - “di un ampio sforzo di chiarificazione di fronte all’emergere, nel dibattito pubblico, di interpretazioni unilaterali e sommarie, con accenti liquidatori nei confronti dell’attività e del ruolo delle Regioni”.

Perché il federalismo - ne resto convinto - serve. Ma serve il federalismo della responsabilità e della cooperazione.

Della responsabilità delle scelte di spesa e di tassazione. Della cooperazione delle competenze e della cooperazione tra funzione pubblica ed iniziativa privata.

Per questo, per tutto questo - ne resto più che mai convinto - occorre la buona politica e serve una vera e propria ricostruzione dell’etica pubblica e dell’etica dell’impegno politico.

Una ricostruzione robustamente “stimolata” dalla severità delle regole, da una drastica riduzione dei costi della politica, dalla stessa riforma della legge elettorale.

Il che ci impegna - ci impegna come cittadini e come rappresentanza sociale - ad una critica della politica che c’è: critica esigente, critica severa, ma capace di distinguere.

Ci impegna ad una critica che, proprio perché capace di distinguere, si faccia sprone di rinnovamento profondo.

Rinnovamento della politica significa anche capacità di preservare il filo tenace del riconoscimento, da parte dei partiti politici, di una comune responsabilità repubblicana.

Oggi e nella prossima legislatura.

Perché, quali che saranno le scelte degli elettori, gli assetti di maggioranza ed opposizione, la formula di governo, la legislatura che verrà possa davvero assolvere ad una funzione costituente.

Perché questa comune responsabilità repubblicana non potrà che giovare al superamento delle sfide ancora aperte per il nostro Paese e, anzitutto, al superamento della sfida del ritorno alla crescita.

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