"Dare valore al lavoro. Dal Pacchetto Treu alla legge Biagi"

"Dare valore al lavoro. Dal Pacchetto Treu alla legge Biagi"

Roma, 20 ottobre 2007

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22 ottobre 2007
QUANTO HAI GUADAGNATO

Cari Amici,

 

Confcommercio ha voluto partecipare a quest’incontro, promosso dal Comitato per la legge Biagi, anzitutto perché ci è sembrato giusto e doveroso onorare la memoria di Marco Biagi.

 

E ci è sembrato giusto e doveroso farlo esattamente secondo lo spirito con cui questo incontro è stato presentato nella lettera di Giuliano Cazzola pubblicata sul “Sole 24 Ore�.

 

Un incontro, un’iniziativa â€" dunque â€" per “misurarsi con i dati e con i fattiâ€�, per “ristabilire la veritàâ€� e per “guardare avanti, oltre i successi e i limitiâ€�. Un’iniziativa, soprattutto, per “sviluppare ragionamenti anziché contrapporre slogan a slogan, urlati nelle piazze d’Italiaâ€�.

 

Proviamo a ragionare, allora.

 

Cosa è stata, cosa è la riforma Biagi valutata anzitutto sotto il profilo del metodo?

 

E’ stata ed è la testimonianza - concreta e, se non unica, certamente rara â€" del fatto che buone riforme possono essere fatte anche in un Paese come il nostro.

 

In un’Italia, cioè, in cui esiste ormai un diffuso e politicamente bipartigiano convincimento circa le scelte necessarie per una crescita più veloce e di miglior qualità, che è poi la condizione ineludibile se davvero si persegue sviluppo, equità e miglioramento strutturale del quadro della finanza pubblica.

 

Ma anche in un’Italia in cui â€" come è noto â€" il riformismo bipartigiano troppo spesso viene battuto in breccia dal bipolarismo muscolare e anche da una concertazione troppo esposta all’esercizio di poteri di veto.

 

Per fortuna, però, nel caso della riforma Biagi, le cose andarono diversamente.

 

Ci fu comunque una politica che decise e si assunse le sue responsabilità. Ci fu concertazione e ampio consenso delle parti sociali e a nessuno si riconobbe il diritto ad esercitare poteri di veto.

 

Perché, da parte mia, tanta attenzione al metodo?

 

Perché mi sembra chiaro che â€" proprio a voler “guardare avantiâ€� â€" quel metodo positivo la dice lunga circa la necessità e l’urgenza di sbloccare quella “crisi della decisioneâ€� che affligge tanta parte della politica italiana, e anche di ripensare a fondo una pratica della concertazione così formalmente “universalisticaâ€� e così sostanzialmente ancorata al modello delle “relazioni privilegiateâ€�.

 

Accanto al metodo, sta ovviamente il merito.

 

E â€" nel merito â€" la riforma Biagi è stata ed è la testimonianza del fatto che è possibile lavorare, nel nostro Paese, per un maggior tasso di partecipazione al mercato del lavoro.

 

E’ possibile farlo anche con una giusta flessibilità dei rapporti di lavoro â€" governata e contrattata â€" che ha mostrato di agire efficacemente a contrasto della precarietà della disoccupazione e del lavoro nero.

 

“Misurarsi con i dati e con i fatti�, diceva la lettera di Cazzola.

 

E dati e fatti dicono che le quote di flessibilità, le quote di lavoro temporaneo presenti oggi nel mercato del lavoro italiano non hanno nulla di “patologico�.

 

Le statistiche dicono che queste quote sono inferiori ai valori medi europei sia in riferimento all’universo del lavoro dipendente, sia in riferimento alle classi anagrafiche di lavoratori più giovani.

 

Ma dati e fatti ci ricordano anche che, nonostante un importante incremento dell’occupazione pur in anni di crescita lenta, più di sette punti percentuali separano l’Italia rispetto alla media europea di partecipazione al mercato del lavoro e che la disoccupazione giovanile si attesta intorno al 19%, con picchi del 30% circa nel Mezzogiorno.

 

Insomma, resta ancora molto da fare per costruire l’Italia come una società attiva, più attiva.

 

In questo senso, mi sembra davvero di poter dire che la questione aperta non è certo il superamento della legge Biagi, ma â€" al contrario â€" il completamento del disegno riformista della legge Biagi.

 

Lungo quali direttrici? In che modo?

 

E’ stato giustamente osservato che il pacchetto Treu prima, e la legge Biagi dopo hanno sostanzialmente decretato la fine del lavoro atipico. Ogni forma di contratto, infatti, è stata tipicizzata, disciplinata per legge e dotata di tutele e garanzie per i lavoratori, anche per intervento della contrattazione.

 

Se così è â€" e a mio avviso così è â€" francamente non si vede la necessità di interventi normativi e restrittivi in materia di rapporti di lavoro flessibili e temporanei.

 

Piuttosto, sarebbe compito, sarebbe diritto/dovere delle parti sociali e della loro autonomia contrattuale affinare l’uso concreto della flessibilità, tenendo tra l’altro nel giusto conto differenze ed esigenze settoriali.

 

Ad esempio, le esigenze di quell’economia dei servizi che oggi reca un contributo determinante alla formazione della crescita e dell’occupazione e in cui, strutturalmente, larghissima parte dell’attività è caratterizzata da un andamento per picchi o dall’impatto di fattori stagionali.

 

Questa mia segnalazione ovviamente non è casuale. E vale a ribadire, accanto ad altre considerazioni, le ragioni del “no� di Confcommercio a quel protocollo sul mercato del lavoro e sul welfare, con cui si è scelto non solo di rivedere la disciplina sui contratti a termine, ma anche di cancellare il lavoro a chiamata e di lasciare nel “limbo� lo staff-leasing.

 

Tutto gestibile per via contrattuale, allora, il completamento del disegno riformista di Marco Biagi?

 

Certo che no.

 

Perché questo completamento richiederebbe un percorso legislativo che va dallo Statuto dei lavori alla riforma degli ammortizzatori sociali.

 

Per dirla con una sintetica battuta, richiederebbe un’interpretazione autentica e non equivoca del concetto di flexicurity, cioè della compiuta integrazione tra flessibilità e sicurezza sociale.

 

Un concetto che, del resto, costituisce anche la filosofia di riferimento del recente Libro Verde comunitario sulla modernizzazione del diritto del lavoro per rispondere alle sfide del XXI secolo.

 

Da questo “libro verde� e dalla concreta esperienza danese di flexicurity, emerge tanto un problema, quanto un’efficace soluzione al problema.

 

Il problema è il rischio di segmentazione â€" in Europa e in Italia â€" del mercato del lavoro tra l’area dei contratti di lavoro a tempo indeterminato e l’area del lavoro temporaneo e flessibile.

 

La risposta della flexicurity a questo problema sta â€" come si sa â€" nell’innalzamento di tutele e garanzie per l’area del lavoro temporaneo e flessibile, ma anche nella riduzione della rigidità dei contratti standard.

 

E’ questa la logica di scambio della flexicurity. Lo scambio tra un’elevata flessibilità in ingresso e in uscita ed un’elevata sicurezza sociale legata alla formazione continua di qualità.

 

Di questa logica francamente non abbiamo visto molto nel protocollo e nella sua tormentata traduzione in collegato alla finanziaria.

 

Non abbiamo visto molto, perché protocollo e collegato confermano e rafforzano il tradizionale squilibrio strutturale della spesa sociale italiana, troppo largamente drenata dalla spesa previdenziale e davvero troppo parsimoniosa sul versante delle politiche attive per il lavoro.

 

So che al tipo di ragionamento che sto facendo si obietta, solitamente, che la flexicurity funziona in economie che crescono meno stentatamente di quella italiana.

 

Obietto a mia volta, osservando che la flexicurity serve proprio al perseguimento della crescita elevata e sostenibile. E che, allora, davvero il protocollo avrebbe dovuto assumere come obiettivo comune dell’impegno del Governo e delle parti sociali, un patto per la produttività, un patto per la società attiva, a cui concorresse anche un riformato sistema di sicurezza sociale.

 

L’architettura e i contenuti del protocollo sono, invece, profondamente diversi. Superamento dello scalone, definizione estensiva della questione dei lavori usuranti, tasso di sostituzione al 60% per le pensioni dei più giovani.

 

Tradotto: tanta spesa previdenziale in più, tanta contribuzione in più, una generosa e preoccupante chiamata in causa della fiscalità generale.

 

Poche risorse e poca strutturalità, invece, per la valorizzazione della contrattazione di secondo livello. E, ancora, tutta da venire e da finanziare adeguatamente la riforma degli ammortizzatori sociali.

 

Non lo dico per amor di polemica, ma francamente mi ha colpito che, appena dopo aver condiviso la riformulazione del collegato, l’amico Bombassei abbia dichiarato che in futuro dovremo rimettere mano alle pensioni, perché abbiamo fatto la strada inversa rispetto agli altri Paesi, e questo è un lusso che non possiamo permetterci.

 

Così come fanno davvero riflettere sui limiti di questo protocollo, le giuste considerazioni del sindacato sull’impatto del fisco sui redditi da lavoro.

 

C’è chi dice, in buona sostanza, che il protocollo è stato, comunque, la soluzione “meno peggio�, utile a salvare la maggior parte dell’impianto della riforma Biagi.

 

Sarà pur così, ma francamente non mi sembra che, ormai, questo Paese possa fare molta strada con la logica del “meno peggio�.

 

“Marco Biagi merita di più�: così Giuliano Cazzola nella lettera al “Sole�.

 

E’ vero. Merita, in definitiva, che la tanta intelligenza, la tanta passione, la tanta energia riformista presente in questo Paese riesca stabilmente ad incidere, a prevalere nella formazione delle grandi scelte politiche.

 

Per far questo, occorre certamente una politica “popolare�, cioè che sappia costruire risposte alle emergenze e alle urgenze del Paese e che reagisca al virus dell’antipolitica e al distacco tra i cittadini e le istituzioni.

 

Ma questa politica la si fa non accettando la “dittatura del breve termine�, cioè sottraendosi alla logica della ricerca del consenso sempre e comunque a breve termine.

 

E’ una responsabilità della politica. Ma è bene, è giusto dire che è anche una responsabilità delle forze sociali.

 

Anche a loro spetta, infatti, la responsabilità di spiegare che “nessun pasto è gratis�. E che un futuro migliore richiede magari, oggi, anche scelte difficili.

 

Qualche tatticismo in meno e qualche grande ambizione in più: questo Paese, e in particolare le sue generazioni più giovani, ne hanno la necessità e se lo meritano.

 

Ai tanti riformisti dell’una e dell’altra parte oggi qui presenti ed anche a quelli che oggi qui non sono, spetta il compito comune, la responsabilità comune â€" pur nella diversità dei loro ruoli â€" di lavorare per quest’Italia più ambiziosa.

 

Ecco ciò che merita Marco Biagi. Perché la sua vita è stata spezzata, ma la tempra tenace del suo riformismo è più che mai vitale.

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