"Liberalizzazioni, competitività: la sfida per le Pmi del commercio tra innovazione, reti e formazione

"Liberalizzazioni, competitività: la sfida per le Pmi del commercio tra innovazione, reti e formazione

Bologna, 13 aprile 2012

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13 aprile 2012
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“Liberalizzazioni, competitività:
la sfida per le Pmi del commercio tra Innovazione, Reti e Formazione”

 

Intervento del Presidente Sangalli

Bologna, 13 aprile 2012

 


Cari Amici,

anzitutto le mie congratulazioni all’amico Enrico Postacchini ed alla Confcommercio di Bologna tutta per avere voluto promuovere questa intensa mattinata di approfondimento e confronto sulle sfide aperte per le piccole e le medie imprese del commercio.

Le sfide – lo dico parafrasando il titolo dell’incontro – dell’innovazione, delle reti e della formazione nel tempo delle liberalizzazioni e della competitività.

Congratulazioni sincere, perché gli argomenti  affrontati  costituiscono parte importante di quanto  occorre fare per contrastare la recessione. La recessione che, nel 2012, avanza in Europa e picchia con particolare durezza in Italia.

Contrastare la recessione e pigiare il pedale delle politiche per la crescita: è un’esigenza  che, a nostro avviso, l’Italia, oggi, può e deve porre, con rafforzata autorevolezza e determinazione, in Europa.   

Con la rafforzata autorevolezza di un Paese che, da qui al 2014, ridurrà di oltre 81 miliardi di euro il proprio indebitamento, e lo farà (purtroppo) con oltre 53 miliardi di euro di maggiori entrate e con oltre 27 miliardi di minori spese.

Ma, al contempo, con la rafforzata determinazione di un Paese che, anche per effetto di una simile disciplina fiscale e di bilancio, vede crescere, da una parte, pressione fiscale e inflazione e vede ridursi, dall’altra, investimenti e consumi, occupazione e prodotto interno.

Ovviamente, non si tratta di negare la necessità, in Europa e in Italia, del fiscal compact, cioè della disciplina fiscale e di bilancio. Ma va urgentemente messo in campo anche un robusto economic compact, cioè un robusto pacchetto di riforme e di scelte per la crescita.

Insomma, riprendendo alcune  affermazioni del Presidente Monti, questo è il punto: servono un’Europa e un’Italia che, sulle ragioni della crescita, ci mettano la faccia.

Servono, dunque, le semplificazioni della vita dei cittadini e delle imprese, perché – in Europa ed in Italia – di complicazioni burocratiche continuiamo ad averne troppe. Basti ricordare che – come segnala la Relazione introduttiva al recente decreto semplificazioni – ammontano ad oltre 23 miliardi di euro l’anno gli oneri amministrativi relativi a 81 procedure particolarmente rilevanti per le imprese italiane.

E servono, certamente, le liberalizzazioni. Pensate e realizzate anche attraverso il confronto. 

Proprio perché – come si legge nella Relazione introduttiva al decreto liberalizzazioni – “la crescita non si costruisce in laboratorio. La garantiscono, la assicurano, la realizzano i cittadini e le imprese”.

Il confronto è però mancato  – prima del decreto liberalizzazioni e nel tempo emergenziale del decreto”salva-Italia” – rispetto alla scelta della totale deregolamentazione degli orari degli esercizi commerciali e delle loro aperture domenicali e festive.

Sul terreno delle liberalizzazioni, ricordiamo, peraltro, quanto è già stato storicamente realizzato nel settore del commercio, nel periodo compreso tra la riforma del ’98 e gli ulteriori interventi del 2006.

Ne sono derivati processi, profondi ed anche dolorosi, di ristrutturazione della rete commerciale.

Pur in una cronica carenza di politiche attive dedicate al commercio, ed in genere al sistema dei servizi, è costantemente cresciuta la qualità del servizio reso ai consumatori e, di certo, le imprese hanno fatto propria la sfida degli incrementi di produttività.

Sulla base di questo consuntivo storico, non abbiamo dunque condiviso la scelta  di totale deregolamentazione di orari ed aperture degli esercizi commerciali.

Non gioverà  alla vitalità del pluralismo distributivo. E non pensiamo che possa significativamente incidere sulla dinamica dei consumi.

L’affanno di lungo corso della dinamica dei consumi è, piuttosto, il puntuale riflesso dell’affanno di lungo corso dell’Italia tutta sul terreno della crescita.

Non ci sono scorciatoie. E l’agenda di quanto occorre fare è nota, ed anche largamente condivisa.

Servono le semplificazioni e servono le giuste  liberalizzazioni, dunque.  Ma, da sole, non bastano.

Per tornare a crescere, ed a crescere in maniera più robusta, occorrono anche – in Europa ed in Italia – selezionati e qualificati investimenti pubblici in beni comuni essenziali per il futuro: per l’innovazione ed il capitale umano, per il risparmio energetico e la sostenibilità ambientale, per le infrastrutture.

E’ un nodo che conferma la necessità degli eurobond, cioè dell’emissione di titoli pubblici europei per il finanziamento di questi investimenti.

Ed è un nodo che conferma, in Italia, la necessità di un veloce e rigoroso avanzamento della spending review  all’insegna del meno sprechi e meno spesa corrente, e del più investimenti in conto capitale e  in combinazione con lo stimolo alla finanza di progetto.

Spending review, dunque. Cioè revisione profonda ed urgente della struttura e della qualità della nostra spesa pubblica. Per sostenere gli investimenti, come ho già detto.

Ma anche perché questa revisione è condizione ineludibile, insieme al recupero di evasione ed elusione, per un progressivo alleggerimento della pressione fiscale a favore dei contribuenti in regola.

Oggi, c’è poi una ragione in più ed urgentissima per affermare la centralità della spending review.

E’ bene illustrata nel documento della Presidenza del Consiglio sui primi cento giorni del governo-Monti, documento da cui cito: “La spending review  è uno dei pilastri portanti dell’attività del governo che consentirà di superare il meccanismo dei tagli lineari”.

 “I risultati che si produrranno in termini di risparmi – prosegue il documento -  potrebbero contribuire ad evitare (in tutto o in parte) l’aumento delle aliquote IVA, previsto a partire da ottobre 2012”.

Per noi – proprio alla luce di un’Italia in recessione e di consumi in picchiata – gli ulteriori aumenti delle aliquote IVA sono una “mina”, che va al più presto disinnescata.

Una “mina”: nessuna esagerazione nel ricorso a questo termine, perché l’effetto complessivo degli incrementi delle aliquote IVA – di quello già operato nel settembre del 2011 e degli ulteriori aumenti programmati – rischia di tradursi in una perdita cumulata di spesa per consumi di  circa 38 miliardi di euro nel quadriennio 2011-2014.  

Sulla domanda interna, per consumi ed investimenti, dobbiamo invece, oggi, fare particolarmente  leva: per contrastare la recessione e per tornare a costruire crescita e occupazione.

Dobbiamo fare leva sulla domanda interna e sulle imprese dei servizi di mercato, che a questa domanda fanno particolare riferimento.

Da qui, la nostra richiesta fondamentale e di lungo corso: una politica per i servizi – cioè un sistema di regole, di strumenti e di ragionevoli risorse – che supporti i processi di rafforzamento della produttività.

Una politica per i servizi, e dunque una politica per l’innovazione del sistema dei servizi, posto che l’innovazione – tecnologica, ma anche organizzativa – è un formidabile propellente di produttività aggiuntiva.

E’ tempo, allora, non solo di “Industria 2015”, ma anche di “Servizi 2020”, in coerenza con gli obiettivi di crescita intelligente, sostenibile ed inclusiva di “Europa 2020”.

Attraverso la rimodulazione di risorse nazionali e comunitarie già disponibili, si definisca, cioè, e si realizzi un piano straordinario per l’innovazione del sistema dei servizi.

Declinandolo ed applicandolo anche al terreno dei rapporti tra commercio e città.

Perché l’identità e la vivibilità delle nostre città merita di essere non solo tutelata, ma anche promossa: con un miglior raccordo delle competenze in materia di concorrenza e di commercio; con l’integrazione tra urbanistica ed urbanistica commerciale; con la riforma delle locazioni commerciali; con un piano ed un patto nazionale per la logistica e la mobilità urbana; con la costruzione di distretti urbani e diffusi del commercio, che agiscano come tessuto connettivo del pluralismo distributivo.

All’interno di questo quadro, si inserisce anche il tema della costruzione delle “reti” per la crescita delle piccole e medie imprese dei servizi e, in specie, del commercio.

Sulla scorta dello Small Business Act e dello Statuto delle imprese, l’obiettivo deve essere quello di consentire a tutte le imprese, quale ne sia la dimensione, di ricercare maggiore efficienza e di meglio competere.

Perché, per le piccole e medie imprese, non vogliamo “riserve indiane” al cui interno lentamente si deperisce e si muore. Vogliamo, invece, che crescano, che possano crescere.

Crescita anche attraverso le aggregazioni di gruppo e di distretto, di filiera e di rete.

Innovare e misurarsi con le opportunità nuove dei contratti di rete richiede, certamente, rafforzata cura del sapere e del saper fare. Richiede, dunque, qualità e costanza dei processi formativi dedicati tanto agli imprenditori, quanto ai lavoratori.

E’ questo un aspetto essenziale delle politiche attive per i servizi e per il commercio. E, anche in questo caso, di tratta di costruire una “rete” di iniziative coordinate e convergenti.

Si tratta di mobilitare il “capitale sociale” di relazioni stabili e cooperative tra associazioni d’impresa e sindacati dei lavoratori,  tra mondo dell’impresa e del lavoro e mondo della scuola, dell’Università e dei processi di formazione continua, in stretto raccordo con le competenze e con le politiche delle Regioni.

Un sistema di relazioni che costituisce, del resto, un prezioso bagaglio storico e politico di tutta la Confcommercio dell’Emilia Romagna, qui rappresentata dal suo Presidente e Vice-Presidente confederale, l’amico Ugo Margini, che saluto. 

E’ un punto – quello della centralità dei processi di formazione per la costruzione di una società attiva fondata su più lavoro -  che sottolineiamo anche in riferimento al confronto sulla riforma del mercato del lavoro  e degli ammortizzatori sociali.

All’esito di questo confronto, resta, per noi, l’esigenza di confermare il ruolo positivo di una “buona” flessibilità. “Buona” perché disciplinata da norme di legge e di contratto e perché risponde a necessità  specifiche e strutturali.

E’ un punto essenziale. E le intese maturate in sede di confronto vanno, anche in questo caso, rispettate.

Lo riaffermiamo rispetto al testo del disegno di legge, che presenta modifiche e novità peggiorative rispetto all’impianto illustrato alle parti sociali. 

Sul testo esprimiamo, dunque, un giudizio fortemente negativo, chiedendo che si intervenga lungo il percorso di discussione parlamentare, soprattutto sul versante della flessibilità in entrata e per il contenimento dei costi a carico delle imprese.

Mi avvio alle conclusioni.

Lo faccio segnalando, ancora una volta, una vera e propria emergenza, un vero e proprio macigno da rimuovere per tornare ad imboccare un percorso di crescita.

Rallentamento del credito all’economia e crescita del costo dei finanziamenti sono confermati dalla Banca  d’Italia. Pesa la crisi dei debiti sovrani, la crisi di fiducia nel sistema interbancario ed il peggioramento del ciclo economico.

Si deve far di tutto, allora, affinché la liquidità messa a disposizione dalla Banca Centrale Europea venga impiegata non solo per acquistare titoli di Stato, ma anche per finanziare imprese e famiglie.

Nel tempo della crisi, banche ed imprese hanno cercato di  collaborare.

Bisogna perseverare: valorizzando il ruolo dei consorzi fidi e del fondo centrale di garanzia, e ora con il rinnovato accordo sulla moratoria dei debiti.

Ed anche riducendo il costo delle commissioni sugli strumenti di moneta elettronica, nel momento in cui si punta alla riduzione della circolazione del contante.

Va, poi, risolta la questione del ritardo dei pagamenti delle pubbliche amministrazioni nei confronti delle imprese. E’ uno stock di crediti che ammonta a circa 60/70 miliardi di euro. E’ liquidità sottratta alle imprese in una fase delicatissima.

Ma, anche in questo caso, occorrono impegno e responsabilità comuni: delle banche e delle imprese, del governo e della politica.

Di una politica – e qui davvero concludo -  che colga anche l’opportunità del passaggio di fase del governo Monti per porre le fondamenta di una nuova stagione della Repubblica.

E che lo faccia attraverso scelte di autoriforma, anche in materia di bilanci dei partiti; di riforma istituzionale e di riforma elettorale: consentendo, così, di archiviare definitivamente tanto la stagione sterile del bipolarismo muscolare, quanto il virus dell’antipolitica.

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