"NO DAY"

"NO DAY"

Milano, 11 marzo 2003

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11 marzo 2003
Intervento di Sergio Billè

"No day" - Intervento di Sergio Billè

 

Milano, 11 marzo

 

Non è certo un caso che si concluda proprio a Milano, centro, fulcro di quella parte del sistema-Italia che ha saputo, negli anni, costruire più ricchezza e più lavoro, questo tour che Confcommercio ha deciso di fare in molte altre città italiane, del Nord come del Sud, per spiegare i motivi per i quali va respinto questo referendum, parto di persone, certamente di tutto rispetto, ma che hanno una visione della società, del progresso e dello sviluppo sostanzialmente, radicalmente diverse dalle nostre e, credo o almeno mi auguro di credere, della maggior parte degli italiani.

Un tour che mi ha anche consentito di toccare con mano quali siano oggi i veri problemi non risolti di questo paese: grave carenza di infrastrutture con porti che non sono porti, ferrovie che non sono ferrovie, trasporti intasati, collegamenti impossibili. E poi una pressione fiscale quasi asfissiante, una burocrazia lenta e costosa che, di fatto, frena ogni processo di sviluppo e giovani che, al Sud ma non solo al Sud, sono costretti, per mancanza di lavoro, a restare confinati ai margini, anzi oltre ai margini di ogni tipo di struttura produttiva. E poi ancora l’abusivismo che, per mancanza di controlli, si ingrossa ogni giorno di più, innumerevoli forme di illegalità che trasformano il mercato in una specie di giungla senza regole. Ed è proprio un miracolo che, nonostante tutto questo, si riesca, in qualche modo, a tirare avanti. Molta gente non sa ancora nulla, proprio nulla di  questo referendum anche perché, nella televisione di Stato come altrove, si continua a parlare di tutto ma non di questo problema come se, il parlarne, suscitasse qualche imbarazzo. E chi, invece, ne conosce o ne apprende finalmente i contenuti resta stupefatto perché non capisce come possa essere venuto in mente a qualcuno di togliere agli oltre tre  milioni e mezzo di piccole imprese italiane, quelle che tirando affannosamente la carretta  producono oggi quasi la metà del nostro prodotto lordo, l’unico strumento loro rimasto– il regime differenziato stabilito  dallo Statuto dei lavoratori- per restare a galla e non chiudere, invece, bottega. La verità è che questo referendum, non a caso proposto solo da Rifondazione comunista e da pochi altri, non ha avuto tra i suoi promotori, come sarebbe stato legittimo trattandosi di materia squisitamente sindacale, le grandi organizzazioni sindacali le quali oggi o mantengono, come la Cgil, una posizione ambigua o, come la Cisl e penso anche la Uil, si sono già dichiaratamente espresso per il no. E, difatti, la proposta che esso contiene è intrisa di vecchie ideologie che ormai non hanno più radici nella moderna economia ed anche di molta demagogia. Da qui l’imbarazzo che traspare, di fronte a questo referendum, anche nei partiti del centro sinistra. Essi cercano di restare in disparte perché temono che cavalcare oggi una simile riforma  potrebbe significare, come è accaduto per Jospin in Francia con le sue 35 ore, perdere ogni possibilità di vincere le prossime elezioni. Sanno che cavalcarla significherebbe fare, come appunto è accaduto in Francia, solo un grosso regalo alla destra e a tutto ciò che si muove intorno ad essa.

Ma aver ragione, in un paese come l’Italia dove tutto procede sempre in modo confuso, non basta. Ecco il perché della nostra mobilitazione alla quale presto si aggiungerà l’iniziativa del comitato del no di cui fanno parte tutte le associazioni di imprese. Noi abbiamo provato a fare una simulazione di quel che potrebbe accadere, sul versante dell’occupazione, se sciaguratamente venisse approvato questo referendum. A bocce ferme, se cioè venisse rispettata la previsione di una crescita del Pil, nel 2003, dell’1,2% e, nel 2004, del 2,2%- e sappiamo bene, vista l’imminenza di un conflitto, quanto queste previsioni possano essere ottimistiche, verrebbero perse, nel 2003, e solo nelle piccole imprese, dalle 60 alle 70 mila unità di lavoro permanente che, nel 2004, diventerebbero più di 170 mila. Ma finirebbero per diminuire anche le unità di lavoro a tempo determinato perché è assai probabile che, con questa riforma, molte piccole imprese si vedrebbero costrette ad uscire dalla legalità per tuffarsi nel grande mondo del sommerso.

E questo mentre continua inesorabile- meno 35 mila unità nel 2002- la caduta di occupazione nel mondo delle grandi imprese, una caduta che ormai appare come irreversibile. E questo fenomeno colpirebbe soprattutto la popolazione giovanile cioè quella che oggi non riesce a trovare posti di lavoro: 20% al Nord, 54% al Sud.

E vorrei fornirvi un ultimo dato che riguarda proprio Milano e la sua provincia. Dal 1995 al 2000- non esistono purtroppo dati più recenti- le unità di lavoro permanente sono scese, nell’industria, dal 33,7% al 31,2% e il valore aggiunto dal 34,8% al 31,3%. Le imprese del terziario cioè soprattutto dei servizi sono aumentate, per unità di lavoro permanente, nello stesso arco di tempo, dal 65,7% al 68,3% con un valore aggiunto che è passato dal 64,9% al 68,5%. E se il Pil, per le ragioni a cui prima ho accennato, non riuscisse, cosa più che possibile, ad aumentare secondo le attuali previsioni? Quindi anche le attività di Milano e della sua provincia, che oggi rappresentano sicuramente il cuore dell’economia, si stanno spostando  in modo significativo verso il settore del terziario, l’unico o quasi a produrre nuova occupazione. Lasciamo passare questo referendum è anche qui, nella grande Milano, si rischierà il black- out.

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