"Sciogliere i nodi per competere"

"Sciogliere i nodi per competere"

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16 maggio 2012

Cari Amici,
anzitutto il mio ringraziamento all’amico Vice-Presidente Paolo Uggè ed a tutto il sistema associativo dei trasporti e della logistica che si riconosce in Confcommercio-Imprese per l’Italia  per avere voluto promuovere questa occasione di approfondimento e confronto.

Approfondimento e confronto sui contenuti del “Manifesto” confederale in materia di infrastrutture e trasporti, di logistica e mobilità, significativamente titolato “Sciogliere i nodi per competere”.

Titolo significativo, perché intende programmaticamente sottolineare il ruolo delle infrastrutture come “beni pubblici competitivi” e la connettività di rete, che attraverso tali infrastrutture si realizza, come fattore centrale per la competitività dei sistemi territoriali e, dunque, per il loro sviluppo.

L’analisi presentata oggi dal nostro Ufficio Studi ha, del resto, confermato, “cifre alla mano”, quanto l’accessibilità sia rilevante ai fini della crescita.

Quantificando, tra l’altro,  in oltre 62 miliardi di euro la perdita cumulata di prodotto interno per il periodo 2001-2010, dovuta ad una riduzione di accessibilità del 15% nell’arco dello stesso decennio.

Stimando che, se nel 2010 l’accessibilità del sistema-Italia fosse risultata, con un miglioramento del 21%, pari all’accessibilità della Germania, l’incremento cumulato di prodotto interno sarebbe stato di 142 miliardi di euro nel decennio.

E sottolineando, ancora, che di 50 miliardi sarebbe poi stato l’incremento di prodotto del 2010, nel caso di un’accessibilità delle Regioni del Sud pari  ai migliori parametri dell’area Nord, cioè quelli della Regione Lombardia.

Accessibilità e crescita: è una relazione fortissima, su cui si registra vasto consenso.

E’ emerso anche dai contributi alla discussione recati, in sede di interventi e di tavola rotonda,  da tutti gli autorevolissimi partecipanti al confronto, che davvero ringrazio per avere accettato il nostro invito.

Un ringraziamento particolare desidero, poi, rivolgerlo al Ministro Corrado Passera, il cui intervento concluderà i nostri lavori.

Ministro -  è noto, ma merita di essere sottolineato – per lo sviluppo economico e per le infrastrutture ed i trasporti: a riprova della centralità delle “politiche di sviluppo dell’economia reale”, come il Presidente Monti volle rimarcare già in occasione delle sue comunicazioni programmatiche alle Camere.

E di più crescita e di più sviluppo fondati sulle ragioni dell’economia reale, oggi, l’Europa e l’Italia hanno più che mai bisogno.

Perché è chiaro che la disciplina fiscale e di bilancio è necessaria.

Ma, da sola, non basta.

E men che meno basta in un contesto di recessione che avanza e che picchia particolarmente duro in Italia. Mettendo così in discussione tanto il consolidamento degli obiettivi di finanza pubblica, quanto la sostenibilità economica e sociale del fiscal compact.

E’, insomma, questo  – a proposito di nodi da sciogliere per competere – il nodo dell’integrazione, europea ed italiana, del fiscal compact con l’economic compact.

Integrazione per via di riforme di struttura e, dunque, per via di liberalizzazioni e di semplificazioni, di riforme del sistema di sicurezza sociale e del mercato del lavoro.

Ma integrazione che passa, anche e particolarmente, dalla capacità di sbloccare e sostenere investimenti per le infrastrutture come “beni pubblici competitivi”.

E di farlo – se mi passate la formula – con strategico realismo.

In altri termini, tenendo insieme il primato operativo di quanto è tempestivamente finanziabile e cantierabile – massimizzando, così, il ruolo anticongiunturale degli investimenti in infrastrutture – con la coerenza di disegno delle “reti” di trasporto e logistica quali investimenti per l’Italia dell’oggi e del domani.

Così annota, al riguardo,  il Programma Nazionale di Riforma per il 2012: “L’Italia è in ritardo nell’ammodernamento delle reti plurimodali di trasporto …soprattutto nei nodi … e nei collegamenti tra archi e nodi”.

Ecco – come abbiamo spesso detto – non si tratta di attardarsi sulla dicotomia tra “piccole” e “grandi” opere, ma di muovere dal concetto di “opere necessarie”, realmente e prioritariamente necessarie.

E’ questa la “filosofia” politica che anima il nostro Manifesto, con l’obiettivo di abbattere il dato notissimo dei 40 miliardi di euro annui a carico del sistema-Paese quale costo dell’inefficienza logistica.

Ne derivano le priorità d’intervento già analiticamente ricordate da Paolo Uggè e che io, in sede di conclusioni, provo a riassumere sinteticamente.

Citando, anzitutto, un brano del “Manifesto”: “Confermare i progetti TEN-T, che garantiscono l’ancoraggio dell’Italia all’Europa continentale, favorire la concentrazione dei traffici presso alcuni porti strategici, integrare questi ultimi in maniera efficace con le reti di trasporto terrestre, gli interporti e le piastre logistiche, incoraggiare lo sviluppo della co-modalità e delle autostrade del mare, sono passaggi irrinunciabili perché la logistica possa acquisire un ruolo propulsivo nello sviluppo dell’economia e nell’attrazione di nuovi traffici commerciali”.

Passaggi irrinunciabili e da declinare – procedo per titoli generali – favorendo l’evoluzione logistica dell’autotrasporto e valorizzando le potenzialità del cluster  marittimo, orientando il trasporto aereo e potenziando il trasporto ferroviario e il trasporto pubblico locale attraverso la leva della concorrenza.

Rispetto a questo disegno, è essenziale l’accelerazione di due snodi: la tempestiva e piena operatività dell’Autorità indipendente di regolazione e la rapida attuazione del Piano della Logistica.

Piano della Logistica, di cui costituisce parte integrante il Piano Nazionale per la Mobilità Urbana.

Per il sistema dell’economia dei servizi che si ritrova in Confcommercio, è questo un punto essenziale.

Poche cifre ne danno immediato conto: nella dimensione urbana si concentra oltre il 70% della domanda di mobilità del Paese e si addensa l’economia dei servizi.

Nelle grandi e medie aree urbane, il costo della congestione è stimato nell’ordine di 11 miliardi di euro all’anno.

Definire un Piano, costruire un Patto, organizzare un Fondo sono, allora, emergenze vere, cui dare risposta per assicurare, nelle nostre città, un approccio integrato per la mobilità delle persone e delle merci.

Insomma, per le città italiane, chiediamo di reagire alla “desolante prospettiva – cito dal Manifesto - di ‘immobilità sostenibile’, frutto di debolezze strutturali e risposte emergenziali alle sempre più stringenti normative europee sulla qualità dell’aria”.

Occorrono, invece,  programmazione e confronto per cogliere insieme quattro grandi obiettivi: la sostenibilità ambientale, la sostenibilità economica, la sostenibilità logistica, la sostenibilità sociale.

Merita, in questo contesto, di essere ricordata la “buona pratica” del protocollo d’intesa sulla logistica urbana, siglato, a maggio del 2011, tra la Consulta Generale dell’Autotrasporto e della Logistica e l’ANCI.

La mia incursione sui contenuti del “Manifesto” è stata rapida, ma – lo spero – utile a corroborare la tesi sul circuito virtuoso che intercorre tra infrastrutturazione di territorio, reti dei trasporti e della logistica, ruolo propulsivo delle città e dei servizi, risposta alla recessione, rafforzamento competitivo e ritorno alla crescita.

Tesi e temi aperti anche nel dibattito politico-economico europeo, come è noto. Lo ricordava qualche tempo fa, in un bell’articolo pubblicato sulle colonne del Sole 24 Ore, Giuliano Amato.

“In sede europea – scriveva Amato – vi sono progetti per infrastrutture, reti, comunicazioni, circolazione di innovazioni, che possono migliorare nel tempo le nostre economie e cambiare da subito le aspettative di investitori e operatori. Ebbene, sono progetti paralizzati, perché non ricevono i finanziamenti, che pure sul mercato potrebbero trovare”.

“Il rimedio ci sarebbe – concludeva Amato – ed è costituito dai project bonds, titoli che potrebbero essere emessi dalla Banca Europea degli Investimenti, senza gravare né sui debiti nazionali, né sul debito europeo”.

E’ il modello, in chiave unionista, delle grandi Casse Depositi e Prestiti di Francia e Germania e, a partire dai primi anni duemila, anche della nostra Cassa Depositi e Prestiti.

Cassa, il cui intervento si rende indispensabile “per strutturare piani finanziari – ha annotato il Presidente Franco Bassanini – che il sistema creditizio-finanziario riesce a coprire solo per i segmenti a breve e medio-breve termine”.

Dei project-bond, è stato annunciato, dopo un’annosa discussione, il debutto operativo entro l’estate. Bene. Perché il fabbisogno finanziario dei  principali interventi infrastrutturali europei è stimato nell’ordine di 250 miliardi di euro fino al 2020.

D’altra parte, e più in generale, quanto può ancora reggere il disegno europeo, se non si traggono tutte le conseguenze dal riconoscimento del fatto che la crescita è – lo ha detto il Presidente Monti – il vero “tallone d’Achille” dell’Europa?

Dell’Europa e – mi permetto di aggiungere - ancor più dell’Italia.

Di un’Italia in cui il finanziamento degli investimenti infrastrutturali chiama in causa il tema di un tempestivo e rigoroso avanzamento della revisione della  struttura quantitativa e qualitativa della spesa pubblica.

Revisione da condurre all’insegna del meno sprechi, meno corruzione e meno spesa corrente, e del più investimenti in conto capitale ed in combinazione con lo stimolo alla finanza di progetto. 

Sull’uso delle risorse pubbliche per l’infrastrutturazione del Paese, il Programma Nazionale di Riforma, infatti, ricorda che “il cofinanziamento di parte pubblica passa dal 90-100 per cento degli anni ’80 e ’90 al 50 per cento degli anni 2000 con la Legge Obiettivo. Nei prossimi anni, si ritiene che tale soglia non sarà superiore al 30 per cento”.

Nessuno ha la bacchetta magica, certo: né i governi “politici”, né i governi “tecnici”.

Ma, con il contributo di tutti, una nuova stagione va aperta.

Nuova, perché, dal 2004 al 2011, la spesa per investimenti in opere pubbliche si è ridotta, nel nostro Paese, di circa un terzo in termini reali.

Nuova, perché, per le prospettive del Mezzogiorno, è vitale mobilitare le risorse disponibili – comunitarie, nazionali e regionali – ai fini del rafforzamento della sua dotazione infrastrutturale.

Tenendo presente che, naturalmente, non si tratta soltanto di accelerare capacità di spesa, ma anche e soprattutto di accrescere la qualità della spesa.

L’aneddotica dell’incompiuto e del mal fatto, infatti,  è purtroppo ricchissima. Talmente ricca da consentire, nel nostro Paese, la paradossale celebrazione del festival delle opere incompiute.

Ma, tra le tante storie possibili, la storia della nascita, dell’ascesa e del declino del porto di Gioia Tauro sembra condensare in sé larga parte del racconto delle virtù e delle debolezze civili della nostra Italia.

Il racconto di una nascita e di una ascesa sulla base di una visione imprenditoriale strategica dello sviluppo del traffico container e del concorso degli strumenti della contrattazione negoziata.

Il racconto del declino di un porto in cui i container arrivano, ma ne escono con difficoltà per le drammatiche carenze di strade e ferrovie.

Il racconto di un sistema produttivo territoriale che, intorno al porto, non decolla.  Ed il racconto della centralità del controllo di sicurezza e legalità per le politiche per lo sviluppo.

Centralità ribadita nei protocolli di legalità con il Ministero degli Interni, sottoscritti da Confcommercio e, specificamente per l’area dei trasporti, da Conftrasporto.

“Historia magistra vitae”. E dunque, sul piano politico e civile, queste storie vanno raccontate non per indulgere ai sentimenti del “declinismo”, ma – tutto al contrario – per farne lezione e sprone dell’ambizione del fare di più e di meglio.

Fare di più e di meglio: rafforzando la selezione delle priorità e, anche nell’ottica del contenimento dei costi, la qualità di una progettazione “più frugale” e gestibile per lotti successivi e funzionali. 

Fare di più e di meglio, in particolare, sul terreno della governance delle infrastrutture, cioè dei meccanismi di partecipazione alle scelte e di decisione degli investimenti infrastrutturali.

Il  “caso” della TAV Torino-Lione è emblematico.

Ma, al di là del “caso”, ciò che fa riflettere e che davvero preoccupa è che il  Nimby Forum segnali, per il 2011, ben 331 casi di contestazione di opere di pubblica utilità e di insediamenti produttivi.

Il che sospinge alla compiuta istituzionalizzazione, nel nostro Paese, del modello francese del débat public.

Va, insomma, proceduralizzato e sistematicamente applicato il metodo del confronto pubblico con gli attori territoriali, favorendo per tempo la conoscenza dei progetti e della correlata analisi costi-benefici ai fini del miglioramento degli interventi previsti e delle loro positive ricadute negli ambiti territoriali.

Occorre, insieme, una tempistica certa degli iter autorizzativi ad ogni livello e la scelta di cooperare per la condivisione delle competenze piuttosto che la rivendicazione di conflittuali competenze.

Il riferimento alla vicenda del rigassificatore di Brindisi è qui dovuto: dopo undici anni di adempimenti istruttori e di iter autorizzativi, gli inglesi di British Gas hanno rinunciato alla realizzazione dell’opera, nonostante avessero già speso 250 milioni di euro.

Emerge in particolare, al riguardo, l’esigenza di una mirata riforma dell’articolo 117 della Costituzione.

Questa riforma dovrebbe portare alla soppressione delle competenze concorrenti in materia di impianti e infrastrutture strategiche, attribuendo invece, in materia,  competenze esclusive tanto alle Regioni,  quanto allo Stato.

E riservando, appunto, alla competenza esclusiva dello Stato le infrastrutture strategiche di interesse nazionale individuate dal CIPE nel Piano nazionale infrastrutture e nei suoi aggiornamenti.

Per la mobilitazione degli investimenti privati e per il decollo del Partenariato Pubblico Privato, è poi necessaria, in generale, una chiara regolazione.

Regolazione che individui, con certezza, compiti, procedure e tempi delle realizzazioni; che contrasti la reformatio in pejus,  introducendo una clausola di invarianza delle regole in corso di contratto o concessione; che sancisca un efficace trattamento fiscale dei project bond, già introdotti nel nostro ordinamento.

Sappiamo – caro Ministro, caro Corrado – che il “cantiere” degli interventi normativi ed amministrativi  e delle scelte di finanziamento è già stato avviato.

Sappiamo – come ricorda il Programma Nazionale di Riforma – che “non partiamo da zero”.

Che possiamo muovere dall’accelerazione dei tempi decisionali del CIPE.

Che possiamo fare leva su un parco progetti approvati dal CIPE che supera il 75 per cento del Programma delle Infrastrutture Strategiche,  e su finanziamenti garantiti per 69,5 miliardi di euro rispetto al valore globale delle opere del perimetro CIPE pari a 133 miliardi di euro. 

Acceleriamo ancora. Ne trarrà giovamento la crescita dell’Italia: per l’oggi e per il domani.

Il nostro contributo – ne è testimonianza il “Manifesto” -  non mancherà.  

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