Intervento del Presidente Sangalli all'Assemblea Straordinaria Confcommercio 2006

Intervento del Presidente Sangalli all'Assemblea Straordinaria Confcommercio 2006

Roma, 14 novembre 2006

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14 novembre 2006

Cari Amici,
perché questa Assemblea Straordinaria?

Semplicemente perché, qui ed oggi, noi vogliamo e dobbiamo porre una grande ed importante questione politica: il Paese ha bisogno di cambiare rotta.

Lo si può fare, lo si deve fare e bisogna farlo presto e bene.

Il nostro Paese, l'Italia, ha, infatti, alle sue spalle anni difficili. Anni in cui l'economia è cresciuta troppo poco, i conti dello Stato sono peggiorati e competere con la concorrenza internazionale è divenuto sempre più faticoso.

Hanno pesato, nel determinare tutto ciò, le incertezze dello scenario economico globale dopo la tragedia dell'11 settembre del 2001 e, in particolare, il loro impatto su un'Europa, che ha stentato, e ancora oggi stenta, a perseguire con determinazione l'obiettivo della accelerazione della crescita.

Ma bisogna essere franchi. E riconoscere che ancor di più hanno pesato, nel nostro Paese, ritardi di lungo periodo e, troppo spesso, è mancato il coraggio.

Il coraggio di fare i conti sino in fondo con la realtà e di trarne le logiche conseguenze. La necessità, cioè, di chiedere a tutti di fare la propria parte, di fare anche tutti i sacrifici necessari.

Ma di farli – ecco il punto fondamentale – per realizzare quelle riforme che occorrono per rimettere in moto il Paese e, dunque, per costruire più crescita, più sviluppo, più occupazione.

E – guardate – io penso che questo deficit di coraggio sia certamente un problema dei Governi che si sono succeduti e delle forze politiche, di maggioranza come di opposizione.

Ma penso anche che sia un problema più generale della società italiana.

E nessuno si può chiamare fuori. Né le imprese, né i sindacati dei lavoratori. Né il privato, né il pubblico. Né lo Stato centrale, né le Regioni e gli enti locali.

Sento già le critiche. Ma così si spara nel mucchio, si fa demagogia e qualunquismo.

No, non è così. Sto invece dicendo che abbiamo, tutti e nessuno escluso, una parte di responsabilità. E che riconoscerlo è il primo passo da fare per cambiare rotta.

Perché, altrimenti, i conti non tornano. E non si capirebbe, in sostanza, per quali ragioni analisi e terapie d'intervento sono spesso largamente condivise, ma poi non divengono scelte concrete ed operative.

In queste condizioni, l'Italia non può più andare avanti.

Anche perché, intanto, gli altri non stanno certamente fermi. E, oggi, a galoppare non sono solo le economie della Cina e dell'India o la locomotiva statunitense.

A poca distanza da noi e in pochi anni, è stata la Spagna a costruire una straordinaria storia di successo. Ieri, la Spagna di Aznàr e, oggi, la Spagna di Zapatero.

La Spagna che ha costruito un moderno mercato del lavoro ed ha investito in infrastrutture; la Spagna che ha saputo far fruttare le risorse dei fondi strutturali comunitari e che ora – notate bene – sceglie di abbattere il carico fiscale sui cittadini e sulle imprese, così come – sempre per le imprese – lo sta facendo la Germania.

La Spagna del turismo, che è seconda negli arrivi mondiali, mentre l'Italia è scivolata al quinto posto.

La Spagna che attrae capitali esteri e giovani talenti. Anche molti nostri giovani talenti.

Il che consente oggi, a Zapatero, una previsione di questo tipo : "ll ritmo della nostra crescita ci permetterà di superare nei prossimi quattro anni, in termini di reddito pro-capite, Paesi come l'Italia".

Ecco perché oggi siamo qui.

Per dire – chiaro e forte – che noi non ci rassegniamo ad un'Italia che resta al palo.

Per dire – chiaro e forte – che chiediamo un Governo ed una politica che, come noi, non si rassegnino e scelgano, invece, di fare tutto quanto è possibile, tutto quanto è necessario perché anche l'Italia, la sua economia, le sue imprese corrano e crescano.

Per dire che, nei prossimi quattro anni, sapremo fare di più e meglio della Spagna.

Del resto, le imprese – ed anzitutto, se mi è consentito, le imprese che noi rappresentiamo – sono abituate alle sfide.

Anzi, a dirla tutta, oggi fare impresa è, in questo Paese, una sfida quotidiana.

Insieme al Censis, la cui collaborazione è sempre preziosa, abbiamo cercato di fotografare, in occasione di questa Assemblea straordinaria, la fatica di questa sfida.

I numeri contenuti nel rapporto che ne è nato, sotto il titolo "L'impresa di fare impresa", sono chiarissimi.

Siamo in coda alla graduatoria dei Paesi OCSE come il Paese in cui è più oneroso avviare una nuova impresa e solo la Grecia sta messa peggio di noi.

Siamo penultimi in Europa per i tempi ed i costi necessari per ottenere permessi, autorizzazioni, licenze, concessioni. E solo il Portogallo sta messo peggio di noi.

Secondo i calcoli della Banca Mondiale, l'ammontare complessivo del prelievo fiscale e contributivo può arrivare a pesare, in Italia, per il 76% degli utili d'impresa.

Il 76% rispetto al 47,8% medio dei Paesi OCSE e al 25,8%, ad esempio, dell'Irlanda.

In Italia, ci vogliono 1.210 giorni per arrivare ad una sentenza ingiuntiva che faccia rispettare i termini di un contratto commerciale contro i 300 giorni che occorrono negli Stati Uniti.

Abbiamo le bollette per l'energia più salate in Europa e la burocrazia costa alle imprese dei servizi più di 8 miliardi di euro all'anno.

Ecco, basterebbe la sequenza di questi numeri, di queste cifre per spiegare le ragioni, buone e profonde, di questa nostra Assemblea Straordinaria.

Ma c'è, naturalmente, di più. C'è stata, c'è la goccia che ha fatto traboccare il vaso.

E questa "goccia" è la manovra finanziaria per il 2007 varata dal Governo.

Anche se la metafora della "goccia" è francamente inadeguata rispetto alle dimensioni di una manovra che sfiora i 40 miliardi di euro, con un "diluvio" di maggiori entrate per poco meno di 29 miliardi di euro e una crescita della pressione fiscale fino a nuovi livelli da record.

E ciò nonostante le entrate siano intanto già cresciute, nei primi nove mesi del 2006, di oltre 26 miliardi di euro.

Altro che riduzioni strutturali della spesa pubblica, come era stato promesso con il Dpef!

La spesa la si riduce per poco più di 11 miliardi di euro e, contestualmente, si sbloccano le addizionali per Regioni ed enti locali, si fanno debuttare i nuovi tributi di scopo e si reintroduce la tassa di soggiorno!

La tassa di soggiorno: davvero una bella idea per un Paese che, sul turismo e sul suo patrimonio ambientale e culturale, dovrebbe al contrario investire per coglierne tutte le opportunità!

Davvero un bel modo per dare seguito a tutte le affermazioni sul turismo come risorsa fondamentale per il Paese!

Ma – si dice – ci sono un po' meno di 20 miliardi di euro formalmente stanziati per sostenere crescita e sviluppo, oltre ai 15 circa necessari per ridurre l'extra-deficit.

Ma con che risultati – rispondo – se lo stesso Governo, la Commissione europea, il Fondo Monetario Internazionale prevedono poi, per il prossimo anno, una crescita del PIL italiano tra l'1,3% e l'1,5% ?

Prevedono, cioè, un rallentamento della crescita rispetto all'1,7% con cui dovrebbe chiudersi, per effetto della "ripresina", l'anno in corso ?

Insomma, altro che risposta alla "sfida spagnola"!

La Spagna crescerà del 3,8% nel 2006 e del 3,4% nel 2007!

Da noi, invece, si è scelta la via facile: più tasse e più risorse per il pubblico impiego, rinvio della necessaria riforma delle pensioni e, ora, anche l'intervento a "gamba tesa" del Ministro Damiano sui contratti a termine!

A "gamba tesa" rispetto ad una materia già largamente disciplinata dai contratti collettivi e che sarebbe giusto affidare all'autonomia del confronto tra le parti sociali.

A "gamba tesa" rispetto ad una realtà italiana in cui la flessibilità contrattata serve per contrastare la precarietà del lavoro nero e della disoccupazione e per produrre occupazione regolare.

Il che, poi, dovrebbe essere l'obiettivo fondamentale per un'Italia in cui il numero di chi lavora e di chi cerca lavoro è ancora largamente distante dalla media dell'area euro.

Altro che equilibrio politico riformista e rigore tecnocratico nella gestione della finanza pubblica!

È stata la resa al potere di veto del Sindacato e alla sinistra massimalista!

In questo quadro, le misure a carico delle imprese e del mondo del lavoro autonomo fanno venire i brividi. Con un menù che spazia dagli aumenti dei contributi previdenziali per gli autonomi alla stretta sugli studi di settore e all'idea balzana del conferimento del TFR all'INPS.

Sono cose che cerchiamo di dire con obiettività. E, quindi, senza alcuna difficoltà nel riconoscere che, per quel che riguarda l'apprendistato, il Governo ha un po' rimediato.

Ma non si può certo dire che il menù sia complessivamente cambiato.

E, dunque, ci vuole davvero un bel coraggio a sostenere che non c'è di che lamentarsi, non c'è di che protestare, perché le imprese incassano comunque tre miliardi di euro o poco più per la riduzione del cuneo fiscale e contributivo!

Ma davvero il Presidente del Consiglio, il Governo, la maggioranza pensano che questa manovra sia giusta, perché tutti se ne lamentano: dai pensionati alle imprese, dagli enti locali al mondo della sanità privata e alle Università?

Possibile che non si comprenda che tutti protestano non tanto per i sacrifici richiesti, ma perché è, ancora una volta, la prospettiva a mancare ?

Possibile che non si comprenda che, ancora una volta, si è caduti nella trappola dei due tempi: la trappola, cioè, del far intanto quadrare i conti, rinviando, forse e a dopo, le scelte difficili e le riforme?

Del resto, è ora lo stesso Ministro Bersani a sottolineare come, in questa finanziaria, "il tema risanare e riformare – non con un prima e con un poi, ma con un collegamento tra questi due aspetti – sia apparso poco chiaro".

E finanche Epifani dice, ora, che questa finanziaria "non ha cuore, non ha un progetto per il futuro". Ed aggiunge: "Così un governo non può reggere. C'è un'esigenza di responsabilità per poter andare avanti e dare il segno del cambiamento".

Ecco, questo il Governo dovrebbe spiegare, a noi e al Paese: a cosa serva una manovra da 40 miliardi di euro che non rimette in moto la crescita, che colpisce le imprese, che redistribuisce poco e male, che si disperde in mille rivoli di spesa, che non concentra le risorse disponibili su pochi, chiari, obiettivi strategici.

Gli obiettivi delle infrastrutture, del turismo, dell'innovazione del sistema dei servizi, del Mezzogiorno e della risposta alla fatica del competere anche per il Nord del Paese.

Gli obiettivi dell'istruzione, della formazione, della ricerca: ricordati come fondamentali dal Governatore Draghi proprio nello stesso giorno in cui i Rettori delle Università italiane hanno dichiarato che, con questa finanziaria, si rischia la chiusura degli Atenei.

A cosa serve, allora, questa finanziaria?

È una risposta che va data. Se davvero si vuole – come recitava il programma di governo dell'Unione per il 2006-2011 – "il bene dell'Italia".

Anche perché questa manovra – insieme a noi, insieme a gran parte del Paese – non l'hanno fin qui capita neppure le principali agenzie internazionali di rating, che hanno declassato l'affidabilità finanziaria dell'Italia.

I giornali hanno riferito dell'incontro, a Wall Street, tra il Ministro Padoa-Schioppa e le istituzioni finanziarie.

Le cronache di quell'incontro dicono che il Ministro, parlando dell'Europa, avrebbe sottolineato la necessità di superare il sistema delle decisioni all'unanimità e dell'esercizio del diritto di veto e, invece, di "accettare la regola della maggioranza".

Parlava dell'Europa, il Ministro.

Ma a me, e non solo a me, sembra difficile non leggere, in queste sue riflessioni, anche un riferimento all'Italia e alla sua coalizione di Governo.

Alle condizioni politiche, cioè, attraverso le quali è nata e cresciuta una manovra ripetutamente emendata dallo stesso Governo; una legge finanziaria da oltre 200 articoli e 7.000 emendamenti, sostanzialmente non discussa dalla Commissione Bilancio della Camera.

Ma c'è anche di più e di peggio. Perché c'è non solo il testo della manovra, ma anche il suo contesto.

E testo e contesto dicono di un'ostinata e pericolosa determinazione nel suggerire e nel favorire l'idea di un'Italia spaccata.

Spaccata tra i "ricchi" e i "poveri", tra i lavoratori autonomi e i lavoratori dipendenti, tra l'attività d'impresa e l'occupazione dipendente, tra le imprese grandi e quelle piccole e medie.

Ma dove sta questa Italia? Questa Italia non c'è. E resiste, forse, soltanto in alcune ideologie che ci auguravamo fossero definitivamente morte e sepolte.

L'Italia reale invece – quella che noi conosciamo, quella delle nostre famiglie, delle famiglie dei nostri collaboratori, delle famiglie dei nostri clienti – è l'Italia di un ceto medio diffuso che, pur con differenti livelli di reddito, non naviga certo complessivamente nell'oro.

È l'Italia reale dell'impresa diffusa, di quattro milioni di piccole e medie imprese che faticano e dovrebbero essere aiutate a crescere, così come le poche grandi imprese rimaste in questo Paese.

Quattro milioni di piccole e medie imprese, rappresentate da Confcommercio, da Confesercenti, da Confartigianato, da CNA, da Casartigiani.

Organizzazioni che – tutte insieme – hanno detto, lo scorso 30 ottobre, "no" a questa finanziaria in nome di principi e valori comuni: il pluralismo imprenditoriale, la concorrenza a parità di regole, l'impegno per lo sviluppo territoriale e per una maggiore competitività dell'intero sistema-Paese.

È un'immagine distorta dell'Italia – quella suggerita e favorita dalla finanziaria – perché non fa vedere che la reale spaccatura è tra chi, imprenditore o lavoratore, è protetto e garantito e chi non lo è.

Tra chi, imprenditore o lavoratore, gode di rendite di posizione e chi ogni giorno si confronta con il mercato e con la concorrenza, mettendo in campo responsabilità, merito e professionalità.

Ha detto benissimo Aldo Bonomi, parlando di una finanziaria incentrata su "una contrapposizione secca tra lavoratori dipendenti e ceto medio senza comprendere i mutamenti che queste due categorie di lavoratori hanno subito". E cose non dissimili le hanno dette anche Massimo Cacciari, Sergio Cofferati, Riccardo Illy.

Tutti pregiudizi? Difficile crederlo.

Noi, in ogni caso, siamo questa Italia: l'Italia responsabile di chi lavora e fa il proprio dovere. Senza rendite e senza privilegi. Senza ammortizzatori e senza paracadute.

Mentre quell'immagine dell'Italia è non solo distorta, ma – lo ripetiamo – è anche pericolosa.

Perché, tra l'altro, alimenta un concetto dell'uso della leva fiscale più punitivo che redistributivo.

E alimenta, ancora, un'idea della lotta alla piaga dell'evasione e dell'elusione fiscale, in cui i protagonisti vengono indistintamente predeterminati nel lavoro autonomo e nelle partite IVA, nelle piccole e nelle medie imprese.

Dimenticando invece – come pure lo stesso Visco ha ricordato – che si tratta di una patologia che investe trasversalmente ogni settore dell'economia e della società italiana.

Da chi fa il secondo o il terzo lavoro in nero a chi è in grado di costruire "scatole cinesi" e catene di controllo che terminano nei paradisi fiscali.

Da chi fa abusivismo e contraffazione ai protagonisti di tutte le altre forme di criminalità economica.

Abusivismo e contraffazione: un danno per le imprese, un furto per lo Stato, un crimine per la società. Perché un mercato senza legge è un mercato fuorilegge!

Si dovrebbe, dunque, investigare e accertare, mobilitando uomini e risorse dell'amministrazione finanziaria.

Si sceglie, invece, di rendere un po' più automatico l'incremento di gettito atteso dagli studi di settore.

No. Noi a questo gioco non ci stiamo!

Perché pensiamo che ogni contribuente debba essere tassato in base al suo reddito effettivo; perché pensiamo che chi evade ed elude trucca la partita della concorrenza.

Quando si parla di tasse e di doveri fiscali, cerchiamo di essere tutti seri. Ed evitiamoci il gioco sterile tanto delle difese d'ufficio, quanto dell'uso ad orologeria di statistiche fiscali inattendibili per metodo e per merito.

E, oltre agli evasori e agli elusori, pensiamo ai contribuenti onesti e a rendere loro più semplice la vita. Riducendo i tempi per i rimborsi dei crediti fiscali, così come riducendo e semplificando procedure e controlli.

Si pensi, soprattutto, a perseguire tanto la qualità e la riduzione della spesa pubblica, quanto la riduzione delle aliquote.

È in questo modo, e solo in questo modo, che si favorisce l'emersione della base imponibile e che si riduce la pressione fiscale.

Solo in questo modo si combatte, seriamente e con continuità, l'evasione e l'elusione fiscale.

Non con la demagogia, con la gogna della scritta, sulla saracinesca abbassata del negozio, "chiuso per evasione fiscale"!

Torno alla "sfida spagnola": ai quattro anni entro cui Zapatero prevede il sorpasso della Spagna sull'Italia.

Sono i quattro anni che coincidono con il cuore della legislatura che si è appena aperta nel nostro Paese.

Spetta al Governo, alla sua maggioranza, il diritto di governare e il dovere di garantire il valore della stabilità.

Ma la stabilità è naturalmente un valore, se essa esprime una politica coerente con il livello delle sfide che il Paese deve affrontare.

E, a giudicare da questa finanziaria, la coerenza non c'è. Non c'è proprio!

Del resto, abbiamo assistito anche all'inedito spettacolo di una parte del Governo che scende in piazza contro lo stesso Governo.

Altro che coordinamento e coerenza dell'azione di Governo!

Siamo, però, ancora all'inizio della legislatura. E, se lo si vuole, si può ancora cambiare rotta per far cambiare rotta al Paese.

Cambiare rotta: nel merito, come ho già detto. Ma anche nel metodo. Per quel che ci riguarda, nel metodo di confronto tra il Governo e le forze sociali.

Perché, anche sul versante del metodo, il bilancio di questa prima fase della legislatura è, a dir poco, sconfortante.

Si è alternata la ritualità degli appuntamenti di Palazzo Chigi con la sostanza delle relazioni privilegiate con il Sindacato e con una sorta di "voce unica" del mondo delle imprese.

E che "musica" può venir fuori da una concertazione suonata da tre solisti in splendido isolamento?

È un errore gravissimo. Perché, in questo modo, si scinde la rappresentanza dalla rappresentatività reale e, alla fine, a farne le spese è proprio l'economia reale del Paese.

Quella che è certo fatta di industria e di grandi imprese. E noi non siamo così sciocchi da negarlo.

Ma che è fatta anche di servizi e di piccole e medie imprese.

Anzi – a dire il vero – è fatta oggi più di servizi e piccole e medie imprese che di industria e di grandi imprese.

E soprattutto – il che è poi il punto fondamentale – è un'economia che proprio sui servizi e sui trasporti, sul commercio e sul turismo dovrebbe puntare, dovrebbe investire per rafforzare la produttività e per accelerare la crescita.

Prendere atto di questa realtà, sarebbe un bene per tutti: per il Governo chiamato a misurarsi su una politica per i servizi almeno altrettanto rilevante della politica industriale; per il Sindacato, che tanta parte dei lavoratori del mondo dei servizi rappresenta; per le imprese industriali che hanno tutto da guadagnare da un sistema dei servizi più robusto ed efficiente.

Ma, soprattutto, sarebbe un gran bene per il Paese.

Che di una cosa ha soprattutto bisogno: di un vero, concreto, operativo "Patto per la crescita".

Ecco, in conclusione, il senso di questa nostra Assemblea Straordinaria.

È un'occasione per mandare un messaggio preciso, chiaro, forte al Governo e al Paese.

Lo facciamo, come sempre, con rigorosa autonomia dalla politica, ma parlando alla politica.

Analizzando e proponendo; verificando e incalzando. Giudicando, criticando e protestando.

Come sempre, senza alcun pregiudizio. Senza pensare che ci siano Governi più o meno amici.

Come sempre, cercando di far valere le ragioni delle imprese che rappresentiamo.

Perché questo è il nostro compito. E perché ci sembra, ancora, che quelle ragioni siano buone ragioni per l'Italia tutta.

A nostro avviso, dunque, la rotta tracciata dal Governo con la manovra finanziaria per il 2007, va drasticamente cambiata.

È una rotta che non aiuta il Paese, ma che, al contrario, rischia di deprimerne le potenzialità.

È una rotta che non costruisce un Paese più moderno, più efficiente, più competitivo, ma che, al contrario, lascia insoluti nodi da troppo tempo irrisolti.

Le imprese – e quelle che noi rappresentiamo, in particolare – chiedono semplicemente un Paese normale.

Un Paese che consideri le imprese un'opportunità, una risorsa.

Anzi, la risorsa fondamentale per costruire un futuro migliore: per chi lavora, per chi è già in pensione, per chi cerca occupazione e per le generazioni che, domani, entreranno nel mondo del lavoro.

Noi siamo pronti a raccogliere la sfida di Zapatero o di chiunque altro. Ma abbiamo bisogno che, accanto a noi, ci sia un Governo pronto a fare altrettanto.

Se, per ottenere questo obiettivo, è necessario rimettere mano alle regole della politica e del sistema istituzionale – a partire dalle regole elettorali – lo si faccia: con la Costituente, con una nuova Bicamerale o con qualsiasi altro strumento.

Perché così – lo ripeto – non si può più andare avanti.

Così, almeno, la pensiamo noi; così, oggi, la pensa buona parte del Paese.

È "impazzito" il Paese o è questa finanziaria che non comprende il Paese, i suoi bisogni, le sue aspettative?

Caro Presidente del Consiglio, ci pensi anche Lei.

Pensaci, caro Presidente Prodi.

Il tempo utile è poco.

Ma questo Paese, e le sue imprese, sono abituati a giocarsi le partite, tutte le partite fino all'ultimo minuto.

E le partite si possono vincere anche all'ultimo minuto.

Ne siamo convinti.

Grazie.

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