Capitale umano e PMI

Capitale umano e PMI

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3 aprile 2009

Logo prima settimana europea delle PMI (2009)

Il 55% delle Pmi ritiene che il fattore “chiave” della propria competitività siano le risorse umane, anche se un’impresa su due manifesta delle difficoltà nel sostenere il costo del personale, giudicato troppo elevato rispetto al fatturato dell’impresa.

Il 54,5% delle imprese denuncia l’esistenza di fattori che limitano l’efficienza della propria organizzazione aziendale in merito alle risorse umane. Per quattro imprese su dieci la principale criticità è costituita dalla “sottovalutazione dei momenti formativi”, che genera inefficienza e difficoltà soprattutto alle imprese di piccole dimensioni.

Positivo il giudizio delle imprese sulla formazione del personale con mansioni esecutive (per il 53,9% delle Pmi), dei tecnici o quadri (per il 60,7%) e per i dirigenti ( 86,1%).

Il 65,8% delle Pmi qualifica le proprie risorse umane attraverso un percorso formativo svolto nel corso dell’attività lavorativa. Il 60% delle imprese si dichiara pienamente soddisfatta della propria attività di formazione, il 33,5% desidererebbe migliorarla, mentre il 6,5% è insoddisfatta.

Un’impresa su quattro dispone di personale proveniente da altri paesi dell’Unione europea o da paesi extra-europei e per tre imprese su dieci la formazione del personale non italiano è accettabile.

Per oltre il 40% delle imprese a risolvere i problemi di formazione e valorizzazione del capitale umano dovrebbe essere un “soggetto misto” tra pubblico e privato attraverso magari le agenzie formative delle associazioni di categoria degli imprenditori o le agenzie delle Camere di Commercio.

Questi in sintesi i risultati principali che emergono dall’indagine su Capitale Umano e Pmi realizzata da Confcommercio in collaborazione con Format – Ricerche di Mercato.

Il “costo” del capitale umano

Pur con l’attuale congiuntura economica, il 53,6% delle imprese valuta come accettabile e sostenibile l’impatto del personale sul fatturato della propria impresa, il 36,9% ha difficoltà, mentre il 9,4% ritiene per nulla sostenibile e per nulla accettabile tale costo. Nel complesso quasi un’impresa su due manifesta delle difficoltà nel sostenere il costo del personale, giudicandolo troppo elevato rispetto al proprio fatturato e in particolare a soffrirne di più sono le imprese di dimensioni più piccole (6-9 addetti), del Nord Ovest, dei settori del commercio e del turismo. Le imprese che al contrario riescono a sopportare meglio il costo del personale sono quelle di dimensioni più grandi.

Il “valore” del capitale umano

Valore attribuito alle risorse umane

Per il 55% delle imprese le risorse umane costituiscono un fattore determinante per la propria organizzazione, che ne determinano il successo o l’insuccesso a seconda del modo con il quale sono gestite. Per il 47,1% delle imprese il personale costituisce la componente fondamentale della capacità competitiva dell’impresa.

Per le imprese del turismo e dei servizi che operano nel Nord est, le risorse umane costituiscono un vero e proprio “capitale”, e sono alla base della capacità competitiva dell’impresa stessa.

Ordinando per importanza i diversi beni dell’impresa, l’asset al quale le Pmi assegnano il valore maggiore è la “qualità delle risorse umane” ponendo il capitale umano al primo posto tra i beni dei quali dispongono, seguono per importanza: l’organizzazione della produzione, l’organizzazione della vendita, la qualità del management, i beni strumentali, le tecnologie ed infine l’esperienza produttiva e il marchio.

L’importanza ed il valore del capitale umano come parte fondamentale del capitale intangibile dell’impresa prevale tra le medie imprese dei servizi e del manifatturiero, ovunque in Italia.

Ruoli chiave del personale dell’impresa

Per 53,1% delle imprese il management è una risorsa decisiva della propria organizzazione. Il 68,9% delle imprese ritiene che tecnici e quadri siano una risorsa importante dell’organizzazione da gestire con attenzione. La medesima opinione viene riservata dal 55,5% delle imprese per il personale esecutivo, ovvero per figure professionali come gli operai, gli impiegati e gli addetti alla vendita o al magazzino, ecc.

In sintesi un’impresa su due ritiene che i propri dirigenti costituiscano una risorsa importante, e un’impresa su tre ritiene che il proprio personale esecutivo (operai, addetti al magazzino, impiegati addetti alla vendita e alla produzione, addetti amministrativi, ecc.), i propri tecnici ed i propri quadri costituiscano una risorsa decisiva per la propria organizzazione.

La “qualità” del capitale umano

Il 54,5% delle imprese denuncia l’esistenza di fattori che limitano l’efficienza della propria organizzazione aziendale per quanto concerne il personale esecutivo. Il 41,5% denuncia l’esistenza di fattori che limitano l’efficienza della propria organizzazione per quanto concerne i tecnici ed i quadri dell’impresa. Il 36,2% denuncia l’esistenza di fattori che limitano l’efficienza della propria organizzazione aziendale per quanto concerne il management.

I fattori che limitano l’efficienza dell’organizzazione di impresa sono:

  • la resistenza al cambiamento organizzativo (personale esecutivo, management),
  • la sottovalutazione dei momenti formativi (personale esecutivo, management),
  • le competenze apertamente insufficienti (personale esecutivo),
  • la difficoltà a lavorare in squadra, a lavorare con gli altri (tecnici e quadri),
  • competenze solide ma obsolete (management).

Quattro imprese su dieci ritengono che la principale criticità sia costituita dalla “sottovalutazione dei momenti formativi”, sulla quale bisognerebbe intervenire per rimuovere le inefficienze delle proprie organizzazioni. La “richiesta di formazione”, la necessità di un atteggiamento nuovo e più attento nei confronti dei momenti formativi in azienda è più accentuata in prevalenza presso le microimprese, che rispetto alle medie, hanno maggiori difficoltà nella formazione e valorizzazione delle competenze del proprio personale. Prevale nelle Pmi del Sud Italia, nel settore dei servizi e del turismo.

Il “valore” della formazione

La valutazione del capitale umano

Il 55,3% delle imprese valuta la qualità delle risorse umane neo-assunte (conoscenze e competenze), tramite l’immissione nella linea commerciale e produttiva con il controllo di personale esperto. Il 25,6% delle imprese effettua test e prove pratiche. Il 16,5% valuta il personale appena assunto tramite incontri con professionisti esperti di risorse umane.

La formazione del personale “neo assunto”

Il 53,9% delle imprese giudica positiva la formazione del personale esecutivo e soltanto il 16,4% lo giudica insufficiente. Il 60,7% giudica buona o ottima la formazione di tecnici e quadri e ben il 31,9% lo giudica insufficiente, mentre l’86,1% giudica buona o ottima la formazione dei dirigenti e solo il 2,2 % insufficiente.

Le principali criticità riguardano, quindi, il personale neo assunto che ricopre ruoli tecnici (e quadri) che costituiscono, o che dovrebbero costituire, il tessuto connettivo delle organizzazioni delle imprese. Per tre imprese su dieci queste figure professionali hanno una formazione di base insufficiente o del tutto carente, prima di entrare in azienda. Se da una parte quindi le imprese giudicano in modo soddisfacente la formazione manageriale e la formazione del personale esecutivo, dall’altra denunciano l’insufficienza dell’apparato formativo (scuola, università, ecc.) per il personale tecnico, ovvero il personale destinato a svolgere mansioni intermedie nell’ambito delle organizzazioni aziendali. Le carenze della formazione professionale, l’insufficienza della preparazione tecnica delle risorse umane viene messa in evidenza soprattutto dalle microimprese, dalle imprese del Meridione, e dei servizi.

La qualificazione delle risorse umane

Il 65,8% delle Pmi qualifica le proprie risorse umane attraverso un percorso formativo svolto “lavorando”, ovvero nel corso dell’attività lavorativa. Dopo pochi mesi si valuta se una persona è adatta o meno al ruolo o alla mansione che dovrebbe svolgere. La “formazione sul campo” delle risorse umane appena assunte per identificarne le reali potenzialità o meno viene operata in prevalenza dalle microimprese del settore dei servizi e del turismo. Le medie imprese, o comunque le imprese di dimensioni più grandi tendono a qualificare le risorse umane utilizzando politiche più strutturate come i centri di formazione privati, esterni all'azienda, o predisponendo una vera e propria “politica per la formazione” interna basata su percorsi formativi specifici per le diverse figure professionali previste dall’organigramma aziendale.

La formazione effettuata dalle imprese

Il 60% delle imprese è pienamente soddisfatta della propria attività di formazione. Il 33,5% pur dichiarandosi mediamente soddisfatta desidererebbe migliorare le proprie politiche per la formazione, mentre il 6,5% si dichiara apertamente insoddisfatta di come svolge e investe in formazione.

Le imprese meno soddisfatte sono quelle del Meridione del commercio e del turismo.

Il 44,4% delle Pmi desidererebbe aggiornare i propri percorsi formativi interni e il 14,8% vorrebbe specializzare alcune delle proprie risorse umane a svolgere il ruolo di formatore.

Soltanto il 14,9% delle imprese ha sentito parlare di “formazione continua”, un termine molto tecnico, da specialisti del “mercato del lavoro” il significato profondo del quale è certamente conosciuto da un numero ben più elevato di imprese.

Il 26,4% ha intrapreso negli ultimi tre anni iniziative per valorizzare il capitale umano, in prevalenza imprese del turismo di medie dimensioni.

La maggior parte delle imprese che hanno valorizzato il capitale umano fornisce una valutazione sostanzialmente positiva di tali iniziative. Quattro imprese su dieci dichiara che ripeterebbe tali iniziative. E’ interessante notare tuttavia come quasi cinque imprese su dieci, pur esprimendo un giudizio positivo sulle iniziative per la valorizzazione del capitale umano effettuate, ne metta nel contempo in evidenza il costo estremamente elevato e l’impatto piuttosto oneroso sul piano organizzativo.

Il personale proveniente dagli “altri paesi”

Il 25,7% delle imprese dispone di personale proveniente da altri paesi dell’Unione europea o da paesi extra-europei. Più nel dettaglio il 24,2% dispone di personale proveniente dall’Unione europea a 15, ed il 17,3% di personale proveniente dai paesi dell’Unione europea a 27. Il 18,1% delle imprese dispone di personale proveniente da paesi extra-europei.

Il giudizio delle imprese sulla formazione della manodopera straniera, a parte gli aspetti linguistici, è sostanzialmente sufficiente o quanto meno non negativo: il 27,8% giudica la formazione del personale non italiano accettabile, e non molto diversa da quella del personale italiano; per il 17,3% delle pmi i lavoratori provenienti da altri paesi hanno conoscenze di base limitate, ma rispetto ai lavoratori italiani sono più disponibili ad imparare e più flessibili nell’interpretare i ruoli loro assegnati nell’ambito dell’organizzazione.

Il ruolo della Pubblica amministrazione nella valorizzazione del capitale umano

Per il 22,4% delle imprese il soggetto deputato a risolvere i problemi di formazione e valorizzazione del capitale umano dovrebbe essere un “soggetto misto” partecipato dal pubblico e diretto dal mondo dell’impresa privata; per il 20,5% delle Pmi dovrebbero essere le agenzie formative delle associazioni di categoria degli imprenditori. Per il 19% del campione dovrebbe essere un’agenzia pubblica collegata con il mondo universitario e per il 15% dovrebbe essere costituito dalle Camere di commercio.

 

Scheda

Premessa

La correlazione fra istruzione e sviluppo è stata quantificata dall’OCSE nel 5% del tasso di crescita a breve termine e nel 2,5% a lungo termine per ogni anno di innalzamento del livello di istruzione medio della popolazione.

I ritardi nel percorso di attuazione dell’Agenda di Lisbona e le indagini (PISA, OCSE, etc.) condotte sul livello di istruzione degli studenti italiani rappresentano, pertanto, un segnale di seria preoccupazione al quale occorre dare risposte concrete ed immediate.

Lo scenario di crisi che ci si pone drammaticamente davanti richiede, infatti, un forte impegno per la qualificazione del capitale umano, fattore propulsivo della crescita e dello sviluppo, indispensabile per le imprese, soprattutto le piccole e medie, al pari del capitale finanziario.

Scuola e Università: gli interventi necessari

Merito e concorrenza

E’ necessario affrontare i nodi del sistema dell’istruzione secondaria e superiore in modo articolato, ponendo in atto interventi a tutto campo: dall’innalzamento dei livelli di apprendimento, al contrasto dell’abbandono scolastico, dai rapporti con il territorio, ai percorsi curricolari ed alle autonomie scolastiche.

Ma, soprattutto, occorre che, nella scuola come nell’Università, siano concretamente premiati il merito e la responsabilità tanto di chi studia, quanto di chi insegna e fa ricerca. Assicurando così, al nostro Paese, il contributo dei suoi migliori talenti.

Più concorrenza, dunque, perché finanziamenti ed incentivi pubblici premino – sulla base di una rigorosa ed indipendente valutazione – qualità ed eccellenza dei risultati, attraendo così domanda di formazione e finanziamenti privati.

La liberalizzazione delle tasse universitarie, accompagnata da un forte impegno pubblico/privato per la costruzione di un sistema articolato e su vasta scala di borse di studio e prestiti per i meritevoli e bisognosi, se improntata a questi criteri, potrebbe dimostrarsi efficace.

Rapporto scuola-impresa

Occorrono scelte capaci di rendere fluido e osmotico il rapporto con il mondo delle imprese e del lavoro, realtà in continua e rapida evoluzione che richiede professionalità e competenze trasversali, capacità di adattamento, cultura di base e apertura all’innovazione.

Secondo i dati dell’ultimo rapporto Excelsior, infatti, i fabbisogni occupazionali delle imprese del terziario sono relativi a figure tecniche con elevata specializzazione, praticamente irreperibili sul mercato, se non previa adeguata formazione on the job.

Non a caso, da un’indagine realizzata dal principale fondo interprofessionale di settore (FORTE), è emerso che la maggior parte dei progetti di formazione continua realizzati dalle imprese sono finalizzati allo sviluppo delle abilità personali dei lavoratori. Ciò, evidentemente, in risposta ad una inadeguatezza, riscontrata in modo diffuso, delle competenze di base acquisite in ambito scolare.

L’istruzione secondaria a indirizzo tecnico – oggetto di interventi ministeriali non ancora conclusi – deve, pertanto, abbandonare la connotazione di “istruzione di serie B” o di ripiego, per assumere l’importantissima caratteristica di ponte tra il mondo della scuola e quello del lavoro.

Occorre, inoltre, pervenire ad un potenziamento del modello dell’alternanza scuola-lavoro nell’istruzione secondaria ed al riconoscimento di crediti per la formazione svolta presso le imprese ai fini del conseguimento di titoli di studio universitari, come già accade in Gran Bretagna.

Con riferimento ai fondi interprofessionali di settore occorre, infine, rendere più agevole il ricorso da parte delle PMI, il cui tasso di utilizzo – contrariamente a quanto avviene per le imprese di dimensioni medio-grandi – pur cominciando ad aumentare in maniera significativa, è ancora lungi dal ritenersi soddisfacente.

Innovazione

L’innovazione è ormai universalmente riconosciuta come fattore fondamentale per lo sviluppo e la competitività delle imprese, in grado di rilanciare e sostenere una crescita economica che oggi appare molto incerta.

L’ultima rilevazione sulle attività di innovazione delle imprese italiane, svolta nell’ambito dell’indagine europea sull’innovazione (Community Innovation Survey – CIS[1]) nel periodo 2004-2006, evidenzia una sostanziale fase di stallo nell’adozione di innovazioni.

Infatti, rispetto al precedente periodo (2002-2004) la percentuale delle imprese con almeno 10 addetti che hanno avviato attività finalizzate allo sviluppo e/o l’introduzione di innovazioni sul mercato o sul proprio processo produttivo resta invariata al 27,1% del totale.

In particolare le imprese innovatrici sono state il 36,3% nell’industria in senso stretto, il 17,3% nelle costruzioni e il 21,3% nei servizi.

L’innovazione va, quindi, considerata come elemento orizzontale per tutti i settori economici, soprattutto in un’economia aperta e globalizzata, dove è necessaria la giusta integrazione e comunicazione tra attività di produzione e attività di servizio.

La competitività di un’impresa non si misura solo dalla “quantità” di tecnologia utilizzata in un prodotto, ma, soprattutto in un’economia sempre più terziarizzata, anche dall’innovazione non tecnologica nei processi e nell’organizzazione della produzione di beni e servizi: organizzazione del lavoro, marketing, logistica, nuove formule distributive e commerciali, etc.

Con la Comunicazione della Commissione europea del 2006, riguardante la disciplina su Ricerca Sviluppo e Innovazione, si supera il tradizionale orientamento tendente ad associare l’innovazione alle attività di tipo manifatturiero ed ad identificarla principalmente in termini tecnologici e “tangibili”.

Con questa Comunicazione viene per la prima volta espressamente prevista la possibilità di definire regimi di aiuto (agevolazioni finanziarie) destinati a favorire l’innovazione dei processi e dell’organizzazione nei Servizi, intesi tanto come attività di “servizio” relative ad attività manifatturiere che come “settore dei servizi” non ancillare alla produzione industriale.

Si tratta di un risultato di notevole rilevanza al quale hanno contribuito tanto gli studi realizzati in sede OCSE che l’evidenza dell’evoluzione in senso terziario dell’economia ed al quale ha contribuito anche l’azione svolta da Confcommercio in sede nazionale e comunitaria.

Dopo gli interventi normativi a livello europeo e nazionale, le amministrazioni centrali e regionali hanno finalmente programmato per il periodo 2007-2013, numerose misure agevolative per l’innovazione dei servizi.

Nel 2008 si sono così avviati i primi bandi regionali che prevedono sostegni finanziari per investimenti innovativi nell’ambito commerciale, turistico ed, in generale, per tutto il settore terziario, che comprendono sia l’innovazione tecnologica che organizzativa.

Sempre su queste linee di azione, il Ministero per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione, con patrocinio della Presidenza della Repubblica Italiana, riconoscendo la centralità dell’innovazione nel terziario e il ruolo svolto da Confcommercio nello studio e nella definizione di policy specifiche per il settore dei Servizi, inserisce a pieno titolo il “Premio Nazionale per l’innovazione nei Servizi”, istituito e gestito direttamente da Confcommercio ed aperto a tutte le imprese italiane del settore, all’interno della Giornata nazionale dell’Innovazione che avrà luogo nel prossimo mese di giugno.

In definitiva, l’innovazione nei Servizi è passata negli ultimi anni da pura definizione empirica, a misure ed interventi concreti programmati, finanziati e diffusi dalle istituzioni nazionali ed europee.

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[1] Il Regolamento UE n. 1450 del 13/08/2004 prevede che la CIS, condotta sulla base di criteri di rilevazione armonizzati a livello europeo, fornisca con cadenza biennale un set minimo di indicatori sulle attività innovative delle imprese con almeno dieci addetti attive nell'industria, nelle costruzioni e nei servizi.

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