Commercio Internazionale: "vincoli ed opportunità"

Commercio Internazionale: "vincoli ed opportunità"

Convegno ALCE (Associazione Ligure Commercio Estero)Genova 21 maggio 2004

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21 maggio 2004
Commercio Internazionale: vincoli ed opportunità”
Commercio Internazionale: vincoli ed opportunità”

 

Convegno ALCE (Associazione Ligure Commercio Estero)

 

Genova 21 maggio 2004

 

Intervento del Presidente

Sergio Billè

 

Qualche mese fa, l’Espresso ha pubblicato  un interessante articolo di Moses Naim, direttore di Foreign Policy, che, molto efficacemente, si apriva con una sorta di sequenza numerica : 8,3 e 1,14; 7,2 e 0,4; 175 e 25; 1.059.

 

Cosa erano – nel novembre 2003 - questi numeri : 8,3 era  il numero dei renmimbi cinesi che servivano per comprare un dollaro; 1,14 era il numero di dollari che servivano per comprare un euro; 7,2  il tasso di crescita dell’economia Usa nel terzo trimestre di quest’anno; 0,4  il tasso di crescita dell’area Euro per il 2003; 175 i milioni di dollari raccolti da Bush per la sua rielezione; 25 i fondi raccolti dal candidato democratico Howard; 1.059  il numero dei soldati americani uccisi in Iraq dopo la conclusione ufficiale del conflitto nel mese di maggio.

 

Questa serie numerica ci diceva, e ci dice, con efficace e drammatica sintesi come e quanto il nostro mondo sia globalizzato. E ci dice anche, quasi con esattezza contabile, cosa oggi voglia dire discutere di politiche e di strumenti per l’internazionalizzazione.

 

Perché questo è, a mio avviso, il primo punto. La lettura della crisi di competitività della nostra economia e il declino della nostra partecipazione all’export mondiale – con una quota ridottasi, a prezzi costanti, dal 4,5 del 1995 al 3,6 del 2002, come ha ricordato nella sua ultima Relazione. in occasione dell’Assemblea della Banca d’Italia, il Governatore Fazio – va esattamente ricondotta alla difficoltà del Paese a partecipare e ad incidere sui mega-trends dello scenario globale.

 

Certo, è importante che, a marzo e per il secondo mese consecutivo, il valore dell’export italiano sia cresciuto del 9,9%, realizzando la migliore performance dal giugno del 2001 e confortano le previsioni del rapporto Ice-Prometeia circa la sua crescita nel biennio 2004-2005.

 

Una crescita, tuttavia, che avrà un ritmo meno sostenuto rispetto all’andamento del commercio mondiale, e che ci vedrà in particolare affanno sui mercati asiatici e ,anzitutto, su quello cinese. Migliore il nostro posizionamento rispetto all’andamento dell’export nei confronti della nuova Europa allargata. E debolissima, infine, la nostra partecipazione all’export “tecnologico”.

 

Dunque, est modus in rebus : occorre rafforzare le protezioni doganali, senza soggiacere alle sirene di liberisti interessati ed unilaterali, ma soprattutto incidere, ad esempio, sulle scelte valutarie del Governo cinese; bisogna rafforzare la tutela e la promozione dei marchi italiani ed europei, ma anche interrogarsi sulle possibilità di tenuta degli attuali livelli del deficit commerciale statunitense; non bisogna gioire troppo del rafforzamento dell’euro sul dollaro, in presenza di un crescente divario di crescita e di produttività tra Europa e Stati Uniti e di una persistente lettura totemica del Patto di Stabilità. E – last but not least – occorrono condizioni di sicurezza globale.

 

Insomma, sul terreno del governo della globalizzazione, sperimentiamo sino in fondo la crisi della forma-Stato o perlomeno dei fondamenti nazionali della politica economica.

 

La mia prima tesi è dunque che, oggi, il presupposto di efficaci politiche e strumenti per l’internazionalizzazione dovrebbe essere la costruzione di una rete efficace di governance della globalizzazione attraverso l’azione concertata dei suoi grandi attori : Fondo monetario e Banca Mondiale, G7 ed OCSE, ONU e sue agenzie, e così via.

 

Dall’est modus in rebus non voglio naturalmente dedurre che, per così dire, qui ed oggi nulla si possa e si debba fare. Al contrario. Quel che voglio invece dire è che dobbiamo mettere in campo una strategia che faccia esattamente leva su una pluralità di strumenti : da un rafforzato ruolo del Paese nello scenario internazionale puo’ e deve insomma derivare una rafforzata capacità di partecipare alle scelte politiche alte che ho sommariamente cercato di delineare.

 

Oggi più che mai, in altri termini, l’ambito delle politiche per l’internazionalizzazione non è questo o quel prodotto, questo o quel servizio, l’uno o l’altro settore, ma è esattamente la capacità del Paese di essere e fare sistema.

 

Dentro questo concetto di sistema – direbbe il Censis dentro il passaggio da paese contenitore a sistema paese  – stanno alcune priorità :

 

-           il riorientamento di politiche e risorse della nostra diplomazia secondo il modello canadese della diplomazia commerciale, con il riordino della rete policentrica di rappresentanza e promozione del Paese all’estero : ambasciate, uffici commerciali e consolati, camere di commercio italiane all’estero, uffici ICE ed  Enit, rappresentanze regionali;

-          la concertazione interistituzionale tra gli attori della politica commerciale estera del Paese : Ministeri, Regioni, Agenzie, Camere di commercio;

-           

il riconoscimento non solo teorico, ma anche pratico ed operativo del concetto di sussidiarietà orizzontale nella costruzione della politica commerciale estera del Paese, nell’età della sua costituzione formale federalista e del suo farsi costituzione materiale.

 

  Per crescere meglio e di più, dobbiamo insomma decidere quale è il livello di posizionamento strategico del Paese nello scenario internazionale, mobilitando rispetto a queste scelte tutti gli strumenti della politica economica e le politiche di fattore : recupero del digital divide e potenziamento delle risorse umane; rafforzamento della dotazione di stock infrastrutturale e della logistica di servizio all’export; valorizzazione dei grandi assett : territorio ed impresa diffusa.

 

Andamento dell’export ed equilibri e squilibri della bilancia commerciale sono, in buona sostanza, lo specchio del modello di sviluppo prevalente: di quel tanto di sostegno indifferenziato all’industria che si è praticato per ritrovarci poi, oggi, con produzioni mature ed esposte alla concorrenza dei new-comers, e di quel poco che si è fatto, quando era il momento di farlo, per apprezzare qualità ed innovazione.

 

Troppo monocultura della 488 e troppe riserve di caccia alla fine si pagano.

 

Territorio ed impresa diffusa, dicevo. Per valorizzare questi assett, anche sul terreno dell’export e delle politiche per l’internazionalizzazione, occorre più concertazione interistituzionale, ma anche tra pubblico e privato, per  replicare e diffondere le buone pratiche, in larga parte spontanee, che stanno dietro molte storie di successo : l’institutional building dei distretti e la pratica di filiera; vocazione alla qualità e valorizzazione dell’italian way of life e del patrimonio delle culture territoriali.

 

Nel loro complesso, cosa ci dicono queste buone pratiche ? Che resistiamo e vinciamo nella competizione rafforzata sull’export quando riconosciamo e pratichiamo il modello della filiera lunga, che trasmette - arricchendo il valore finale – prodotti e servizi, ma soprattutto cultura e valori, cioè, più concretamente, stili di vita e di consumo. E non è forse questo che spiega le storie di successo dell’agroalimentare italiano, negli Stati Uniti come in Francia, nel Regno Unito come nel far-east ?

 

 La filiera lunga è, insomma, quella che sfonda l’integrazione più o meno consolidata tra produzione, trasformazione e distribuzione in direzione del riconoscimento del ruolo strategico degli spazi di socializzazione e diffusione degli stili di vita, cioè dei format tipicamente italiani di distribuzione e consumo : ristoranti, caffè, gastronomie specializzate, un certo modo di fare e vendere la moda.

 

I format della distribuzione italiana, insomma, sono forse oggi le più efficaci e potenti agenzie di promozione del marchio Italia e della qualità delle sue produzioni.

 

Un’altra considerazioni circa le virtù della filiera lunga. Le modalità vincenti sul terreno dell’internazionalizzazione sono oggi quelle complesse che integrano la commercializzazione di prodotto con servizi accessori : dalle reti permanenti di relazioni alle joint-venture. Dal make & buy al make together.

 

Queste modalità complesse rendono ancora più critico, a mio avviso, il rilievo classico circa la criticità delle dimensioni d’impresa rispetto alla propensione all’export ed al learning by exporting.

 

La filiera lunga può appunto svolgere un ruolo importante rispetto a questa criticità agendo come fattore propellente di quell’internazionalizzazione dei distretti e dei territori, che può essere un fattore chiave per l’export dell’agroalimentare italiano.

 

Diviene dunque essenziale la capacità di fornire strumenti e servizi di sostegno all’export che, per quanto possibile, adottino una logica di tipo tailor-made. E, per far questo, occorre un rapporto rafforzato tra agenzie di erogazione di questi servizi ed associazioni di rappresentanza, tra gli specialismi dei produttori di questi servizi e la capacità di puntuale rilevazione dei fabbisogni delle imprese, spesso molto differenziati settorialmente e territorialmente, e di segnalazione delle opportunità.

 

E’ questa, insomma, la logica cui si ispira anche il recente accordo di programma tra Ministero delle Attività Produttive, ICE e Confcommercio, che si propone esattamente come un’occasione importante per accompagnare l’internazionalizzazione dell’economia italiana dei servizi.

 

 

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