Conferenza stampa di Sergio Billè su previsioni economiche, finanziaria, prezzi, consumi

Conferenza stampa di Sergio Billè su previsioni economiche, finanziaria, prezzi, consumi

Roma, 17 settembre 2004

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17 settembre 2004
Testo intervento di Sergio Billè

 

Vengo subito al punto parlando prima di tutto del quadro economico generale cioè di dati, numeri e cifre che non sono coriandoli.

Il punto è, difatti, che proprio non ci siamo.

Non ci siamo perché, contrariamente alle previsioni che erano state fatte lo scorso anno e poi ancora all’inizio del 2004, la nostra economia continua a vivere, in quasi tutti i suoi comparti, una drammatica fase di stallo. Non c’è purtroppo, per ora, nemmeno un refolo di vento che segnali che qualcosa stia finalmente cambiando.

E non ci siamo perché fino a questo momento non ci è stato ancora detto “come” - cioè con quali strumenti - il governo intenda fare per far uscire il paese da questo stato di crisi e per imboccare di nuovo la via dello sviluppo.

E’ una situazione deprimente che carica famiglie e imprese di sempre nuove preoccupazioni.

Certo, il governo, nello scorso mese di luglio, nel Dpef, ha elaborato un piano che contiene una serie di interessanti anche se approssimative indicazioni su quelle che potranno essere le iniziative di tipo congiunturale ma soprattutto di carattere congiunturale da assumere, nel breve periodo, per superare questa crisi.

Ma di questo piano, quando mancano ormai meno di due settimane alla scadenza per la presentazione in Parlamento della legge finanziaria, continuiamo a conoscere solo i titoli e qualche vago sottotitolo.

Non si equivochi sul significato del silenzio che ha caratterizzato il nostro comportamento in tutte queste settimane: non è che non avessimo nulla da dire, anzi, solo che, attendevamo, prima di parlare, di vedere le carte che il governo intendeva realmente mettere sul tavolo.

Ma l’attesa per quello che ci è stato preannunciato come una specie di “new deal” sta diventando troppo lunga e la nostra pazienza è ormai agli sgoccioli.

La nostra come quella delle famiglie.

Il governo si dia dunque una mossa perché il tempo sta scadendo.

In questo piano dovrebbero trovar posto consistenti tagli alla spesa pubblica corrente finalizzati ad una riduzione del deficit e del rapporto debito/Pil, ma nulla ancora si sa sul dettaglio di questa manovra di risanamento dei conti pubblici e su quella che, a conti fatti, potrà essere la sua congruità e la sua reale praticabilità.

E disorienta, per usare un eufemismo, anche il fatto che la parte del piano che dovrebbe essere destinata alla riduzione delle tasse appaia ancora scritta a margine, a matita e in modo assai sfumato.

Non è stato, infatti, per nulla chiarito né chi potrà beneficiare di questa promessa riduzione fiscale né dove e in che modo potranno essere, in concreto, reperite le risorse necessarie per la sua indispensabile copertura.

Non si sa ancora nulla, ad esempio, sulla riduzione dell’Irpef mentre c’è il fondato sospetto che, per quanto riguarda la riduzione dell’Irap, ci sia già qualcuno che sta compilando l’elenco – il solito, da sempre - dei possibili destinatari.

Ma chi scambiasse la nostra prudenza per acquiescenza sbaglierebbe proprio i suoi calcoli.

Ieri sono scesi in piazza i consumatori. Domani, se dovesse verificarsi il peggio, potremmo decidere di andare in piazza anche noi.

Come si sbaglia di grosso chi pensa che le risorse per la copertura di queste riduzioni fiscali possano essere attinte con qualche gioco sporco, ad esempio, truccando gli studi di settore o sottraendo altri soldi dalle tasche delle imprese.

E’ insomma il momento che il governo sollevi i coperchi e ci faccia vedere cosa sta davvero bollendo nelle pentole.

L’unica cosa certa, per ora, è che la manovra di 7,5 miliardi di euro già resa operativa si sta tramutando in una stangata per i possessori di seconde case e per i costi di utenza di banche ed assicurazioni.

O questa stangata non conta? Conta e come!

Al governo dunque rivolgiamo una domanda assai pressante cioè per nulla rituale: mancano ormai meno di due settimane alla scadenza per la presentazione alle Camere della legge finanziaria, ma che fine ha fatto la promessa del governo di concordare anche con le parti sociali i punti più significativi di questa manovra?

Certo, essendoci stato il cambio in corsa addirittura del ministro dell’economia, cosa che certo non accade tutti i giorni nemmeno in un paese politicamente volubile come il nostro, un po’ più di tempo per riflettere ci voleva, ma abbiamo l’impressione che questa attesa, in questa anticamera senza finestre, stia diventando troppo lunga tanto da ingenerare, in alcuni, il sospetto che, sulle vitali questioni di questo paese, stia cambiando forse la forma di approccio del governo con le parti sociali, ma che poi la sostanza rischi, invece, di restare sempre la stessa con il modulo liturgico dei confronti “last minute”, insomma a cose già fatte come appunto è accaduto sempre in questi ultimi anni.

Il “metodo Siniscalco” è diverso? Bene, è proprio arrivato il momento di metterlo in pratica. Ora, subito.

Sono molte le cose che vanno messe in chiaro.

La prima è la reale congruità dei tagli che si intendono attuare alla parte più improduttiva della spesa pubblica. Per anni, su questo tema, abbiamo assistito ad un’interminabile serie di artifici contabili che non solo non hanno risolto nulla ma paradossalmente sono stati utilizzati per gonfiare di più alcuni settori di spesa.

La seconda, come ho già detto, riguarda tasse ed imposte. E’ vero che non è aumentata, anzi è leggermente diminuita la pressione generale, ma è anche vero che, nel frattempo, sono cresciute, in media, del 14% le imposte locali e sono addirittura “volati” i costi di alcuni servizi come, ad esempio, quello dei rifiuti urbani. E fino ad ora non è arrivata dal governo nessuna smentita all’ipotesi di “sbloccare” la corsa a tutta l’area delle “addizionali” di competenza delle amministrazioni locali. Per non parlare poi dei nuovi oneri che comporterà per ogni tipo di utenza l’enorme tassazione che grava oggi sui prodotti petroliferi.

Continuando così non si svuotano solo le tasche dei cittadini, ma si finirà addirittura col bucarle mentre le imprese del commercio, del turismo e dei servizi, vedendo sempre più ridotti i propri margini operativi, cominceranno a non fare più investimenti e a non creare più posti di lavoro.

E fino ad oggi sono state proprio queste imprese a creare più dell’80% dei nuovi posti di lavoro. Il governo ha un’idea di che cosa accadrebbe se esse decidessero di chiudere i rubinetti?

La terza riguarda la competitività del sistema. E’ tornato di moda parlare di liberalizzazioni e della necessità di più moderne logiche di mercato.

Più che giusto, ma se questo deve essere il modulo da seguire per dare sviluppo alla nostra economia, qualcuno ci deve allora spiegare perché, invece, lo Stato, con i soldi dei cittadini, continua a comportarsi come la Caritas elargendo sussidi ad imprese decotte o saldando i debiti accumulati da scandalose gestioni come quelle, ad esempio, che, se vogliamo limitarci al comparto pubblico, si sono avute, ad esempio, all’Alitalia.

E che cosa ha fatto, invece, lo Stato, negli stessi anni, per creare nuove infrastrutture e servizi di base che consentissero a tutte le imprese della grande area dei servizi, prime fra tutte quelle turistiche, per abbassare i costi e migliorare così la loro offerta?

Nulla, di nulla, di nulla: in tutto questo settore, lo Stato e, più in generale, tutta l’amministrazione pubblica sono passate all’incasso emettendo dei “pagherò” che poi però non sono mai stati onorati.

E’ una delle ragioni per cui, in questo paese, si allarga il buco dei debiti ma non si riesce più a produrre la ciambella dello sviluppo.

Tutta la distribuzione commerciale – la piccola, la media e la grande – è impegnata a contenere i prezzi praticati ai consumatori, facendo a sua volta i conti con i costi che si registrano lungo la filiera che va dalla produzione al distributore finale, con una pressione fiscale che non scende e con il peso crescente dei tributi degli enti locali. Ma soprattutto con un’economia ferma.

Questo impegno è testimoniato dagli accordi per contrastare il caro-vita fatti in molte città italiane, ivi compreso il recente caso di Torino.

Questo impegno è testimoniato anche dalla decisione assunta ieri dalla grande distribuzione di tenere fermi i prezzi dei prodotti a marchio commerciale fino al 31 dicembre.

E’ un impegno importante, che apprezzo e che spero sia da tutti apprezzato fino in fondo.

Quanto ai progetti di riforma illustrati da Marzano, credo che sia assolutamente necessario un confronto più ampio.

Un confronto, cioè, che coinvolga le Regioni che – appena qualche giorno fa – hanno ancora una volta ricordato al Ministro che la Costituzione della Repubblica federale affida a loro la competenza esclusiva in materia di disciplina del commercio.

Un confronto che coinvolga tutto il mondo del commercio italiano – food e no food, piccola, media e grande distribuzione – perché le riforme importanti richiedono consenso.

Un confronto, soprattutto, che affronti i problemi “grandi” del commercio italiano: la qualità degli strumenti di programmazione, il ruolo dei centri storici, il recupero delle aree degradate, l’esigenza di sostenere l’innovazione, le discriminazioni persistenti in materia di incentivi e di costi dell’approvvigionamento energetico etc. etc.

Ma, per favore, non prendiamoci in giro dicendo che questa crisi dai fondali oscuri e profondi può essere risolta solo ritoccando o riducendo il prezzo di qualche prodotto per qualche mese.

Tra un po’ ci chiederanno di aprire i negozi anche di notte e magari di mettere le entreneuses al posto delle commesse. Si possono fare molte cose che però rischiano di somministrare solo qualche brodino a famiglie che non hanno più soldi né per mangiare carne né per pagare i mutui della casa né per fare il pieno di benzina né per acquistare i libri per la scuola dei figli. I nostri insomma possono essere solo interventi da pronto soccorso: per rimettere in piedi un sistema economico che oggi - e non certo per colpa dei prezzi - è costretto a stare in camera di rianimazione, ci vuole ben altro.

Questo il governo lo ha capito o no?

Permettetemi una postilla. Pochi giorni fa, in Gran Bretagna, la Camera dei Comuni ha approvato una legge che vieta la caccia alla volpe. Ecco, non vorrei che a qualcuno venisse l’idea, visto che siamo alla vigilia di una nuova campagna elettorale, di varare una legge che sancisse, invece, in Italia, la libera caccia al commerciante.

Perché, se, per caso, questo peregrino e del tutto strumentale progetto prendesse piede in qualche anfratto della politica o altrove, allora davvero vorrebbe dire che questo sistema economico è ormai alla frutta, incapace cioè di distinguere le pagliuzze dalle travi.

Quali sono i problemi più urgenti da risolvere?

1- Sono tre anni che famiglie ed imprese attendono che venga data attuazione alla promessa fatta dal governo nell’ormai lontano 2001 di una congrua riduzione della pressione fiscale. Fino ad ora non si è visto nulla o quasi nulla e tutti, dico tutti ci sentiamo davvero presi in giro. Famiglie da una parte, imprese dall’altra. I pochi soldi disponibili vengono dirottati ad imprese che però non riescono né a produrre sviluppo né nuovi posti di lavoro.

Siamo proprio sicuri che, con questa politica, si salva questo paese dal declino economico? Io ho qualche dubbio e credo di non essere il solo.

Il rilancio della competitività del nostro sistema richiede una sostanziale rimodulazione di tutta la politica economica di questo paese.

2- Cosa aspettano la pubblica amministrazione da una parte e molti comparti dell’economia dall’altra per rinnovare i contratti da tempo scaduti? Il settore del commercio ha già da tempo rinnovato il proprio.

Si aspetta forse che sia ancora una volta lo Stato, con il solito giro di conto, a tirar fuori i soldi necessari agli uni come agli altri? Se così fosse, sarebbe un altro bell’esempio davvero di paese che punta al libero mercato.

Non si riducono le tasse, ma non si mettono nemmeno più soldi nelle buste paga.

Ma in attesa di che? Lo si vuol capire o no che è solo attraverso la cruna di questo ago che può passare il rilancio dei consumi e quindi una maggiore produzione e circolazione di ricchezza?

Non vogliamo dimostrare niente di più di quanto sia stato già ampiamente dimostrato nei documenti ufficiali dell’Unione Europea.

Nel documento del centro studi che oggi vi presentiamo si cerca solo di fare maggiore chiarezza sui dati più significativi della crisi che sta attraversando il nostro paese.

1- Nell’eurozona siamo oggi il paese che cresce di meno. Alla fine di quest’anno, infatti, il nostro Pil crescerà dello 0,9% contro il 3% della Francia, il 3,7% della Gran Bretagna, l’1,5% della Germania e il 2% della media europea. Sommando gli ultimi tre anni la crescita del nostro Pil è stata addirittura inferiore a quella realizzata nel solo 2001. Insomma per quanto riguarda la produzione di ricchezza, in Italia, continua, come ho già detto, ad esserci il buco ma non la ciambella.

2- Prezzi e tasso di inflazione dell’Italia sono oggi in linea, anzi leggermente al di sotto di quelli della media europea. Tra il 2003 e il 2004 il nostro differenziale di inflazione è, anzi, diminuito di un punto rispetto alla media dei paesi aderenti all’euro. Per quanto riguarda i prezzi l’Italia è stata, ad esempio, più virtuosa, nel 2004, della Francia. Chi va sostenendo il contrario e cioè che i prezzi sono più alti in Italia che altrove fa solo bricolage statistico. A fronte di questi dati le vendite al dettaglio, però, sono diminuite in Italia, nel primo semestre di quest’anno, del 2% mentre in Francia sono aumentate dell’1,3% e in Spagna del 3,5%. Il che vuol dire che, a parità di prezzi, le famiglie italiane acquistano di meno dei francesi e degli spagnoli o perché hanno meno soldi in tasca o perché non hanno più voglia di spenderli. Ovviamente sul livello dell’inflazione, ma non soltanto su quella dell’Italia, grava oggi la pesante incognita dell’aumento dei prodotti petroliferi che, nella media, stanno viaggiando a più di 40 dollari al barile contro i 25 dollari del 2003. Solo che, in Italia, il costo dell’energia è di circa il 40% più alto della media europea.

3- I costi delle imprese commerciali, nello stesso periodo, sono, invece, aumentati a causa degli affitti, dei trasporti, delle tasse locali, dei servizi di pubblica utilità e degli incrementi di prezzo della merce acquistata.

4- Continua ad essere abnorme la spesa pubblica corrente che, nel primo semestre 2004, è aumentata, rispetto allo stesso periodo del precedente anno, del 4,4% con un incremento assai superiore al tasso di inflazione e senza nemmeno produrre alcun significativo stimolo per la creazione di nuova ricchezza. Cioè la macchina dello Stato continua a spendere soprattutto per mantenere se stessa. Il ministro dell’economia sostiene che, con l’adozione del metodo Brown, vi sarà ora una sostanziale inversione di rotta, un impegno positivo ma ancora tutto da dimostrare data l’estrema rigidità che ha sempre contraddistinto la maggior parte dei nostri meccanismi di spesa.

5- Non è ancora chiaro dove e in che modo l’Italia intende attingere capitali per finanziare gli investimenti. Di capitali dall’estero ne arrivano, infatti, assai pochi, meno di un terzo di quelli che vanno, invece, nei maggiori paesi europei. Così, a fornire i capitali per gli investimenti sono state fino ad oggi soprattutto le famiglie italiane che però da ormai qualche anno hanno cominciato a chiudere i rubinetti non avendo più fiducia nella crescita sia del mercato finanziario che dell’economia reale.

Le coordinate su cui viaggia la nostra crisi economica sono queste e far finta che siano, invece, altre significherebbe veramente “farla fuori del vaso”.

Con uno sviluppo che continua ad essere da encefalogramma piatto non si va davvero da nessuna parte.

Si affronti questo problema di fondo e conseguentemente potranno andare a soluzione tutti gli altri problemi.

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