CONSEGUENZE INVECCHIAMENTO DELLA POPOLAZIONE

CONSEGUENZE INVECCHIAMENTO DELLA POPOLAZIONE

Nel lavoro si esaminano i problemi connessi alla mancata risoluzione del sistema pensionistico italiano. E' previsto un aumento della spesa previdenziale rispetto al PIL fino al 2031, con inevitabili rischi di squilibri finanziari.

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27 gennaio 2000

CONSEGUENZE MACROECONOMICHE DELL’INVECCHIAMENTO DELLA POPOLAZIONE

 

 

Il peso non più sostenibile dello stato sociale

 

Alla fine degli anni ’80 l’Italia si trovava a dover affrontare due enormi problemi:

 

·          debito pubblico,

·          welfare state.

 

Entrambi i problemi, anche se non è mai stato detto esplicitamente, richiedevano per la loro risoluzione circa due decenni dall’avvio di interventi realmente incisivi.

 

Se sotto l’aspetto del risanamento finanziario, l’adesione a Maastricht ha imposto fin dal ’91 manovre rilevanti di finanza pubblica e ad oggi possiamo ipotizzare che tra alcuni anni anche lo stock del debito comincerà a risentire positivamente dei sacrifici degli ultimi anni, non può dirsi altrettanto per il welfare state e più segnatamente per il sistema pensionistico.

 

 

PRINCIPALI INDICATORI DI FINANZA PUBBLICA

(in rapporto al PIL)

 

1991

1993

1995

1997

1999

2001

2003

Entrate

43,8

48,3

45,5

48,1

46,7

45,8

44,9

Uscite

53,9

57,8

53,1

50,9

48,7

46,9

45,0

 

 

 

 

 

 

 

 

Deficit

10,1

9,5

7,7

2,8

2,0

1,0

0,1

Debito

101,4

117,0

123,2

120,3

114,7

108,5

100,0

FONTE: MINISTERO DEL TESORO, anni vari

 

 

Questi due elementi rappresentano due facce di una stessa medaglia: la mancata risoluzione nel medio periodo del problema pensioni inevitabilmente impone:

·          tempi più lunghi per il completo risanamento finanziario,

·          il permanere di un elevato livello di entrate fiscali e contributive, riducendo le potenzialità di crescita del Paese.

 

Negli ultimi dieci anni si è continuamente parlato di riforma delle pensioni, ma nonostante gli interventi correttivi non si è ancora arrivati ad una soluzione definitiva che garantisca oltre alla stabilità finanziaria anche un equilibrio tra generazioni, aspetto finora poco considerato.

 

Dalla entrata in vigore della cosiddetta “riforma Dini” del sistema pensionistico, si è accesso un lungo ed animato dibattito sulla necessità di intervenire con misure più drastiche ed innovative sui meccanismi di questa parte fondamentale del welfare state.

 

Una più incisiva riforma del sistema previdenziale è stata ripetutamente consigliata sia da organismi internazionali, come il Fondo Monetario, sia dal Governatore della Banca d’Italia, per gli inevitabili riflessi di politica economica in tema di lotta alla disoccupazione e di riduzione del carico contributivo sul costo del lavoro.

 

Si tratta, tuttavia, di una questione delicata, che tocca direttamente diritti acquisiti dei lavoratori e che rischia di innescare un conflitto intergenerazionale.

 

A conferma della scarsa incisività delle misure finora adottate si sottolinea come al 1998 i trattamenti pensionistici ammontavano a 21milioni e 600 mila, facenti capo a poco più di 16 milioni di persone per una spesa complessiva superiore ai 290mila miliardi.

 

A partire dal 1996, anno di avvio della riforma Dini, non si è notata alcuna interruzione nel trend espansivo della spesa pensionistica, che è passata in rapporto al PIL dal 13,9% al 14,1% del ’98.

DINAMICA DEL PIL E DELLA SPESA PENSIONISTICA

 

 

1995

1997

1999

2001

2003

2005

 

(variazioni % sull’anno precedente

PIL (a prezzi correnti)

8,1

4,1

3,0

4,3

4,5

4,0

Spesa pensionistica

4,8

6,3

4,4

4,7

4,9

4,7

 

(in % del PIL)

Spesa pensionistica/PIL

13,6

14,2

14,3

14,6

14,7

14,8

Stime CONFCOMMERCIO su dati INPS, MINISTERO DEL TESORO, ISTAT

 

 

Questo trend secondo tutte le stime è destinato a proseguire a ritmi abbastanza sostenuti fino al 2015, stabilizzandosi intorno al 15,6-15,8% fino al 2031 anno di inversione della curva.

 

Alla base di questa dinamica vi è:

·          la scarsa incisività della «riforma Dini» nel limitare la possibilità  di accesso alle pensioni di anzianità e nel garantire ad una larga fetta di occupati trattamenti pensionistici basati sul sistema retributivo,

·          l’immobilità del mercato del lavoro italiano.

 

Dal lato della pensioni di anzianità, che rappresentano ad oggi oltre il 20% dei trattamenti pensionistici al netto di quelli assistenziali (delle quali oltre la metà viene erogata a persone con età inferiore a quella di vecchiaia), la possibilità di ricorrervi fino al 2006 lascia ipotizzare una sensibile crescita di questa componente sia in termini numerici, circa un milione in più dal 1999 al 2006, che di incidenza, si dovrebbe arrivare a circa il 25% sul totale.

 

Relativamente alla decisione di conservare il sistema retributivo per oltre 8milioni di lavoratori (il 42% degli occupati al ’95) concentrati in larga misura nella fascia al di sotto dei 50 anni, fa si che fino al 2015, anno in cui saranno quasi totalmente usciti dal processo produttivo questi lavoratori, la spesa mostri un andamento particolarmente espansivo.

 

Si aggiunga che l’immobilità del mercato del lavoro italiano, negli ultimi otto anni il saldo è negativo per ottocentomila unità, ma anche se si guarda ad un periodo più lungo si riscontra come dall’82 ad oggi siano stati prodotti a saldo solo 700mila posti di lavoro in più, crea enormi difficoltà nel garantire un equilibrio finanziario tra contribuzioni e prestazioni.

 

 

UNITA’ DI LAVORO

(Dati in migliaia)

 

1991

1993

1995

1997

1999

 

 

 

 

 

 

Dipendenti

16.263

15.802

15.621

15.720

16.048

Indipendenti

7.346

6.947

6.907

6.837

6.837

TOTALI

23.609

2.750

22.528

22.558

22.885

FONTE: ISTAT, 1999 Elaborazioni Centro Studi CONFCOMMERCIO

 

 

A fronte di una sostanziale stabilità del numero di occupati nel lungo periodo, infatti, fa riscontro un consistente aumento del numero di pensionati, tendenza che dovrebbe portare al 2005 il rapporto pensionati su occupati dal 78% attuale all’83% circa.

 

I tempi molti lunghi nei quali le riforme attuate potranno produrre effetti, bisogna sottolineare come al di là delle tendenze demografiche l’andamento delle altre variabili nel lunghissimo periodo è aleatorio, pongono forti vincoli ala crescita del paese.

 

Se consideriamo che per i prossimi cinque anni sconteremo ancora gli effetti del risanamento finanziario dal punto di vista contabile, il mancato intervento sulla spesa delle pensioni evidenzia il rischio anche per  gli anni successivi di politiche economiche fortemente restrittive e di una modesta discesa della pressione fiscale e contributiva.

 

Situazione che non potrà non riflettersi sulle dinamiche macroeconomiche del Paese.

Le implicazioni macroeconomiche dell’invecchiamento demografico

 

La sostanziale inerzia in materia di welfare e la scarsa attenzione alle tendenze demografiche nel lungo periodo fa si che non ci si prepari al futuro in maniera adeguata, spostando progressivamente la spesa dalle pensioni all’assistenza per garantire ad una popolazione, che avrà nel prossimo futuro quote sempre crescenti di anziani, servizi idonei.

 

Si consideri che gli stessi anziani di domani sono coloro che oggi si trovano a pagare contributi previdenziali molto elevati per sostenere la spesa pensionistica di oggi e che per garantirsi una pensione adeguata sono costretti a pagare anche pensioni integrative, riducendo quindi il consumo ed il risparmio.

 

Questo è il risultato di un sistema pensionistico «a ripartizione» nel quale i contributi correnti vengono utilizzati per pagare le pensioni correnti, male comune ai principali Paesi industrializzati.

 

Numerosi e recenti studi sia dell’OCSE, sia del FMI, hanno evidenziato che:

 

·          nei paesi G-10 il rapporto tra ultrasessantacinquenni e popolazione attiva (15 – 64 anni) passerà dall’attuale 20% al 40-50% del 2040, a seconda dei vari paesi. Ovviamente, se persistessero le recenti tendenze verso un pensionamento precoce, in assenza di misure volte a ridurre la disoccupazione strutturale ed a flessibilizzare il mercato del lavoro, questo rapporto tra pensionati e lavoratori crescerà più velocemente;

 

·          l’invecchiamento demografico determina un aumento del numero dei consumatori rispetto al numero dei produttori (fattore lavoro), con una rapida diminuzione del consumo pro-capite, cioè del tenore di vita, a meno di una crescita della produttività del lavoro che compensi la riduzione della forza-lavoro;

 

·          le entrate del bilancio pubblico vengono influenzate negativamente dal passaggio della generazione del baby boom dalla fase del ciclo vitale ad alto reddito a quello della pensione. Nei Paesi in cui le entrate fiscali sono maggiormente legate alle imposte sui consumi o sul valore aggiunto, la perdita di gettito sarà inferiore rispetto ai Paesi in cui le entrate dipendono maggiormente dal reddito o dalle retribuzioni. Sebbene negli anni più recenti i saldi di bilancio nella maggior parte dei Paesi siano migliorati, le proiezioni di lungo termine indicano, a politiche di bilancio invariate, il raggiungimento di livelli di disavanzo non sostenibili. Questo comporterebbe una forte riduzione del risparmio nazionale, proprio nel momento in cui esso risulterà cruciale per incoraggiare la crescita della produttività del lavoro, finanziando l’accumulazione del capitale da cui dipende il progresso tecnico;

 

·          l’invecchiamento della popolazione solleverà importanti problemi di carattere distributivo. I governi dovranno confrontarsi, infatti, con il problema di come distribuire in modo equo ed efficiente l’onere della crescente quota di popolazione esterna alla forza lavoro. La riforma dei sistemi pensionistici pubblici richiede un tempo sufficientemente lungo perché i lavoratori possano aggiustare le loro decisioni di lavoro e risparmio. Anche se l’emergenza sui conti pubblici non si verificherà in tempi ravvicinati, le riforme dovrebbero essere introdotte velocemente;

 

·          gli effetti negativi stimati dell’invecchiamento sul tasso annuale di crescita del prodotto pro-capite variano da 0,25 a 0,6 punti percentuali. Quindi, date le ipotesi, entro il 2030 il livello di output pro-capite sarebbe più basso in misura compresa tra l’8% e il 20% come risultato dell’invecchiamento, a meno che non venga bilanciato dalla crescita della produttività, a parità di altre condizioni. È importante ricordare, comunque, che gli impatti stimati sono medie su un periodo di poco più di tre decenni. Durante la prima parte di questo periodo, le variabili demografiche (attraverso l’effetto produttività legata all’età) continuerà ad avere effetti positivi sulla crescita. Tuttavia, con l’arrivo della generazione del baby boom all’età di pensionamento, l’effetto netto dell’invecchiamento diventa negativo, in alcuni casi in misura tale che la produttività tendenziale viene più che compensata.

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