CONVEGNO FAID: LA DINAMICA DEL MERCATO GLOBALE...

CONVEGNO FAID: LA DINAMICA DEL MERCATO GLOBALE...

MILANO, 30 NOVEMBRE 1999 (testo integrale)

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30 novembre 1999

            Mi piacerebbe essere ottimista, ma offenderei questo uditorio se descrivessi una realtà diversa da quella che purtroppo scorre sotto i nostri occhi: una realtà grigia, densa di incognite, incerta per le imprese, stagnante per i consumi, avara di investimenti.

            Due forbici soprattutto preoccupano ed è il caso di esaminarle distintamente.

            La prima è quella tra dollaro ed euro, una forbice che si sta allargando in modo preoccupante e mi sembra che i segnali che arrivano dalla Banca centrale europea non siano, per ora, affatto tranquillizzanti.

            La debolezza dell'euro sui mercati è la conferma che alla Maastricht finanziaria non si è ancora affiancata una Maastricht politica capace di governare lo sviluppo e comunque di mettere in piedi strategie che diano maggiori punti di riferimento al mercato.

            Il 2000 dovrebbe essere, stando alle previsioni fatte dai maggiori centri internazionali di analisi, un anno, globalmente parlando, di ripresa dell'economia essendo state sostanzialmente assorbite le crisi che avevano, all'inizio del 1999, condizionato la crescita:si sta riprendendo il Giappone; comincerà ad avere effetti la sia pure parziale apertura doganale della Cina dopo l'accordo fatto con gli Stati Uniti; danno segnali di ripresa gli altri paesi del Sud-est asiatico.

            Il miglioramento del contesto internazionale dovrebbe riflettersi anche sui paesi dell'area dell'euro il cui tasso di sviluppo dovrebbe essere di poco inferiore al 3% e comunque migliore a quello del 1999 che non ha superato, come sapete, il 2,1%.

 

            Ma bisogna anche dire che l'area dell'euro non riesce ad avere i ritmi di sviluppo dell'economia americana.Da qui la scarsa competitività dell'euro sui mercati, problema che, quando si elaborò l'impianto di Maastricht, non si analizzò probabilmente in modo sufficiente.

            Questa forbice tra dollaro ed euro non può non preoccupare e mi sembra che la Banca centrale europea, messi da parte gli entusiasmi della prima ora, stia facendo attente riflessioni su questo problema più vistoso ed importante del previsto.

            Evidentemente la Bce - e non solo questa struttura - contava su una possibile inversione ciclica dell'economia americana, inversione, invece, che non appare nemmeno all'orizzonte.

            Perchè la moneta europea non è stato fino ad ora apprezzata dai mercati e non viene giudicata abbastanza interessante dagli investitori?

            I motivi di fondo sembrano essere soprattutto due.

            Perchè l'euro si muove in un mercato che, per i suoi alti costi (pressione fiscale elevata, alto costo del lavoro, scarsa flessibilità nel mondo del lavoro), non può offrire sostanziosi dividendi a potenziali investitori;

            perchè, come ho detto prima, non esiste ancora una struttura politica europea capace di imporsi e di programmare, all'interno di quest'area, un vero sviluppo.

            Con un terzo elemento che riemerge oggi sotto i nostri occhi: un mercato del greggio vincolato strettamente all'area del dollaro.

            Non si sa quando e se questa situazione potrà mutare. Comunque questo stato di debolezza della moneta europea tiene lontani gli investitori e così raffredda la ripresa.

            Ma parliamo ora della seconda forbice,  più preoccupante della prima.

            Se l'economia europea è debole nei confronti di quella controllata dal dollaro, è doppiamente debole l'economia del nostro paese.

 

            I motivi li conoscete meglio di me. La nostra economia, infatti, anche nel prossimo anno, continuerà ad avere un tasso di sviluppo inferiore a quello stimato per il complesso della Uem che sempre di più - se Maastricht ha un senso logico - dobbiamo considerare come il nostro mercato interno con gli inevitabili problemi che ciò produce in termini di competitività.

            Quindi se l'euro non riesce ad essere competitivo con il dollaro noi non siamo oggi competitivi con nessuno dei due.

            Abbiamo un tasso di sviluppo inferiore del 50% a quello della media degli altri paesi europei, un debito pubblico che continua ad essere troppo vistoso, scarse possibilità di realizzare, a breve, quelle riforme strutturali che consentirebbero, almeno nel medio periodo, purchè avviate subito, un rilancio anche della nostra politica economica.

            Non a caso continuiamo ad essere, nella pagella europea, relegati all'ultimo posto.

            Perchè? I motivi sono sotto gli occhi di tutti: la nostra economia continua ad essere frenata, nel suo potenziale di crescita, dalla presenza, nel sistema, di una serie di vincoli strutturali.

            Un debito, come ho detto, elevato ma anche l'incapacità di ridurre strutturalmente le spese - e cito, in questo ambito, anche l'impossibilità di produrre una riforma delle pensioni - rendono particolarmente difficile quella riduzione della pressione fiscale che sarebbe necessaria a ridare stimolo, fiducia, voglia di investire a tutte le nostre strutture economiche.

            E' il cane che si mangia la coda: non potendo riformare il sistema e dovendo, in mancanza di riforme, sostenere il peso di una spesa pubblica considerata e, in gran parte, improduttiva, lo Stato, per sopravvivere, non può fare a meno delle attuali entrate le quali però entrano in un circolo che, in gran parte, produttivo non è.

 

            Anche il permanere di un elevato differenziale di sviluppo tra le aree del paese e l'incapacità o l'impossibilità di attuare politiche strutturali in grado di attenuarne sia pure parzialmente l'entità creano un continuo sovraccarico di problemi.

            La verità è che si continua a girare intorno a questi problemi senza risolverli. Basta guardare al mezzo naufragio avuto dall'agenzia per il Sud chiamata "Sviluppo Italia" per rendersi conto di come alle parole, in questo paese, non seguano quasi mai i fatti.

            Un altro dato preoccupante è la scarsa competitività delle nostre merci sui mercati internazionali. L'export perde colpi ma non mi sembra che si stia correndo ai ripari. Mentre solo l'1,1% del Pil viene, nel nostro paese, destinato alla ricerca e allo sviluppo con conseguenze negative sul livello di innovazione dei prodotti.

            Nel 2000,  continueremo a trascinarci altri pesi: carenza di infrastrutture, una tassa in più che le nostre imprese sono costrette a pagare ogni giorno, un basso livello di investimenti che certamente avrà riflessi negativi, ancora più negativi sul versante occupazionale, l'impennata del prezzo del greggio che, insieme con l'aumento di molte tariffe, sta accendendo di nuovo - assai più che negli altri paesi europei - l'inflazione.

            Così è facile prevedere che il nostro tasso di crescita, per il 2000, non potrà essere superiore a circa l'1,8%, cioè circa un punto percentuale in meno della media europea.

            E così il reddito disponibile delle famiglie, pur in parziale recupero rispetto agli anni precedenti,  dovrebbe crescere di circa il 3% che però, se si tiene conto di un'inflazione che, nella media dell'anno, è stimata al 2,2%, produrrà un aumento, in termini reali, inferiore all'1%.

            Queste dinamiche non potranno non influire sull'evoluzione della domanda delle famiglie che, in termini reali, non crescerà più del 1,4%.

 

            Insomma stagnazione, ancora stagnazione, l'ultima cosa di cui ha bisogno oggi il nostro paese.

            Siccome il processo inflazionistico in atto si aggiunge, si somma a problemi strutturali che ci portiamo dietro da tempo il conto finale appare sempre più salato.  Direi insostenibile.

            Ciò che preoccupa è che, anche in questa fase di ripresa del processo inflazionistico, molti tendano ad indicare come unico o come possibile imputato il settore distributivo in conseguenza di una insufficiente liberalizzazione e modernizzazione del mercato.

            Dimenticando un dettaglio che superfluo certo non è, e cioè che il consumo di beni rappresenta solo il 55% della spesa delle famiglie e che sono invece i servizi, in particolare quelli di pubblica utilità, a mostrare oggi i tassi di crescita più sostenuti.

            In questo senso appare sintomatico che, mentre si tenta di scaricare sui distributori la responsabilità del caro benzina, niente si fa per combattere la politica di cartello delle compagnie petrolifere come niente si fa per combattere i veri e propri abusi tariffari che si stanno realizzando in settori chiave quali i trasporti urbani, l'energia, l'acqua, per non parlare poi delle inefficenze del settore assicurativo e di quello bancario che rappresentano un costo ulteriore sia per le famiglie che per le imprese.

            Questi aspetti rischiano di creare ulteriori elementi di incertezza per le imprese della distribuzione che già si trovano ad affrontare una fase di profonda e difficile trasformazione.

            Ad oltre un anno, infatti, dalla cosiddetta "liberalizzazione" del settore del commercio, le imprese si trovano ad operare in un contesto che definire nebuloso ed incerto è dir poco.

 

            Tra i punti critici vi è quello dell'urbanistica commerciale. La necessità di adeguare gli strumenti urbanistici, a seguito della riforma Bersani, non può essere vista, infatti, come un puro e semplice adempimento tecnico.

            A questo proposito va ribadito che i Comuni, chiamati ad individuare le aree per la localizzazione degli insediamenti commerciali, non possono prescindere dall’individuazione di specifici standard relativi alla mobilità, al traffico, all’accessibilità, alla salvaguardia del centro storico.

Tra gli aspetti più rilevanti e che rischiano di essere maggiormente influenzati dal quadro congiunturale (ripresa del processo inflazionistico), vi è sicuramente la normativa relativa al sottocosto.

La bozza di regolamento predisposta dal Ministero in materia non ci soddisfa e lascia aperti molti problemi:

 

·          l’individuazione della posizione dominante nel proprio mercato;

·          il problema della pubblicità;

·          i criteri di individuazione dell’intervallo temporale tra l’effettuazione di operazioni successive di vendite sottocosto.

 

A questi problemi si aggiunge l’ancora poco chiara definizione di tutti gli strumenti che attengono alle politiche attive per lo sviluppo del settore distributivo, senza dimenticare la necessità di reperire risorse aggiuntive per gli indennizzi dovuti a chi restituisce le licenze, dato che le domande presentate sono già nettamente superiori ai fondi stanziati.

Con questo scenario diventa quanto mai difficile programmare le linee di sviluppo delle imprese italiane, che rischiano di perdere ulteriori posizioni rispetto ai concorrenti internazionali meglio attrezzati per la competizione, anche in termini finanziari, e che necessitano in molti casi di nuovi mercati di sbocco rispetto a quello domestico.

 

            Provo a tirare qualche conclusione.

            La prima è che, in mancanza di una politica "attiva" che miri strutturalmente allo sviluppo del mercato e quindi anche ad un vero rilancio dei consumi, il settore distributivo rischia di essere preso tra due fuochi: o diventare l'ultimo anello della catena di grandi multinazionali o restare soffocato per mancanza di ossigeno o tutte le due cose insieme.

            La seconda. Riformare questo paese, liberalizzare realmente le sue strutture, togliere di mezzo le impalcature, anzi i veri e propri blocchi di cemento che impediscono al mercato di diventare realmente competitivo sono ormai diventati imperativi urgenti ed irrinunciabili.

            Non è con le liberalizzazioni fatte a metà oppure solo di facciata come, ad esempio, quella dell'Enel, che si può pensare che questo paese possa trovare,  nell'Europa di domani, una giusta collocazione.

            Avevamo tutto il tempo di realizzare le riforme che avrebbero potuto dare una concreta svolta al nostro mercato, ma si è fatto fino ad oggi poco o nulla. E ora che sta ripartendo l'inflazione e ora che con essa ricomincerà a correre anche il debito pubblico, tutto diventa di nuovo più difficile.

            Mi auguro che chi ha la responsabilità politica di questo paese rifletta su queste cose e sappia correre ai ripari.

            Siamo in zona Cesarini. Il tempo sta proprio scadendo e non è proprio possibile ritornare negli spogliatoi con questo risultato.

 

 

 

 

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