Distribuzione e mercato

Distribuzione e mercato

L'analisi degli scenari e dei trend di sviluppo dell'economia internazionale e il ruolo del commercio e della distribuzione nell'ambito del processo di globalizzazione dei mercati

LA CONGIUNTURA INTERNAZIONALE

L’economia internazionale ha pesantemente risentito nel corso del ’98 del manifestarsi di focolai di crisi in molte aree, segnalando nell’anno un profilo sempre più contenuto dei tassi di crescita e deludendo le aspettative di quanti ritenevano possibile l’inizio di una fase ciclica espansiva che coinvolgesse tutti i principali Paesi industrializzati.

Tab. 1 – PRINCIPALI INDICATORI MACROECONOMICI

  PIL Tasso di disoccupazione Inflazione
  1997 1998 1999 1997 1998 1997 1998
EUR11 2,5 3,0 2,0 11,6 11,0 1,6 1,1
- Germania 2,2 2,8   10,0 9,7 1,5 0,7
- Francia 2,3 3,2   12,4 11,9 1,3 0,7
- Italia 1,5 1,4   12,1 12,1 1,9 2,0
GRAN BRETAGNA 3,5 2,3 1,0 7,0 6,3 1,8 1,5
STATI UNITI 3,9 3,9 3,0 4,9 4,5 2,3 1,6
GIAPPONE 1,4 -2,8 -0,5 3,4 4,2 1,7 0,6
COMMERCIO MONDIALE 9,9 3,3 4,2        

Stime recenti indicano a livello mondiale una netta flessione nei tassi di incremento sia del prodotto, che del commercio passati rispettivamente tra il ’97 ed il ’98 dal 4,2% al 2,2% e dal 9,9% al 3,3%.

Tale evoluzione non ha, comunque, determinato effetti omogenei nelle diverse aree economiche: l’Europa occidentale, nel suo complesso, si è dimostrata, infatti più reattiva al deteriorarsi delle condizioni internazionali rispetto agli Stati Uniti, che hanno continuato a mostrare un profilo decisamente espansivo.

Tra gli elementi positivi emersi lo scorso anno vi è da sottolineare come la presenza di un contesto mondiale meno dinamico abbia favorito il sensibile rallentamento delle quotazioni delle materie prime, evoluzione che si è tradotta in tutte le principali economie industrializzate, nonostante la presenza di una domanda delle famiglie abbastanza sostenuta, in un contenimento dei prezzi al consumo.

Questa situazione ha favorito in tutti i Paesi un allentamento delle condizioni della politica monetaria, che non sono comunque risultate sufficienti a contenere gli effetti del rallentamento ciclico. Ciò è stato particolarmente vero per i Paesi dell’area dell’euro, nei quali le conseguenze negative del rallentamento internazionale sono risultate più consistenti rispetto a quanto stimato nella primavera dello scorso anno.

Stando alle stime più recenti le prospettive di sviluppo a livello mondiale dovrebbero essere condizionate, anche nell'anno in corso, dal permanere di una situazione critica a livello internazionale e dalle forti incertezze sulla possibilità per alcuni paesi di uscire in tempi rapidi dalle crisi.

Il PIL dei principali paesi è atteso, infatti, mostrare un ulteriore rallentamento conseguenza di una prima parte dell’anno ancora fortemente negativa e che non sarà controbilanciata dalla attesa ripresa negli ultimi mesi del ’99.

L’area dell’euro

Nonostante si ritenesse che i paesi dell’area dell’euro potessero risentire in misura meno immediata del deterioramento delle condizioni cicliche, così non è stato.

L’incremento del PIL in termini reali del 3,0% registrato nel ’98, pur rappresentando il valore più elevato riscontrato dai primi anni ’90 sottende un netto indebolimento a partire dall’estate dei tassi di crescita, che sono divenuti via via meno positivi, situazione che ha portato a rivedere decisamente le prospettive di sviluppo dell’area per il prossimo biennio.

Nel 1998, l’attenuarsi delle prospettive economiche ha riflesso in larga parte gli sviluppi esterni, evidenziatisi in un sensibile rallentamento delle esportazioni nette, sebbene in alcuni paesi anche gli indicatori della domanda interna mostrassero segni di debolezza.

Tab. 2 – PIL NELL'EUR11 E SUE COMPONENTI

variazioni % a prezzi costanti 1990

  1995 1996 1997 1998
PIL 2,2 1,6 2,5 3,0
IMPORTAZIONI 7,4 3,3 9,0 7,3
DOMANDA INTERNA 1,9 1,1 1,9 3,4
- Consumi delle famiglie 1,9 1,9 1,4 3,0
- Consumi collettivi 0,0 1,7 0,3 0,4
- Investimenti fissi lordi 3,4 0,4 2,1 4,2
ESPORTAZIONI 8,1 4,4 10,3 6,0
Fonte: Eurostat

Tab. 3 – PIL NEI PRINCIPALI PAESI

variazioni % a prezzi costanti 1990

  PIL Tasso di disoccupazione Inflazione
  1997 1998 1999 1997 1998 1997 1998
EUR11 2,5 3,0 2,0 11,6 11,0 1,6 1,1
- Germania 2,2 2,8 2,0 10,0 9,7 1,5 0,7
- Francia 2,3 3,2 2,6 12,4 11,9 1,3 0,7
- Italia 1,5 1,4 1,3 12,1 12,1 1,9 2,0
Fonte: Eurostat 1999 PER L'Italia Confcommercio

In particolare si è notata nel corso degli ultimi mesi un accentuarsi del divario tra i comportamenti delle imprese e delle famiglie.

A partire dalla seconda metà dell’anno, in concomitanza con l’acuirsi della crisi del sud est asiatico e della Russia, il clima di fiducia delle imprese ha cominciato a registrare un netto peggioramento, con punte particolarmente accentuate in Germania ed in Francia, confermato in autunno da una più contenuta evoluzione della produzione industriale e dalla conseguente riduzione del grado di utilizzo degli impianti. Dinamica che si è riflessa sugli investimenti, risultati in rallentamento nell’ultimo trimestre.

Di contro le aspettative delle famiglie hanno teso ad un miglioramento, sulla spinta anche di un panorama occupazionale lievemente meno negativo rispetto a quello riscontrato negli ultimi anni, che si è tradotto, in concomitanza con una evoluzione dei prezzi contenuta, in un aumento del reddito disponibile con effetti positivi sulla dinamica della domanda per consumi.

Situazione che non sembra mostrare neanche in questa prima parte del ’99 una sensibile attenuazione, come conferma anche la maggiore domanda di credito da parte delle famiglie.

Particolare appare in questo senso la situazione dell’Italia che ha visto, invece, un netto peggioramento sia del clima di fiducia delle imprese, che delle famiglie in conseguenza di un quadro macroeconomico di riferimento più negativo rispetto a quanto riscontrato negli altri Paesi.

In considerazione delle tendenze in atto, caratterizzate da un netto peggioramento della produzione industriale e del clima di fiducia delle imprese, le aspettative per l’anno in corso per il complesso dei paesi aderenti all’euro appaiono sensibilmente più contenute rispetto anche a quanto stimato in autunno, il PIL è infatti atteso crescere nel ’99 al 2,0%.

Al di là dei problemi direttamente connessi alla domanda estera, stimata in rallentamento anche in questa prima parte dell’anno, i rischi per la crescita in quest’area includono fattori più direttamente riconducibili al contesto interno.

Il permanere di una domanda estera debole potrebbe ingenerare effetti negativi sugli investimenti, anche per un possibile accumulo involontario di scorte soprattutto in Germania ed Italia, che continuano a risultare il punto debole della domanda interna.

Ciò determinerebbe un mutamento delle condizioni del mercato del lavoro con l’arrestarsi o addirittura l’invertirsi del processo che in alcuni paesi aveva portato ad una graduale riduzione della disoccupazione.

In questo contesto vi è il rischio di un trasferimento delle aspettative negative anche alle famiglie, con un rallentamento più sostenuto rispetto a quanto stimato attualmente della spesa per consumi.

A livello di singoli Paesi nel 1999 in Francia e nei paesi più piccoli dell’area la crescita dovrebbe mantenersi in linea con la dinamica del prodotto potenziale (+2,6-2,7%), in Germania ed in Italia, invece, si prevede una crescita assai meno vigorosa, con un divario del PIL effettivo dal PIL potenziale prossimo al 2%.

Anche nel biennio 1999-2000, nonostante la ripresa del commercio mondiale, l’inflazione dell’area dovrebbe continuare a mostrare un profilo sostanzialmente contenuto collocandosi intorno all’1,5%, al di sotto del tetto programmato del 2%.

Regno Unito, Stati Uniti, Giappone

In linea con quanto avvenuto negli altri Paesi dell’Europa occidentale anche nel Regno Unito, dopo diversi anni di espansione al di sopra del prodotto potenziale, la crescita ha rallentato in misura marcata durante il 1998.

Il ridimensionamento delle esportazioni nette, tendenza manifestatasi sin dalla metà del 1997, si è accompagnato nel 1998 ad un marcato rallentamento della domanda interna ed il clima di fiducia ha raggiunto, sul finire dell’anno, il livello più basso degli ultimi 18 anni.

L’attenuarsi della dinamica produttiva e della domanda delle famiglie in presenza di prezzi delle materie prime cedenti ha favorito il rientro dell’inflazione, situazione che ha portato nell’ultima parte dell’anno ad un allentamento della politica monetaria.

Anche in questo caso, comunque, questo strumento si è dimostrato sostanzialmente inefficace nel contrastare le tendenze riflessive.

Nonostante la presenza di un quadro macroeconomico di riferimento meno positivo il mercato del lavoro ha continuato, comunque, ad essere caratterizzato da una crescita dell’occupazione e da una riduzione del tasso di disoccupazione, che è pari alla metà di quello registrato nella media dei paesi europei.

Le prospettive per l’anno in corso non appaiono, comunque, particolarmente positive.

L’accentuarsi della tendenza riflessiva, in considerazione delle dinamiche registrate dalla produzione industriale negli ultimi mesi e del contesto internazionale di riferimento. dovrebbe determinare nel ’99 un ulteriore indebolimento che dovrebbe portare ad un incremento medio del PIL nell’anno in corso inferiore all’1%, il più basso tra i Paesi dell’Unione Europea, con conseguenze negative anche sul mercato del lavoro

Nonostante gli osservatori internazionali ritenessero l’economia americana particolarmente esposta alle conseguenze delle crisi internazionale negli USA i più recenti indicatori dell’attività economica continuano a mostrare un rafforzamento, anche in presenza di segnali contrastanti.

Il 1998 si è chiuso con una crescita media del PIL del 3,9% rispetto all’anno precedente, con uno straordinario quarto trimestre (+6,1%) che avrà positivi effetti di trascinamento sui primi mesi del ’99.

A ciò si aggiunga che l’inflazione resta la grande assente: nel 1998 i prezzi sono cresciuti di appena l’1,6% rispetto all’anno precedente, attestandosi ai minimi degli ultimi 40 anni.

A questa situazione ha corrisposto un allentamento della politica monetaria, che ha favorito il ricorso al credito al consumo, alimentando le spinte della domanda interna sulla crescita.

Il permanere di un contesto economico positivo ha determinato anche nel ’98 un aumento del numero di occupati ed un ulteriore ridimensionamento del tasso di disoccupazione, sceso al 4,5%.

In conseguenza dell’evoluzione più recente le prospettive per il 1999 permangono sostanzialmente positive, con una crescita stimata intorno al 3%. In questo contesto è comunque atteso un ridimensionamento della dinamica della spesa per consumi ed un probabile peggioramento del quadro commerciale a causa della debolezza internazionale.

In Giappone la fase recessiva sembra non aver ancora trovato il suo punto di svolta, secondo le ultime indicazioni, infatti nel quarto trimestre del ’98 la situazione ha conosciuto un ulteriore peggioramento.

La politica monetaria continua a dimostrarsi particolarmente inefficace, nonostante le misure di emergenza assunte dalla Banca centrale la progressiva riduzione dei tassi non riesce a produrre stimoli significativi sulla domanda interna, che continua a mostrare segnali di flessione come dimostrano anche le continue cadute dei prezzi.

Le prospettive per i prossimi mesi non appaiono sicuramente positive anche per il progressivo indebolimento delle economie di altri paesi, situazione che rende più complessa l’uscita dalla crisi indebolendo le possibilità di crescita delle esportazioni unica componente che aveva mostrato un andamento positivo.

D’altra parte le difficoltà di bilancio e la crisi del sistema bancario non permettono di ipotizzare nel breve periodo un contributo significativamente positivo della domanda interna.

Le prospettive dell’economia italiana nel medio periodo

Il quadro di sintesi

Le stime di crescita dell’economia italiana nel medio periodo evidenziano per i prossimi anni una dinamica ancora contenuta ed inferiore a quella stimata per gli altri paesi della UE, in linea con il trend che ha caratterizzato gli anni ‘90, nei quali i problemi di risanamento della finanza pubblica hanno accentuato per l’Italia gli effetti del rallentamento ciclico registrato in quasi tutti i Paesi dell’Europa continentale.

Allo stato attuale gli squilibri presenti in alcune aree economiche e le incertezze sull’evoluzione sia temporale, che quantitativa delle crisi emerse di recente pongono molte incognite sulle prospettive di sviluppo a breve dell’economia mondiale ed italiana, che è apparsa più sensibile di altre al deteriorasi della situazione economica internazionale.

In considerazione delle dinamiche riscontrate in questa prima parte dell’anno e delle tendenze internazionali in atto la crescita italiana nel ’99 dovrebbe collocarsi su di un valore prossimo all’1,3%.

L’assenza di segnali di risveglio della nostra economia che continua, alla luce delle ultime indicazioni relative al PIL e alla produzione industriale, a trovarsi al confine tra una fase di stagnazione e la recessione, potrebbe rendere tra alcuni mesi addirittura ottimistica questa stima.

Il permanere di una situazione negativa, almeno nel primo semestre dell’anno in corso, dovrebbe determinare anche nel 2000 un tasso di crescita della nostra economia non particolarmente sostenuto, infatti, neanche nell’ipotesi di una ripresa sensibile nella seconda parte del ’99 l’incremento del PIL potrebbe raggiungere il 2%.

Tab. 4 – QUADRO MACROECONOMICO

  1998 1999 2000 2001
P.I.L 1,4 1,3 1,8 2,3
IMPORTAZIONI 6,1 3,0 4,1 5,1
CONSUMI FINALI 1,8 1,2 1,4 1,8
- CONSUMI FAMIGLIE 1,9 1,4 1,7 2,1
- CONSUMI COLLETTIVI 1,4 0,4 0,5 0,6
INVESTIMENTI 3,5 3,8 4,2 4,6
- MACCHINE   6,3 6,6 6,8
- MEZZI TRASPORTO   3,2 2,4 4,0
- COSTRUZIONI   1,8 2,5 2,7
ESPORTAZIONI 1,3 2,0 4,5 6,3
INFLAZIONE 1,8 1,2 1,4 1,6
OCCUPAZIONE (var. %) 0,5 0,3 0,5 0,7
OCCUPAZIONE (var. ass.) 110 61 101 122
Fonte: 1998 Istat 1999/2001 Centro Studi Confcommercio

Tassi di crescita così contenuti porranno, come sottolineato da più parti, seri problemi dal lato della finanza pubblica, impedendo di fatto il rispetto dell’obiettivo deficit/PIL al 2,0% già nel ‘99.

Le minori entrate, derivanti da una crescita più contenuta rispetto a quanto stimato nei mesi precedenti, saranno, infatti, difficilmente compensate da una riduzione delle spese, in considerazione anche dell’attenuarsi degli effetti positivi conseguenti alla sostenuta diminuzione dei tassi riscontrata nell’ultimo biennio.

Tab. 5 – RAPPORTO DEFICIT/PIL

  1995 1996 1997 1998 1999
Belgio -4,0 -3,1 -1,9 -1,3 -1,3
Danimarca -2,4 -0,9 0,4 0,8 2,5
Germania -3,3 -3,4 -2,7 -2,1 -2,0
Irlanda -2,1 -0,3 1,1 2,3 1,7
Grecia -10,3 -7,5 -3,9 -2,4 -2,1
Spagna -7,1 -4,5 -2,6 -1,8 -1,6
Francia -4,9 -4,1 -3,0 -2,9 -2,3
Italia -7,7 -6,6 -2,7 -2,7 -2,4
Lussemburgo 1,8 2,8 2,9 2,1 -
Olanda -4,0 -2,0 -0,9 -0,9 -1,3
Austria -5,1 -3,7 -1,9 -2,1 -2,0
Portogallo -5,7 -3,3 -2,5 -2,3 -2,0
Finlandia -4,6 -3,1 -1,2 1,0 2,4
Svezia -6,9 -3,5 -0,7 2,0 0,3
Regno Unito -5,7 -4,4 -1,9 0,6 -0,3
EU11 -4,8 -4,1 -2,5 -2,1 -
EU15 -5,0 -4,1 -2,3 -1,5 -
Fonte: Eurostat per il 1999 Programmi di stabilità e convergenza nazionali

Non bisogna dimenticare che è stata proprio la consistente diminuzione della spesa per interessi negli ultimi anni – nel ’98 le uscite per questa voce sono risultate inferiori di oltre 45mila miliardi rispetto al ’96 – a favorire il rientro del deficit e la progressiva riduzione delle uscite rispetto al PIL.

Tab. 6 – CONTO ECONOMICO CONSOLIDATO DELLE AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE

in Rapporto al PIL

  1995 1996 1997 1998
ENTRATE COMPLESSIVE 45,9 46,5 48,5 47,0
- ENTRATE CORRENTI 45,0 45,9 47,5 46,4
- ENTRATE IN C/CAPITALE 0,9 0,5 1,0 0,6
PRESSIONE FISCALE 42,5 42,9 44,8 43,6
USCITE COMPLESSIVE 53,6 53,1 51,2 49,7
- USCITE CORRENTI 48,9 49,1 47,7 45,9
-- Netto interessi 37,8 38,5 38,4 38,3
-- Interessi passivi 11,2 10,6 9,2 7,5
- USCITE IN C/CAPITALE 4,7 3,9 3,5 3,8
Fonte: Istat

In questo contesto appare, quindi, sempre più probabile il mantenimento di un rapporto deficit/PIL in tutto il prossimo triennio su valori prossimi al 2,3-2,5%, con un impatto negativo anche sul debito, che risulta allo stato attuale il più elevato tra i 15 paesi della UE, sia in termini di stock che in rapporto al PIL.

Tab. 7 – RAPPORTO DEBITO/PIL

  1995 1996 1997 1998 1999
Belgio 132,2 128,0 123,4 117,3 114,5
Danimarca 72,1 67,4 63,6 58,1 56
Germania 58,3 60,8 61,5 61,0 61
Irlanda 78,9 69,4 61,3 52,1 52
Grecia 110,1 112,2 109,4 106,5 105,8
Spagna 64,2 68,6 67,5 65,6 66,4
Francia 52,8 55,7 58,1 58,5 58,7
Italia 125,3 124,6 122,4 118,7 116,9
Lussemburgo 5,8 6,3 6,4 6,7 -
Olanda 79,0 77,0 71,2 67,7 66,4
Austria 69,4 64,9 61,7 57,8 63,5
Portogallo 65,9 64,9 61,7 57,8 56,8
Finlandia 58,1 57,8 54,9 49,6 48,5
Svezia 77,6 76,7 76,7 75,1 71,4
Regno Unito 53,0 53,6 52,1 49,4 46,7
EU11 73,4 75,0 74,6 73,8 -
EU15 71,3 73,2 71,7 69,5 -
Fonte: Eurostat per il 1999 Programmi di stabilità e convergenza nazionali

Questa tendenza aggraverebbe ulteriormente la posizione dell’Italia all’interno della UE considerando che anche nel ’98 – favorita in molti casi dall’andamento ciclico e dalla riduzione dei tassi – si è notata in quasi tutti i Paesi una sensibile tendenza alla diminuzione del rapporto deficit/PIL, al 1995 solo il Lussemburgo presentava un avanzo, mentre al ’98 sono ben 6 i Paesi che si trovano in questa situazione, e del debito/PIL.

Solo la Francia sembra manifestare problemi di entità analoga alla nostra, avendo registrato nel ‘98, nonostante una crescita del PIL decisamente più positiva di quella italiana, una sostanziale stabilità del rapporto deficit/PIL, segnalando una certa difficoltà nel convergere verso l’obiettivo del 2,0%, ed un aumento del rapporto debito/PIL, che rimane comunque sotto la soglia del 60%.

La domanda estera

Le difficoltà delle economie europee, che sembrano subire in misura più accentuata le conseguenze del rallentamento economico mondiale rispetto agli USA, stanno spingendo le quotazioni dell’euro su valori nettamente più bassi rispetto a quelli stabiliti al momento della sua introduzione sui mercati.

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Questa tendenza potrebbe favorire nei prossimi mesi, in presenza anche di un quadro internazionale meno negativo, la ripresa delle esportazioni europee verso i Paesi terzi, situazione che potrebbe, comunque, non produrre effetti omogenei in tutti i paesi aderenti alla UEM.

Anche in questo caso l’Italia non appare particolarmente favorita, in considerazione del minor grado di apertura verso l’estero e della perdita di competitività riscontrata negli ultimi anni (cfr."La struttura del commercio estero italiano").

Ciò nonostante già nel secondo semestre del ’99 dovrebbe riscontrarsi una tendenza alla ripresa delle esportazioni italiane, decisamente penalizzate negli ultimi mesi del ’98, evoluzione attesa in consolidamento nel biennio successivo.

Anche le importazioni, proseguendo nel trend già riscontrato nell’ultimo trimestre dello scorso anno, sono stimate in sensibile ridimensionamento sia per effetto dei bassi livelli produttivi interni, sia per l’elevato accumulo di scorte realizzato nel ‘97-98.

La domanda verso l’estero dovrebbe tornare a mostrare tassi di crescita più significativi solo nel 2001, in conseguenza del miglioramento della situazione economica interna.

La domanda interna

La domanda interna continuerà a scontare oltre agli effetti della situazione internazionale anche quelli conseguenti alle manovre per il risanamento dei conti pubblici, evidenziando per tutto il periodo di previsione un profilo insoddisfacente.

Consumi

In particolare la componente relativa ai consumi delle famiglie è stimata mostrare nel ’99 una dinamica più contenuta rispetto a quanto registrato nell’ultimo biennio, con una crescita dell’1,4.

La stagnazione riscontrata negli ultimi mesi del ’98 riflette già la tendenza ad una diminuzione della propensione alla spesa da parte delle famiglie, conseguenza del netto peggioramento del quadro di riferimento.

Tale evoluzione conferma ancora una volta come i comportamenti delle famiglie, in un contesto nel quale la bassa crescita comincia ad essere percepita quasi come fattore strutturale, tendano ad essere più reattivi in situazioni di deterioramento del quadro congiunturale di quanto lo siano in presenza di un miglioramento.

Le incertezze sulle prospettive, legate anche alla non facile situazione dei conti pubblici, la probabile attenuazione dei trend occupazionali e le dinamiche delle rendite finanziarie dovrebbero continuare a determinare un clima di fiducia delle famiglie negativo, tenendo compressa anche nel biennio successivo al ’99 la domanda per consumi, attesa crescere a tassi ancora contenuti.

Solo nel 2001 questa componente, in considerazione del modesto miglioramento del quadro economico di riferimento, è stimata mostrare una crescita superiore al 2%, valore comunque molto modesto.

Investimenti

Anche gli investimenti non dovrebbero mostrare una evoluzione particolarmente sostenuta nonostante una dinamica abbastanza favorevole del costo del denaro, i tassi sono previsti se non in ulteriore modesto calo permanere sui livelli attuali.

Note più positive rispetto agli ultimi anni, ma comunque insufficienti a migliorare una situazione settoriale di grave crisi, sono attese per gli investimenti in costruzioni per effetto delle proroghe sugli incentivi alle ristrutturazioni e per il calo del costo dei mutui, situazione che sta portando le famiglie ad investire nel settore in misura lievemente più sostenuta rispetto a quanto riscontrato negli ultimi anni.

La scarsa propensione all’investimento, anche in presenza di una attenuazione del loro costo, sembra evidenziare come nel nostro Paese esistano un insieme di fattori che ne limitano l’espansione e che vanno al di là della presenza, ormai quasi strutturale, di capacità produttiva inutilizzata nel sistema.

La bassa dinamica produttiva che si protrae ormai da alcuni anni sta rendendo sempre meno remunerativi gli investimenti non solo per gli operatori esteri, ma anche per le famiglie e le imprese italiane.

A questo elemento si aggiungono le debolezze strutturali del nostro mercato finanziario.

Il tessuto produttivo italiano continua ad essere composto prevalentemente da aziende di PMI, che non hanno la possibilità di reperire direttamente sul mercato finanziamenti per gli investimenti e verso le quali non può indirizzarsi il risparmio privato.

D’altro canto in Italia il mercato azionario ha dimensioni ancora troppo piccole; per molti anni l’unica forma di investimento delle famiglie è stata rappresentata dai titoli di Stato e le uniche grandi aziende italiane erano pubbliche, situazione che ne ha di fatto bloccato lo sviluppo.

In questo contesto non esistono quindi le condizioni che permettano da un lato di assorbire il risparmio presente nel paese, che rischia di indirizzarsi sempre di più verso l’estero, tendenza peraltro già emersa in misura molto evidente negli ultimi mesi, dall’altro alle aziende di promuovere gli investimenti se non autofinanziandoli o ricorrendo al credito ordinario.

L’occupazione

Le basse prospettive di crescita e la contenuta dinamica degli investimenti non permettono di ipotizzare nel medio periodo un deciso mutamento nelle condizioni del mercato del lavoro.

Il contenuto incremento stimato nel triennio per l’occupazione non sarà sufficiente a ridurre in misura sensibile il tasso di disoccupazione, che continuerà a permanere su livelli prossimi al 12%, segnalando una ulteriore accentuazione dei divari territoriali.

Come già sottolineato in altre occasioni nel Mezzogiorno la forza lavoro potenziale assume una consistenza significativa, anche per la presenza tra le non forze di lavoro di persone che, in considerazione delle prospettive molto negative e dei lunghissimi tempi di ricerca, si sono poste, sia pure non definitivamente, fuori dal mercato ufficiale del lavoro.

Il miglioramento del contesto occupazionale avrebbe come primo effetto quello di riportare sul mercato una quota consistente delle stesse, che non potranno, in considerazione della crescita molto modesta, trovare in tempi brevi una occupazione.

Bisogna anche considerare che parte della nuova occupazione sarà assorbita da lavori a tempo determinato o da forme considerate atipiche, situazione che in assenza di una più elevata dinamicità e mobilità del mercato rischia di creare elementi di tensione nel sistema con aspettative di continuità che non potranno essere soddisfatte.

Si aggiunga che parte della nuova occupazione ufficialmente rilevata sarà imputabile all'emersione di quote di lavoro irregolare, che nel nostro Paese rappresenta, al netto di coloro che svolgono un secondo lavoro, circa il 17% dell'occupazione pari ad oltre 3 milioni di persone, nella sostanza quindi non si tratterebbe di nuovi posti di lavoro.

Sulle dinamiche occupazionali stimate per il triennio ‘99-2001 gravano, inoltre, anche le incognite relative all’efficacia del “Patto sul lavoro” siglato a fine ’98, i cui contenuti sono ancora da definire e che potrebbe nella sostanza dimostrarsi uno strumento ancora insufficiente.

Proposte per lo sviluppo

Il quadro di riferimento delineato per la nostra economia nel medio periodo pone seri problemi sia per la crescita e lo sviluppo del paese, sia per la finanza pubblica.

Appare, infatti, quanto mai difficile con tassi di incremento del PIL modesti come sono quelli stimati, ed ancora inferiori alle previsioni, sia pure riviste, del Governo, rispettare il piano di rientro del debito.

In considerazione dei vincoli posti dalla Unione Europea vi è, quindi, il concreto pericolo che nel breve periodo si ricorra a manovre aggiuntive di finanza pubblica.

Nonostante per il 1999 siano stati ulteriormente rivisti dal Governo gli obiettivi di crescita e di finanza pubblica, vi è il rischio che in presenza di tassi di sviluppo più contenuti rispetto a quelli stimati (1,3% contro l’1,5%) si rendano necessari in corso d’anno interventi correttivi stimabili in 5-7mila miliardi.

Si aggiunga che rispetto a quanto stimato nel DPEF dello scorso anno già nell’autunno del ’98 le minori prospettive di sviluppo avevano portato a prevedere interventi correttivi dell’ordine di 15mila miliardi.

In relazione ai margini molto contenuti che pone un intervento correttivo in corso d’anno, forte rigidità alla riduzione delle spese correnti e necessità di conseguire effetti nel brevissimo periodo, vi è il rischio che la probabile manovra aggiuntiva possa essere incentrata prevalentemente su di un aumento delle entrate.

Il conseguente aumento della pressione fiscale avrebbe forse l’effetto di favorire nel breve periodo il rispetto degli obiettivi di bilancio, ma continuerebbe ad alimentare il processo, già sperimentato negli ultimi anni, in cui le azioni volte a sanare le conseguenze negative sui conti pubblici della bassa crescita producono una ulteriore riduzione dello sviluppo, innescando una spirale depressiva.

Il scarsa efficacia delle politiche seguite negli ultimi anni in tema di incentivi alla crescita indica la necessità di predisporre, con una nuova ottica, azioni incisive che, siano in grado di produrre effetti significativi nel breve periodo e garantiscano la sostenibilità del sistema nel medio lungo periodo.

Gli interventi non dovranno, quindi, avere come fine solo il rispetto degli obiettivi contabili di finanza pubblica, ma dovranno essere valutati nel complesso degli effetti sul sistema in termini di crescita, di investimenti e di occupazione.

La politica fiscale

La pressione fiscale nonostante la riduzione dell’ultimo anno, dovuta al venir meno di interventi di natura temporanea quale era l’eurotassa, rimane a livelli particolarmente elevati, il primo intervento deve quindi mirare a modificare la politica fiscale riducendo il carico sulle famiglie e sulle imprese.

In questa ottica appare quanto mai positivo che si vada facendo strada tra i governi europei la proposta del Commissario Monti di applicare aliquote IVA ridotte nei settori ad alta intensità di lavoro. I bassi profili di crescita economica e occupazionale dell'intero continente richiedono incisivi e strutturali interventi di riduzione del prelievo fiscale.

A maggior ragione tali interventi sono necessari per l'Italia a causa di un livello di disoccupazione, di stagnazione dei consumi e di dimensione dell'economia sommersa che non ha eguali in Europa.

In questo contesto una riduzione di un solo punto dell'aliquota media dell'IVA si trasformerebbe immediatamente in una riduzione di pari importo dei prezzi, con un effetto di positivo stimolo sul PIL, stimabile in circa 4.800 miliardi. Questa crescita, data la produttività media, sarebbe in grado di creare circa 74.000 nuovi posti di lavoro.

La perdita di gettito sarebbe in parte compensata dalle maggiori entrate derivanti dalla crescita del PIL e, negli anni successivi, una volta innescato un circolo virtuoso di maggiore crescita – maggiore occupazione – maggiori consumi – maggiori investimenti – ulteriore crescita, non si porrebbe alcun problema per i conti pubblici.

La riduzione delle aliquote IVA sarebbe ovviamente ancora più efficace per aiutare la crescita dei PIL e dell'occupazione se fosse concentrata nei settori a forte utilizzo di manodopera e caratterizzati da migliori prospettive di domanda potenziale quali ad esempio quelli del turismo.

È auspicabile che quanto prima si avvii almeno una fase sperimentale della proposta coinvolgendo ampi comparti dei mondo delle piccole imprese; certamente le più toccate dalla crisi dei consumi ma anche quelle che offrono maggiori garanzie di effettiva crescita dell'occupazione.

Al riguardo non si può non trascurare il fatto che le agevolazioni fiscali all'edilizia stiano segnando il passo, mentre si può ipotizzare che ogni punto in meno di aliquota IVA nel solo comparto degli alberghi e dei pubblici esercizi potrebbe creare circa 5.000 posti di lavoro in più.

Tab. 8 – EFFETTI SU PRODOTTO E OCCUPAZIONE DI UNA RIDUZIONE DELL’IVA

  Intera economia Alberghi e pubblici esercizi
Aliquota media IVA Prodotto (mld. di lire) Occupazione (unità) Prodotto (mld. di lire) Occupazione (unità)
Riduzione di 1 punto % 4.800 74.000 150 5.000
Riduzione di 2 punti % 9.600 148.000 300 10.000
Riduzione di 3 punti % 14.400 222.000 450 15.000
Riduzione di 4 punti % 19.200 296.000 600 20.000
FONTE: Confcommercio.

Certamente questa proposta, che rappresenta uno dei più validi progetti di incentivo allo sviluppo oggi in discussione, dovrebbe rappresentare solo un elemento di una più generale riduzione dell’imposizione gravante sulle imprese e sulle famiglie.

L’eccesso di pressione fiscale, infatti, come ha sottolineato anche la Banca d’Italia, spiazza pesantemente gli investimenti privati ed il risparmio delle famiglie, dirottandoli entrambi verso forme di impiego più remunerative nei Paesi esteri, dando luogo ad una vera propria forma di esportazione di risparmio.

Gli investimenti diretti di imprese italiane all’estero, al netto dei disinvestimenti, sono stati pari nel 1998 a 29.000 miliardi, contro i circa 17.500 del 1997. Il biennio 1997-98 ha segnato un cambio di velocità nel flusso verso l’estero, passando da un saldo netto medio del periodo 1990-96 di circa 9.000 miliardi ai 29.000 del 1998.

Tale dato si confronta con un modesto flusso di investimenti di capitale estero verso Italia, che non ha mai superato, dai primi anni novanta ad oggi, i 7.000 mila miliardi. In altri termini, l’economia italiana, pur in presenza di ampie aree dove lo sviluppo è insufficiente e la disoccupazione elevata, non riesce ad attirare investimenti diretti esteri in misura analoga a Paesi come Francia, Spagna e Regno Unito, per mancanza di politiche di incentivazione fiscale agli investimenti.

Un ulteriore dato preoccupante è rappresentato dalla voce “errori ed omissioni” della bilancia dei pagamenti, che misura i proventi non ufficialmente rientrati o non registrati nei conti finanziari. Dal 1995 al 1998 tali flussi cumulati hanno raggiunto i 140.000 miliardi, annullando di fatto la serie dei surplus della bilancia commerciale.

In pratica, l’eccedenza degli incassi sugli esborsi relativi all’interscambio commerciale viene sistematicamente reimpiegata all’estero, senza rientrare in Italia.

Non è un caso che la maggior parte di tali investimenti sia affluita verso il Regno Unito, uno dei Paesi europei con la più bassa pressione fiscale, o verso Paesi che offrono trattamenti fiscali privilegiati alle attività finanziarie ed ai capitali di provenienza estera.

Tale situazione determina un duplice effetto negativo: da un lato indebolisce la performance complessiva del sistema-Paese; dall’altro, penalizza ulteriormente le imprese che, operando prevalentemente sul mercato interno, non realizzano eccedenze di fatturato da poter reinvestire finanziariamente sulle piazze internazionali fiscalmente vantaggiose.

Per di più, a queste imprese si applicheranno gli studi di settore che, se per un verso serviranno a ridurre quelle forme di concorrenza sleale interne al comparto stesso, derivanti dall’effetto distorsivo dell’evasione, dall’altro rischiano di prelevare ulteriori risorse a categorie di imprese che hanno già limitate possibilità di autofinanziarsi.

Né a tale situazione porranno rimedio strumenti di prelievo quali la DIT, la super-DIT e la stessa IRAP che, pur traducendosi in un alleggerimento della pressione fiscale dal lato delle imposte dirette, per loro natura favoriscono esclusivamente le imprese di maggiori dimensioni.

La politica previdenziale

Questo processo si dovrebbe accompagnare anche ad interventi significativi sulla spesa pubblica ed anche in questo caso l’obiettivo non può essere rappresentato solo dal rispetto degli aspetti contabili, ma deve mirare anche ad una riqualificazione dell’intervento pubblico tale da promuovere la crescita degli investimenti e dell’occupazione.

In questo senso vanno anche interpretati i problemi legati alla spesa previdenziale, che non può essere considerata unicamente per aspetti relativi alla finanza pubblica.

Le scelte effettuate valutando solo l’impatto immediato in termini di bilancio potrebbero, infatti determinare una ulteriore attenuazione delle prospettive di sviluppo e determinare anche effetti diversi da quelli attesi in termini di finanza pubblica.

Se è vero che le tendenze demografiche in atto rischiano di rendere preoccupante la situazione nel medio – lungo periodo, non bisogna dimenticare che il continuo proporsi di allarmi e di interventi radicali sul sistema previdenziale contribuisce a creare un clima negativo presso le famiglie.

Le aspettative negative non coinvolgono solo coloro che si trovano in quella fascia di età più prossima al pensionamento (50-55 anni), ma un universo più vasto nel quale rientrano anche coloro che si affacciano oggi sul mercato del lavoro e che percepiscono, come unico messaggio, l’impossibilità di ricevere nel futuro una pensione, e di non avere quindi garantito nel momento in cui si è più deboli un reddito.

Questa situazione comporta inevitabilmente un atteggiamento prudente verso i consumi, in particolare nei confronti di quelli che necessitano di impegni più significativi di spesa, con le inevitabili ripercussioni sulla crescita, l’occupazione gli investimenti e di converso sulla finanza pubblica.

A questo bisogna aggiungere che i continui annunci portano ad una accentuazione della richiesta di pensioni di anzianità, in quanto molti nell’incertezza preferiscono usufruirne appena raggiunti i limiti richiesti.

Al di là degli aspetti psicologici che presenta una situazione come è quella attuale, non bisogna dimenticare che interventi radicali sulla previdenza, come sono quelli proposti da fonti anche autorevoli e che sono compatibili con le esigenze a breve di risanamento del debito, sarebbero molto pesanti anche in termini di crescita occupazionale.

La bassa dinamicità del mercato del lavoro riscontrata negli ultimi anni, potrebbe, infatti, trasformarsi addirittura nel completo immobilismo, in quanto l’eliminazione immediata delle pensioni di anzianità rischia di bloccare anche quel minimo di turnover che ha permesso l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro ed ha impedito la completa paralisi.

Si aggiunga che con questa manovra si avrebbe un incremento molto accentuato delle pensioni di anzianità, con la collocazione fuori dal mercato di molte persone ancora in grado di svolgere una attività e che presumibilmente potrebbero essere in seguito impiegate in attività in nero, con le inevitabili conseguenze sull’occupazione e sul bilancio pubblico.

La soluzione compatibile è di affrontare il problema in un'ottica globale.

Una ipotesi potrebbe essere quella di rivedere i meccanismi delle pensioni di anzianità per tutti i settori consentendo l'anticipo delle prestazioni per non più di cinque anni rispetto all'età della pensione di vecchiaia.

Tali modifiche, peraltro, non possono prescindere dalla contestuale revisione degli ammortizzatori sociali in una logica di integrazione tra sistema pensionistico e la realizzazione di un modello Welfare fasato sulla reale situazione del mercato del lavoro.

Allo stesso tempo va realizzata la graduale riduzione del prelievo che grava sul mondo produttivo per finanziare le politiche previdenziali del passato.

La politica per gli investimenti

Una politica per lo sviluppo nel nostro Paese non può certamente prescindere da interventi che mirino ad una promozione degli investimenti.

Nonostante la politica monetaria più favorevole ed alcune iniziative volte ad incentivarne lo sviluppo, la formazione lorda di capitale fisso ha continuato a mostrare nel nostro Paese tassi di crescita abbastanza contenuti, segnalando nel ‘98 un livello ancora inferiore a quello raggiunto all’inizio degli anni ’90.

Anche in questo caso l’azione deve essere valuta nel suo complesso e riguardare sia la componente privata degli investimenti, che la spesa pubblica.

Sotto quest’ultimo aspetto la necessità di riequilibrare i conti pubblici ha portato negli ultimi anni ad una compressione della spesa in rapporto al PIL sia per gli investimenti diretti, che per la componente relativa ai contributi.

Al di là delle proposte che vorrebbero, in considerazione di una dinamica comune a tutti i paesi dell’area dell’euro, scorporare la spesa per investimenti dal rapporto deficit/PIL per permettere azioni pubbliche più incisive, è evidente che l’intervento dello Stato in materia deve divenire sempre più selettivo ed attento agli effetti che produco le scelte compiute.

In questo senso l’azione pubblica deve mirare in misura sempre più incisiva alla attenuazione dei gap esistenti a livello territoriale, per favorire uno sviluppo più sostenuto nelle aree dove è più evidente il ritardo e dove la crescita può garantire migliori risultati in termini occupazionali.

I contenuti margini di manovra, finanziariamente parlando, dell’operatore pubblico nella promozione degli investimenti e la parziale inefficacia della politica monetaria sulle decisioni delle imprese sottolineano ancora una volta la necessità di favorire l’afflusso del risparmio delle famiglie verso il mercato.

Nel contesto attuale, nel quale la liquidità presente nel Paese stenta a trovare una allocazione remunerativa e preferisce indirizzarsi verso l’estero, è fondamentale attivare strumenti finanziari innovativi che, rimuovendo i vincoli strutturali, favoriscano un maggior afflusso dei capitali di rischio verso le piccole e medie con effetti decisamente positivi in termini di crescita e di occupazione.

CONCLUSIONI

Le prospettive per il nostro Paese sono di un biennio 1999-2000 ancora caratterizzato da uno basso incremento produttivo (3,1% cioè la crescita auspicabile per un solo anno).

Il rallentamento ciclico internazionale sta producendo effetti altamente depressivi sul sistema italiano, in considerazione anche dei molteplici elementi di tipo strutturale che da anni ne condizionano le prospettive di sviluppo:

  • debito pubblico;
  • carenza di infrastrutture;
  • basso livello di competitività.

La contenuta dinamica produttiva attesa per i prossimi anni per l’Italia avrà come conseguenze:

  • l’ampliamento dei divari con gli altri paesi della UEM, che pur stimati in rallentamento sono previsti crescere a tassi ancora più sostenuti rispetto all’Italia sia in termini di prodotto che di occupazione;
  • l’acuirsi dei problemi del mercato del lavoro, sia per coloro che si pongono per la prima volta sul mercato, sia per quanti una volta persa una occupazione difficilmente avranno la possibilità di rientrare nel mondo produttivo;
  • l’accentuarsi dei problemi di riequilibro della finanza pubblica;
  • l’acuirsi della conflittualità sociale (in particolare vi è il rischio di un conflitto intergenerazionale);
  • il mancato sviluppo del sistema e l'attenuarsi dei processi di ammodernamento, con una ulteriore perdita di competitività del Paese.

Il problema della competitività del sistema italiano è quello che in questi giorni, in concomitanza con l’introduzione dell’euro, sta emergendo in misura più rilevante.

Ci siamo trovati all’appuntamento europeo nelle condizioni peggiori per affrontare la competizione in considerazione oltre che dei ritardi strutturali, anche dimensionali del nostro sistema produttivo, come dimostrano le recentissime manovre di concentrazione in alcuni settori chiave, bancario e delle telecomunicazioni, più immediatamente e direttamente esposti alla concorrenza europea.

Anche la struttura produttiva orientata all’export sta mostrando, in un fase di rallentamento ciclico internazionale, tutti i suoi limiti.

Tra il ’92 ed il ‘96 nei quali il contributo della domanda estera è risultato determinante per la crescita non si sono creati, nei settori dove la struttura produttiva italiana è specializzata, nuovi posti di lavoro.

Alla fine degli anni ‘90 l’Italia si ritrova con una specializzazione produttiva identica a quella che aveva all’inizio degli anni ’70 e cioè incentrata sui settori maturi dei prodotti tradizionali, che subiscono la concorrenza dei Paesi in via di sviluppo, avvantaggiati, in questo momento, non solo da una struttura del costo del lavoro più bassa, ma anche dalla possibilità di utilizzare la leva dei tassi di cambio.

Situazione, questa, che non permette di ipotizzare nel breve medio periodo recuperi soddisfacenti di quote di domanda e di competitività.

Anche la struttura distributiva italiana evidenzia la presenza di punti deboli che rappresentano, oltre ai fattori derivanti dalla bassa crescita della domanda per consumi, limiti al suo sviluppo e che la sottopongono a possibili manovre espansionistiche da parte di imprese straniere meglio dotate di risorse finanziarie e con assetti organizzativi più consolidati.

Il tradizionale attendismo della politica economica italiana, e più in generale di tutto il sistema, sta rendendo in questo contesto sempre più urgenti interventi sia di tipo strutturale che congiunturale.

L’azione per essere efficace deve essere tempestiva – se non interveniamo oggi rischiamo non solo di registrare un biennio difficile, ma un lungo periodo di basso sviluppo che ci porterà inevitabilmente ai margini tra i paesi industrializzati – ed in grado di assicurare una crescita equilibrata e consolidata.

In assenza di un sostegno alla crescita da parte della domanda estera l’azione deve essere concentrata essenzialmente sul rilancio della domanda interna per consumi ed investimenti.

È chiaro che l’utilizzo di politiche anticicliche interne trova il suo limite più grande nei vincoli posti dal piano di rientro del debito e dal patto di stabilità.

Gli interventi, proprio per la complessità della situazione nella quale si trova il nostro Paese non possono però mirare al solo rispetto degli obiettivi contabili di finanza pubblica, ma devono valutare l’insieme degli effetti prodotti sull’occupazione, sul reddito e sugli investimenti.

È in questa direzione che deve essere orientata tutta l’azione sulla spesa pubblica, che deve mirare ad una riqualificazione dell’intervento sia per quanto concerne gli ammortizzatori sociali, che per la componente relativa agli investimenti.

Al di là delle proposte che vorrebbero, in considerazione di una dinamica comune a tutti i paesi dell’area dell’euro, scorporare la spesa per investimenti dal rapporto deficit/PIL per permettere azioni pubbliche più incisive, è evidente che l’intervento dello Stato in materia deve divenire sempre più selettivo ed attento agli effetti che produco le scelte compiute.

Dal lato dei consumi in assenza di effetti sensibili sul reddito disponibile delle famiglie conseguenti ad aumenti consistenti di occupazione, dei rinnovi contrattuali o ad una crescita delle entrate da rendite finanziarie, la via è rappresentata da azioni volte a ridurre i prezzi.

In questo senso interventi congiunturali e con effetti immediati già nel breve periodo possono essere rappresentati dalla riduzione dell’IVA e del tipo "rottamazione".

Nel medio lungo è necessario prevedere interventi che portino ad una sensibile riduzione del carico fiscale sia sulle famiglie che sulle imprese in grado di liberare risorse per gli investimenti e per i consumi.

A tutto ciò vanno associate azioni volte a creare condizioni favorevoli, interne al paese, per la crescita degli investimenti, tenendo presente che il contesto attuale sta spingendo la liquidità presente nel sistema a indirizzarsi o verso l’estero o ad essere utilizzata nei processi di concentrazione interna, con effetti se non neutrali quanto meno negativi in termini di occupazione.

***

1. L'EVOLUZIONE DEL COMMERCIO NEGLI ANNI '90 E LE PROSPETTIVE DI MEDIO PERIODO

Premessa

Nel corso degli anni '90 la rete distributiva italiana ha registrato, com’è ormai noto, un pesante processo di ristrutturazione, con il conseguente ridimensionamento quasi generalizzato della realtà imprenditoriale ed occupazionale, riflettendo fenomeni già avvenuti in precedenza in quei Paesi europei (Francia, Germania, Gran Bretagna) dove il sistema distributivo si era avviato verso una fase di “industrializzazione” delle sue diverse attività, alla ricerca di standard superiori di efficienza e di organizzazione.

I fattori che hanno originato tale riconversione sono riconducibili a più cause.

Da un lato infatti i profondi mutamenti nella struttura dei consumi, accentuati dalle difficoltà di bilancio delle famiglie, hanno spostato molti equilibri preesistenti nel settore commerciale per quanto riguarda i canali di vendita.

Il moltiplicarsi sia di formule di vendita concepite ed organizzate con criteri più moderni, sia di insediamenti commerciali di grande dimensione hanno rimodellato sul territorio i rapporti di forza con la rete “tradizionale”.

Dall’altro, la globalizzazione ha favorito l’apertura dei mercati e la scelta di molte imprese estere, dotate di maggiori mezzi economici e di una cultura manageriale più moderna, di operare nel nostro mercato aumentando conseguentemente il livello della competitività.

La diffusione, inoltre, della tecnologia ha aperto orizzonti nuovi per la gestione delle risorse e per lo sviluppo di nuovi mercati, come anche la diffusione sul mercato di nuovi prodotti da parte dell'industria ha richiesto maggiori spazi di vendita e politiche di marketing più complesse per soddisfare la domanda di beni di consumo.

I dati del censimento che sono analizzati nei paragrafi successivi riflettono in misura diversa questo processo di trasformazione e consentono di avere alcuni elementi di riflessione sulle tendenze in atto e sui problemi che le imprese commerciali dovranno affrontare nei prossimi anni.

Dal punto di vista metodologico i dati che l’ISTAT ha diffuso sono relativi alla struttura imprenditoriale italiana, con riferimento al 31 dicembre 1996.

La rilevazione comunque non ha coinvolto alcuni settori quali l’agricoltura, silvicoltura e pesca, nonché l’istruzione, sanità ed altri servizi sociali; la mancanza di queste informazioni influisce necessariamente sulla completezza delle analisi.

Un altro aspetto da non sottovalutare nel momento in cui si effettua il confronto di questi dati con quelli del precedente censimento, che risale al 1991, consiste nel cambiamento della tecnica di rilevazione delle informazioni.

I censimenti precedenti erano infatti condotti raccogliendo i dati dai questionari che venivano autocompilati dalle imprese. Per il censimento intermedio, viceversa, i dati sono stati acquisiti da un archivio (ASIA) realizzato attraverso la fusione di diversi archivi amministrativi. Questa diversità nella metodologia di rilevazione dei dati potrebbe aver portato ad una sottostima della consistenza di alcuni settori economici e ad una sovrastima di altri.

Di conseguenza, nel momento in cui si effettuano confronti tra i due censimenti eventuali dati anomali potrebbero essere attribuiti alla suddetta particolarità.

Analogamente, nel confronto intercensuario degli addetti, nei settori in cui è forte il fenomeno della stagionalità va tenuto presente che la data di riferimento del censimento '91 cade nel mese di ottobre, mentre per quello del '96 in dicembre.

La struttura produttiva negli anni 1991-1996

Premessa indispensabile per l’analisi del settore distributivo è dare un cenno sintetico ai dati relativi al complesso della struttura produttiva.

Al netto delle voci citate al 31 dicembre del 1996 sono state rilevate complessivamente 3.521.754 imprese. Sotto il profilo settoriale la maggior parte delle aziende è concentrata nel settore distributivo (oltre 1.227 mila imprese, poco meno del 35%), seguita dalle attività di servizi, in gran parte alle imprese (668 mila aziende, circa il 19%).

Tab. 1 – LA STRUTTURA IMPRENDITORIALE ITALIANA

Imprese per classi di addetti al 1996

  Var. Ass.  
Classi 0-2 3-5 6 e oltre TOTALE 1996 91/96
INDUSTRIA 289.804 114.115 153.587 557.506 15,8 282
COSTRUZIONI 312.791 80.414 47.637 440.842 12,5 107.847
COMM. INGR. E DETTAGLIO; RIPARAZ. 980.589 173.545 73.577 1.227.711 34,9 -52.333
ALBERGHI E RISTORANTI 135.373 52.059 24.176 211.608 6,0 -6.020
ALTRI SERVIZI (*) 913.045 113.836 57.206 1.084.087 30,8 334.130
TOTALE 2.631.602 533.969 356.183 3.521.754 100,0 383.906
(*) Al netto di Istruzione e Sanità
FONTE: Elaborazioni Centro Studi Confcommercio su dati Istat, Censimenti 1991 e 1996

Il settore manifatturiero è composto da oltre 557 mila e le costruzioni da quasi 441 mila imprese. Le aziende turistiche (alberghi e pubblici esercizi) sono oltre 211 mila.

Rispetto al 1991 la composizione settoriale è rimasta sostanzialmente invariata. Risulta infatti, pur con la cautela dovuta all’incompletezza della rilevazione, che il settore terziario nel suo complesso rappresenti ancora oggi poco meno del 72% delle imprese italiane.

Tuttavia il dato di sintesi sottende dinamiche differenziate all’interno del comparto: al considerevole aumento della consistenza di alcuni settori dei servizi, in particolare alle imprese, ha fatto riscontro la crisi che ha investito il settore distributivo e che ha comportato la fuoriuscita dal mercato di moltissime imprese (nell’intervallo intercensuario oltre 52.300); contemporaneamente si sono ridotte anche le attività ricettive e della ristorazione, sia pure in misura più contenuta (6 mila unità).

In termini assoluti la struttura produttiva nel suo complesso è cresciuta di quasi 384 mila imprese, prevalentemente imputabile ai servizi (oltre 334.000) e alle costruzioni (quasi 108.000 imprese).

Per quanto riguarda l’aspetto dimensionale quasi il 90% delle imprese dà lavoro ad un massimo di cinque addetti. In tale ambito, inoltre, la stragrande maggioranza (83%) è costituita da imprese che impiegano non più di due addetti.

La prevalenza di piccole imprese nel tessuto produttivo italiano è una caratteristica comune a tutti i settori economici, ma assume ancor più rilevanza nelle attività terziarie ed in particolare nella distribuzione nonché nei servizi alle famiglie ed alle imprese, tutti settori nei quali la percentuale di imprese con meno di sei addetti è pari o superiore al 94% delle imprese del settore.

Rispetto al 1991, inoltre, il numero di imprese di piccole dimensioni (da 0 a 5 addetti) è cresciuto di oltre 398.000 unità mentre le imprese con almeno 6 addetti sono diminuite di 14.000.

Il fenomeno descritto è essenzialmente imputabile al settore secondario (manifatturiero e costruzioni), mentre nel terziario gli andamenti sono più diversificati. Più in particolare infatti nel settore turistico aumenta la dimensione media delle imprese; nei servizi alle imprese ed alle famiglie cresce la consistenza delle strutture in tutte le classi dimensionali; nel settore commerciale, al contrario, si registra una diminuzione consistente delle aziende appartenenti ad entrambe le categorie dimensionali.

L'evoluzione e le caratteristiche del sistema distributivo italiano nel periodo 1991-1996

I dati del censimento Intermedio contribuiscono certamente a colmare una carenza di carattere informativo, solo in parte soddisfatta delle diverse fonti statistiche ufficiali, che finora non ha permesso di avere una fotografia, la più vicina possibile alla realtà, del settore commercio e delle sue principali caratteristiche assunte negli ultimi anni.

Anche se riferiti al 1996, i dati censuari costituiscono una base di partenza per cogliere soprattutto i fattori di crisi e di trasformazione che hanno interessato la rete distributiva italiana e, allo stesso tempo, sono una premessa indispensabile per individuare i percorsi futuri di un settore interessato anche da un rinnovamento del quadro normativo di riferimento che condizionerà in maniera significativa la presenza sul territorio degli esercizi commerciali.

Tab. 2 – LE IMPRESE E GLI ADDETTI NEL SETTORE DISTRIBUTIVO

Anno 1996

  1996 Var. ass. 91/96
  Imprese Addetti Imprese Addetti
COMMERCIO ALL'INGROSSO 366.792 968.923 131.171 95.474
Intermediari commercio 221.327 281.355 115.231 113.045
Commercio all'ingrosso 145.465 687.568 15.940 -17.571
COMMERCIO AL DETTAGLIO 571.295 1.388.800 -125.636 -241.529
Alimentare 199.727 537.841 -55.428 -82.801
Non alimentare 371.568 851.039 -70.208 -158.728
COMMERCIO SU AREE PUBBLICHE 103.231 139.753 -33.873 -73.188
di cui:
Posto fisso 76.179 98.454 19.212 11.693
Altre Forme 26.373 37.338 -53.377 -77.076
TOTALE (*) 1.041.318 2.497.476 -28.338 -219.243
(*) Al netto di: commercio di autoveicoli e motocicli; riparazioni.
FONTE: Elaborazioni Centro Studi Confcommercio su dati Istat, Censimenti 1991 e 1996

Secondo i dati diffusi dall’Istat, al 31 dicembre 1996 si contavano oltre 1 milione di imprese appartenenti ai settori dell’ingrosso, del dettaglio e dell’ambulantato, con una flessione, rispetto alla rilevazione del 1991, di oltre 28 mila aziende, che tuttavia sottende andamenti differenziati nei singoli settori.

Il solo commercio al dettaglio in sede fissa ha accusato un calo di oltre 125 mila imprese, di cui oltre 87 mila appartenenti alla classe di imprese con un massimo di 2 addetti.

Sotto il profilo dimensionale si conferma che il comparto, in modo più accentuato rispetto al totale dei settori economici, è caratterizzato da una netta prevalenza di piccole imprese: l’80% delle aziende della distribuzione non impiega più di 2 addetti, ed il 95% non più di 5.

L’ingrosso

In controtendenza rispetto all’andamento complessivo del settore, l’ingrosso ha ampliato la sua base produttiva in quanto sono state contate 366.792 imprese, ben 131.171 in più rispetto al ’91. La crescita è largamente imputabile agli intermediari del commercio, la cui consistenza in 5 anni è più che raddoppiata, anche per l’effetto rifugio svolto dal settore in un contesto di generalizzata crisi occupazionale.

Tale ipotesi è avvalorata anche dall'analisi delle imprese per classi dimensionali, che evidenzia una diffusa diminuzione delle imprese di media e grande dimensione, più che compensata dal vivace aumento della consistenza delle strutture più piccole, e più in particolare di quelle con un solo addetto.

Va comunque rilevato che anche l’ingrosso in senso stretto ha fatto registrare, nell'intervallo intercensuario, un aumento di quasi 16 mila aziende.

Sotto il profilo occupazionale il settore occupava poco meno di un milione di addetti, quasi 100 mila in più rispetto a cinque anni prima. Il dato sottende, come già accennato, un aumento vicino al 100% per gli intermediari, ed un calo di 17 mila unità nell’ingrosso in senso stretto.

Il dettaglio

Con riferimento all’attività di vendita al dettaglio in sede fissa ed ambulante sono state rilevate, al netto delle riparazioni, 674.526 imprese, con una flessione di 159.500 unità. Gli addetti erano 1 milione e 528 mila, con una diminuzione di quasi 315 mila unità nell’intervallo intercensuario.

Limitatamente a tale settore, inoltre, i dati censuari ci mettono a disposizione una serie di informazioni utili a delineare alcune caratteristiche delle imprese.

Dal punto di vista della struttura aziendale vi è una netta prevalenza delle ditte individuali, pari al 75,4% del totale.

Le società di persone e le società di capitali rappresentano rispettivamente il 19% e il 5% del totale, valori in crescita rispetto agli anni precedenti (come stanno a dimostrare i dati Infocamere relativi al registro imprese), parallelamente allo sviluppo di formule distributive che richiedevano un'organizzazione aziendale più complessa.

Tab. 3 – LE FORME GIURIDICHE DELLE IMPRESE DEL COMMERCIO AL DETTAGLIO

Anno 1996

  Numero Comp. %
Impresa individuale 508.887 75,4
Società di persone 129.211 19,2
Società di capitale 34.213 5,1
Società cooperativa 1.997 0,3
Altre forme di impresa 218 0,0
TOTALE 674.526 100,0
FONTE: Elaborazioni Centro Studi Confcommercio su dati Istat, Censimento Intermedio 1996

L’analisi effettuata incrociando le diverse forme giuridiche con le imprese suddivise per classi di addetti, evidenzia che la quasi totalità delle ditte individuali e delle società di persone si concentrano nelle imprese fino a 5 addetti, mentre le società di capitale, pur rappresentando una quota non elevata (5,1%, pari a 34.200), si distribuiscono su tutte le classi dimensionali, ma con particolare accentuazione (45%) anche in questo caso nelle imprese fino a 2 addetti.

La presenza di una quota così rilevante di piccole imprese con forme giuridiche complesse lascia supporre una cultura imprenditoriale più evoluta; tuttavia solo un’analisi della qualità degli obiettivi aziendali consentirebbe di capire se la forma societaria costituisce effettivamente un presupposto per l’innovazione e l’espansione dell’impresa, o più semplicemente risponde alla necessità di distinguere il patrimonio ed il reddito dell’impresa da quello della persona fisica, con conseguenti vantaggi di natura fiscale.

Tab. 4 – ALCUNE CARATTERISTICHE STRUTTURALI DELLE IMPRESE DEL COMMERCIO AL DETTAGLIO

Per classi di addetti – Anno 1996, composizione %

  0 -- 2 3 -- 5 6 e oltre TOTALE
FORMA GIURIDICA
Impresa individuale 90,2 8,5 1,3 100,0
Società di persone 60,2 30,3 9,4 100,0
Società di capitale 45,4 28,1 26,4 100,0
Società cooperativa 38,0 27,9 33,7 100,0
Consorzio 69,2 12,3 18,5 100,0
Az. regionale,provinciale,comunale 8,2 27,0 64,8 100,0
Altra forma di impresa 61,5 15,4 23,1 100,0
TOTALE 82,2 13,6 4,2 100,0
DIFFUSIONE TERRITORIALE
Impresa a diffusione comunale 99,0 93,4 81,6 97,5
Impresa a diffusione provinciale 0,7 4,5 9,8 1,6
Impresa a diffusione regionale 0,1 1,3 4,7 0,5
Impresa a diffusione nazionale 0,1 0,9 4,0 0,4
TOTALE 100,0 100,0 100,0 100,0
PLURILOCALIZZAZIONE
Impresa unilocalizzata 97,6 83,4 64,9 94,3
Impresa plurilocalizzata 2,4 16,6 35,1 5,7
TOTALE 100,0 100,0 100,0 100,0
FONTE: Elaborazioni Centro Studi Confcommercio su dati Istat, Censimento Intermedio 1996

Questa seconda ipotesi sembra avvalorata anche da un altro indicatore, ossia la diffusione territoriale delle imprese del dettaglio, intesa come localizzazione della o delle unità locali dell’impresa. Dai dati censuari emerge infatti che oltre il 97% delle aziende non opera al di fuori del comune in cui ha sede, e questa diffusione così limitata è caratteristica anche delle società di capitale (nell’87% dei casi) nonché più in generale delle aziende di maggiori dimensioni.

Infatti, incrociando i dati relativi alla diffusione territoriale ed alla classe di addetti, risulta che le imprese con 6 addetti ed oltre hanno, per oltre l’81% dei casi, tutte le unità locali nello stesso comune sede dell’impresa, e comunque, nel 91% dei casi, nella stessa provincia.

Inoltre, a conferma della scarsa apertura territoriale anche delle imprese di maggiori dimensioni, ben il 65% delle imprese con 6 addetti ed oltre è unilocalizzata, ossia consta di una sola unità locale.

Pertanto il quadro del settore si conferma, sulla base dei dati censuari, fortemente caratterizzato da aziende piccole e ancorate sul territorio, dipendenti dalla domanda che quest’ultimo è in grado di esprimere, ed a questa regola non sfuggono, nella gran parte dei casi, neanche le aziende costituite in forma giuridica più complessa, che invece dovrebbero sottendere un maggior sviluppo relazionale e dimensionale.

Infine, anche le aziende più grandi risultano dotate di un raggio d’azione molto modesto, che per lo più non supera i confini del comune, spesso in conseguenza della concentrazione dell’attività in un solo punto vendita, ma in molti casi (si tratta di quasi 5 mila aziende) risontrabile anche nelle imprese plurilocalizzate.

Il commercio al dettaglio in sede fissa

Con esclusivo riferimento alle attività di vendita al dettaglio presso i negozi, i dati censuari hanno rilevato oltre 571 mila aziende, che occupano quasi 1.389 mila addetti.

Come già accennato, la gran parte del ridimensionamento strutturale del settore distributivo è imputabile a tale comparto, che nel quinquennio di riferimento si è ridotto di oltre 125 mila aziende con una perdita occupazionale di 241 mila posti di lavoro.

Il comparto alimentare

Per quanto riguarda il settore alimentare sono state rilevate quasi 200 mila aziende, anche in tal caso concentrate nella fascia dimensionale fino a due addetti. Tra il 1991 ed il 1996 la consistenza si è complessivamente ridotta di 55.428 unità, in larghissima parte riferibili agli esercizi del commercio tradizionale caratterizzati da una specializzazione merceologica: oltre 54 mila in meno (pari a -31,5%) rispetto a 5 anni prima, e fortemente concentrati nella classe dimensionale fino a 5 addetti.

La riduzione ha comunque interessato tutte le tipologie (distributive e dimensionali), con l’unica eccezione degli esercizi alimentari non specializzati di maggiori dimensioni (6 addetti ed oltre), che rappresentano formule di vendita quali i supermercati, gli ipermercati e i discount, la cui consistenza è complessivamente aumentata di oltre mille unità.

Tab. 5 – IL DETTAGLIO ALIMENTARE

Anno 1996

  Specializzato Non Specializzato Totale
IMPRESE 118.680 81.047 199.727
ADDETTI 206.008 331.833 537.841
- dipendenti 36.958 202.992 239.950
- indipendenti 169.050 128.841 297.891
Variazioni assolute 96/91
IMPRESE -54.563 -865 -55.428
ADDETTI -128.632 45.831 -82.801
Elaborazioni Centro Studi Confcommercio su dati Istat, Censimenti 1991 e 1996

D’altronde, tra il 1991 ed il 1996 l’indicatore delle vendite al dettaglio evidenzia bene la diversa preferenza accordata alle strutture più complesse. Anche se le classi di addetti sono troppo accorpate per consentire un’analisi più approfondita, è evidente che l’incremento del valore delle vendite è tanto più consistente quanto più si fa riferimento a formule che richiedono un maggior numero di addetti: infatti, se poniamo l’indice delle vendite pari a 100 nel 1991, nel 1996 la variabile risulta pari a 128,9 nelle strutture fino a 9 addetti, a 131,9 negli esercizi con addetti compresi tra 10 e 19, e a 137,2 nelle imprese con più di 20 addetti.

Nonostante l’ampliamento della quota di mercato degli iper, supermercati e discount, che secondo alcune stime ha raggiunto il 58% circa dei consumi, il dettaglio alimentare si caratterizza ancora per una presenza prevalente di esercizi specializzati, 118.680 imprese, per il 98% dei casi con non più di cinque addetti e per l’86% con non più di due.

Sotto il profilo della forma giuridica il settore alimentare appare il più ancorato alle formule più tradizionali: il 79,5% delle imprese è costituito come ditta individuale, a fronte, ad esempio, del non alimentare, dove tale percentuale è considerevolmente più bassa (67,5%). Inoltre questa caratteristica connota in modo ancor più accentuato il segmento specializzato (ben l’85% delle aziende).

Gli addetti nel settore erano al 1996 537.841, circa 83 mila in meno rispetto a cinque anni prima. La flessione ha interessato in modo prevalente la classica formula distributiva del negozio specializzato (-38,4% pari a 128 mila addetti in meno), mentre negli esercizi non specializzati l’occupazione è cresciuta di circa 46 mila unità.

È dunque evidente che tale incremento, dovuto in larga parte alla componente dipendente, non è stato sufficiente a compensare la fuoriuscita di occupati dal dettaglio tradizionale, nella maggior parte dei casi lavoratori indipendenti.

Ciò nonostante, in linea con quanto rilevato per le imprese, il lavoro autonomo costituisce ancora il 55% degli occupati nel settore, superando l’80% nel segmento specializzato.

Il comparto alimentare impiega mediamente 2,7 addetti ogni impresa, mostrando un’evoluzione positiva rispetto al 1991. Il dato ovviamente riflette lo sviluppo delle strutture di maggiori dimensioni, come confermato dal fatto che l’aumento degli addetti medi è stato registrato solo nelle strutture alimentari non specializzate.

Il comparto non alimentare

Con riferimento agli esercizi di commercio al dettaglio non alimentare il censimento intermedio ha rilevato 371.568 aziende, ed anche in questo caso dal confronto con i dati del 1991 è emersa una sensibile contrazione dell’apparato produttivo del settore: oltre 70 mila imprese in meno, ancora una volta tutte appartenenti alla classica formula distributiva del negozio specializzato e, in termini percentuali, soprattutto alla classe dimensionale tra 3 e 5 addetti.

Per contro per gli esercizi non specializzati (grandi magazzini, drugstore) è stata rilevata una crescita, nell’intervallo intercensuario, di 490 unità, concentrata nella classe dimensionale media e grande.

Tab. 6 – IL DETTAGLIO NON ALIMENTARE

Anno 1996

  Specializzato Non specializzato Totale
IMPRESE 369.131 2.437 371.568
ADDETTI 809.211 41.828 851.039
- dipendenti 271.597 37.992 309.589
- indipendenti 537.614 3.836 541.450
Variazioni assolute 96/91
IMPRESE -70.698 490 -70.208
ADDETTI -160.203 1.475 -158.728
FONTE: Elaborazioni Centro Studi Confcommercio su dati Istat, Censimenti 1991 e 1996

Con riferimento al non alimentare l’analisi dell’indice delle vendite al dettaglio evidenzia una diversa dinamica nelle imprese appartenenti a differenti classi dimensionali, in termini ben più accentuati di quanto è stato detto per l’alimentare: tra il 1991 ed il 1996 l’indicatore è passato da 100 a 104,7 103,2 e 121,7 negli esercizi con un numero di addetti compreso, rispettivamente, tra 1 e 9, 10 e 19, 20 ed oltre.

La variabile sembra dunque supporre un maggiore orientamento della domanda verso le grandi strutture di vendita, quali gli ipermercati e i grandi magazzini, che nel periodo in esame hanno mostrato un’evoluzione costantemente positiva. Per contro, nelle strutture appartenenti alle altre due classi dimensionali l’indicatore ha mostrato segnali di regressione non solo nel ’93, anno in cui i consumi delle famiglie hanno accusato un calo, ma anche nel ’96.

Comunque, nonostante il mutare della quota di mercato della grande distribuzione il commercio di prodotti non alimentari avviene ancora essenzialmente negli esercizi specializzati, che con 369.131 imprese rappresentano oltre il 99% delle aziende del settore.

Il comparto occupava al 1996 851 mila addetti, per il 95% operante in esercizi specializzati. Rispetto a cinque anni prima il settore ha espulso complessivamente quasi 159 mila persone, sintesi di un lieve incremento (1.475 unità) negli esercizi non specializzati e di un forte calo nel dettaglio tradizionale (oltre 160 mila).

Alla luce della consistenza strutturale non sorprende che oltre il 63% degli occupati ricoprano una posizione indipendente, ovviamente concentrata nello specializzato. Negli esercizi non specializzati, invece, la quota di indipendenti è inferiore a dieci punti percentuali.

Le aziende del settore occupano mediamente 2,3 addetti, come cinque anni prima. Va segnalato che, nell’ambito degli esercizi non specializzati, si è manifestata una tendenza alla riduzione degli addetti medi (da 20,7 nel 1991 a 17,2 nel 1996).

Nell’ambito del dettaglio non alimentare la contrazione della base produttiva ha interessato in modo consistente alcuni segmenti merceologici di particolare importanza.

Tab. 7 – ALCUNI SETTORI DEL DETTAGLIO NON ALIMENTARE

Anno 1996

  Abbigliamento Calzature e articoli in cuoio Mobili e articoli di illuminazione Elettrodomestici e apparecchi radio-tv
IMPRESE 91.616 20.823 38.165 18.046
ADDETTI 194.641 47.417 92.395 43.667
- dipendenti 66.886 17.399 33.756 16.319
- indipendenti 127.755 30.018 58.639 27.348
Variazioni assolute 96/91
IMPRESE -20.184 -5.856 -3.630 -5.516
ADDETTI -45.673 -10.926 -16.874 -11.833
Elaborazioni Centro Studi Confcommercio su dati Istat, Censimenti 1991 e 1996

L’abbigliamento, ad esempio, che rappresenta un quarto delle imprese del commercio al dettaglio non alimentare, contava al ’96 quasi 92 mila aziende, accusando nei cinque anni precedenti una contrazione di oltre 20 mila imprese, anche in tal caso concentrate nella fascia dimensionale più piccola (0-2-addetti). In termini percentuali, tuttavia, la flessione più rilevante ha interessato le imprese con un numero di addetti compreso tra 3 e 5, la cui consistenza si è ridotta di oltre un quarto.

Nel periodo di riferimento si è corrispondentemente ridotta (46 mila addetti in meno) la forza lavoro occupata, rilevata nel 1996 in quasi 195 mila persone, in media 2,1 ogni impresa.

Sotto il profilo della forma giuridica le aziende commerciali dell’abbigliamento sono costituite per oltre il 66% come ditte individuali, e per il 33,5% come in forma societaria (di persone e di capitale).

In tale quadro tuttavia vanno sottolineati alcuni importanti cambiamenti. Infatti in generale, ed ancor più nell’abbigliamento, molte imprese produttrici hanno scelto di seguire i propri prodotti fino al rapporto con il consumatore. Questa strategia, attuata da tutte le principali imprese che operano nel settore, è stata spesso perseguita attraverso il fenomeno dell’affiliazione commerciale, e pertanto favorendo in molti casi la creazione di più imprese legate alla casa madre da un rapporto di franchising. Questo processo, che non può emergere dai dati censuari fin qui descritti, sottende tuttavia la creazione di quel collegamento spesso auspicato tra le imprese di minori dimensioni che consenta loro di operare sul mercato in condizioni di maggiori garanzie economiche, organizzative e gestionali.

Secondo i dati Nielsen-Sita la quota di mercato del dettaglio tradizionale è sceso negli ultimi 10 anni dal 70% al 54%, mentre la Grande Distribuzione Organizzata e le catene di negozi hanno progressivamente acquisito il 34% dei consumi. Il restante 12% dei consumi passa per altri canali, in primo luogo gli ambulanti, ma anche le vendite per corrispondenza, i negozi di articoli sportivi e gli spacci aziendali.

Tab. 8 – LE QUOTE DI MERCATO PER TIPOLOGIA DISTRIBUTIVA NEL SETTORE DELL’ABBIGLIAMENTO

valori percentuali

  1988 1997 2005
Dettaglio tradizionale 70 54 46
G.D.O. 16 34 44
Altri canali 14 12 10
Sita Nielsen

Analizzando i risultati relativi alle calzature, il censimento ha rilevato la presenza sul mercato di poco meno di 21 mila imprese e oltre 47 mila addetti, con una forte contrazione della base produttiva (22%, pari a quasi 6 mila in meno) ed occupazionale (18,7%, pari a circa 11 mila persone) nel comparto.

La dimensione media del segmento è lievemente maggiore rispetto all’abbigliamento (2,3 addetti medi), mentre la forma giuridica prevalente risulta, ancora una volta, la ditta individuale. Le forme societarie rappresentano comunque un terzo delle imprese censite.

Anche il mercato delle calzature è frazionato su diverse tipologie merceologiche e distributive. La quota di mercato del dettaglio tradizionale è inferiore al 50%, avendo sofferto negli anni una progressiva riduzione. I negozi di articoli sportivi hanno acquisito oltre l’11% dei consumi, gli esercizi ambulanti circa l’8% e i negozi di abbigliamento poco meno del 5%.

Con riferimento ai mobili, che costituiscono oltre il 10% delle imprese commerciali al dettaglio non alimentare, il censimento ha rilevato oltre 38 mila imprese e 92 mila addetti. La flessione nel quinquennio in esame è stata più contenuta rispetto ad altri segmenti (-8,7%, pari a 3.630 esercizi e –15,4%, pari a 16.874 occupati in meno), ed ha interessato percentualmente in prevalenza le imprese di grandi, ma soprattutto di medie dimensioni.

Il calo strutturale è stato per contro molto più contenuto (appena il 2%) nelle imprese con un numero di addetti non superiore a 2, che costituicono quasi il 74% del segmento merceologico. Va tuttavia rilevato che la voce in esame comprende per oltre la metà anche gli articoli di illuminazione e più in generale l’oggettistica per la casa. Ed in effetti è stato questo segmento a tenere complessivamente il mercato, assecondando il maggiore interesse mostrato dai consumatori nei confronti del dettaglio e del design, sempre più importante in abitazioni strutturalmente meno appariscenti.

Le diverse caratteristiche del comparto, rispetto alle merceologie sopra ricordate, giustificano la maggiore incidenza delle forme societarie (oltre il 40% delle aziende sono costituite in società di persone o di capitali), anche se la forma prevalente (60%) resta anche in questo caso la ditta individuale.

Anche nell’arredamento è in progressiva crescita la quota di mercato acquisita delle catene specializzate, come Habitat, Emmezeta e Ikea, che stanno effettuando importanti investimenti con l’apertura di nuovi punti vendita. La quota di mercato degli esercizi specializzati, tradizionali e non, si aggira, secondo alcune stime, intorno all’80%.

Infine, con riferimento al commercio al dettaglio di elettrodomestici, il censimento ha registrato oltre 18 mila imprese e circa 44 mila addetti.

Nel quinquennio in esame il settore ha accusato una riduzione di 5.500 aziende (-23,4%), più concentrate in termini percentuali nella fascia dimensionale media (nonostante che oltre il 77% non occupi più di 2 addetti), e di quasi 12 mila persone, oltre un quinto della forza lavoro impiegata nel 1991.

Sotto il profilo della forma giuridica la tipologia merceologica per il 34,5% è costituita in forma societaria, e per il 65,5% come ditta individuale.

Anche in questo segmento le catene (Get e Europiù) stanno portando avanti una decisa politica espansionistica supportata da cospicui mezzi organizzativi e finanziari.

Il commercio su aree pubbliche

La crisi che ha caratterizzato in questi anni il commercio al dettaglio in sede fissa, soprattutto quello rappresentato dalle piccole imprese, non ha risparmiato neanche il commercio ambulante, un settore che ha dovuto accelerare il processo di ristrutturazione di fronte a due fattori: da un lato l'inevitabile sviluppo che ha caratterizzato la distribuzione moderna; dall'altro la progressiva razionalizzazione della rete distributiva "tradizionale" che ha imposto la logica di una maggiore specializzazione.

Nell’ambito del commercio al dettaglio al di fuori dei negozi, il commercio su aree pubbliche (sia a posto fisso che mobile) al 31 dicembre 1996 contava oltre 103.000 aziende di cui i tre quarti a posteggio fisso. Rispetto al 1991 la consistenza delle imprese ha registrato una contrazione di quasi 34.000 unità, risultato di due andamenti contrapposti.

Da un lato, infatti, si è registrato un aumento degli ambulanti a posto fisso (operatori che hanno un posto fisso nei mercati giornalieri o in quelli che si svolgono periodicamente nei comuni), mentre vi è stato un calo di quelli che esercitano l’attività in forma itinerante.

È possibile che a determinare questa situazione abbia influito anche l’applicazione della legge 112/1991, contenente nuove regole per l’esercizio dell’attività commerciale su aree pubbliche. La nuova normativa prevedeva, tra l’altro, la riconversione delle autorizzazioni già in vigore in una delle tre nuove tipologie previste e in questo passaggio molti operatori potrebbero aver privilegiato l’autorizzazione a posto fisso.

L’introduzione, avvenuta nel 1992, dell’obbligo di rilascio dello scontrino fiscale anche per gli esercenti su aree pubbliche, ha inoltre contribuito ad espellere dal mercato le imprese meno competitive, in un contesto nel quale un diffuso e tollerato abusivismo creava, e crea tuttora, forti disparità di trattamento ed evidenti forme di concorrenza sleale.

La contrazione della base produttiva del comparto ha comportato una consistente perdita di posti di lavoro. Gli addetti rilevati al 1996 erano infatti poco meno di 140 mila, oltre 73 mila in meno rispetto a cinque anni prima. Parallelamente all’andamento delle strutture la flessione ha interessato esclusivamente il segmento itinerante, mentre quello a posto fisso ha fatto registrare un incremento di addetti pari ad 11.693 unità.

Il numero medio di addetti occupati in ogni azienda è pari a 1,4, lievemente inferiore rispetto al 1991 (1,6).

Le tendenze e i mutamenti strutturali

In termini evolutivi la tendenza al ridimensionamento dal punto di vista strutturale del dettaglio, già emersa dal confronto dei dati censuari 1991 – 1996, è proseguita negli anni successivi, indice che la ristrutturazione del settore dal punto di vista delle tipologie di vendita e dei sistemi organizzativi non ha ancora trovato un punto di equilibrio e di assestamento.

In tal senso i dati relativi al movimento delle imprese (iscrizione e cancellazione nel registro imprese) forniti dalle anagrafi camerali per gli anni 1997 e 1998 registrano ancora un elevato numero di imprese fuoriuscite dal mercato, anche se a ritmi meno sostenuti rispetto a quanto riscontrato negli anni precedenti, la cui perdita non è stata tuttavia compensata dal numero di nuove iniziative imprenditoriali nel settore.

Il numero delle imprese cessate è concentrato nel segmento del commercio al dettaglio (55.770 nel ’97 e 49.440 nel ‘98) ed interessa prevalentemente le ditte individuali, ossia le imprese di piccole dimensioni, che nel biennio si sono ridotte di 91mila unità.

Tab. 9 – Nati-mortalità delle imprese del commercio

  1997 1998
  Iscritte Cessate Saldo Iscritte Cessate Saldo
Comm., manut. e riparazione autovetture e motocicli 7.787 10.460 -2.673 6.975 9.033 -2.058
Comm. ingrosso e interm. del commercio 32.881 32.078 803 31.907 28.404 3.503
Comm. dettaglio; rip.beni pers. 41.084 55.770 -14.686 36.863 49.440 -12.577
TOTALE COMMERCIO 81.752 98.308 -16.556 75.745 86.877 -11.132
Fonte: Elaborazioni Centro Studi Confcommercio su dati Movimprese

Rimane comunque significativo, anche se in calo rispetto agli anni precedenti il numero di nuove iscrizioni, indice di una capacità del settore, soprattutto nel dettaglio, di offrire diverse possibilità di investimento (41.084 nel ‘97 e 36.863 nel ’98).

Anche dall'analisi delle vendite, in termini reali, del commercio al dettaglio si evidenzia, per l'anno appena trascorso un modesto incremento (+1%), che riflette andamenti differenziati per le singole tipologie di esercizi di vendita: di fronte ad una sostanziale stagnazione degli acquisti effettuati presso le imprese di piccola dimensione, ossia fino a 5 addetti, (+0,4% in termini reali), si è registrato un incremento della domanda presso le grandi strutture (+2,6%).

Ciò che potrà succedere a partire dal 1999 è di difficile individuazione anche perché lo scenario di riferimento si è arricchito di nuovi elementi che condizioneranno lo sviluppo delle imprese nei prossimi anni e costituiranno motivi per accelerarne i processi competitivi.

Si pensi, ad esempio, agli effetti derivanti dall’impatto con l’Euro a cui le imprese fin da oggi di devono necessariamente preparare, soprattutto per quanto riguarda le innovazioni da attuare nelle diverse fasi della gestione, con implicazioni sulle politiche di marketing e di prezzo.

L’adeguamento dell’organizzazione aziendale comporterà innanzitutto dei costi che potranno incidere pesantemente sul giro d’affari, soprattutto delle piccole e medie imprese.

Anche i rapporti industria-distribuzione dovranno essere visti sotto un’altra prospettiva con effetti sul livello della competitività delle imprese.

In particolare aumenterà la frequenza agli acquisti internazionali, indotta anche la riduzione dei rischi valutari e si verificherà un consolidamento delle centrali d’acquisto a livello europeo. Ci sarà inoltre una maggiore ricerca di vantaggi nella negoziazione degli assortimenti e una modifica della scala dei prezzi con conseguenti ricadute sugli arrotondamenti e sul posizionamento nei punti vendita dei prodotti, sia di marca industriale che commerciale.

Senza dubbio un fattore che avrà un impatto rilevante nello sviluppo degli insediamenti commerciali, è costituito dalla riforma della legislazione sul commercio attuata con il Decreto Legislativo 114/98 e che entrerà in vigore in tutte le sue parti dall’aprile del 1999.

Il Decreto prevede, tra l'altro, l’attribuzione alle Regioni ed ai Comuni dei compiti di programmazione e di definizione delle norme che regolano i procedimenti per gli insediamenti commerciali.

Ogni Regione, quindi, potrà decidere la presenza e la localizzazione delle diverse tipologie di strutture di vendita individuate dal Decreto, tenendo anche conto delle particolari esigenze dei centri storici, delle aree rurali e di montagna, tutto questo con una varietà di approcci che porterà ad uno sviluppo differenziato, su scala regionale, ma anche con una ulteriore articolazione su scala comunale del settore.

In particolare, dall'esame delle bozze di indirizzi programmatori delle Regioni, emerge l'attenzione verso uno sviluppo equilibrato e controllato delle medie e grandi superfici di vendita (supermercati, iper, centri commerciali), attuato attraverso la programmazione del numero di esercizi, individuando i limiti massimi di sviluppo degli insediamenti, definendo le compatibilità tra le diverse tipologie di vendita e le classi di comuni in base alla popolazione.

Chiaramente tali limiti di sviluppo sono individuati sia sulla base di analisi territoriali della domanda di servizi commerciali (consumi), sia in relazione all'offerta già presente sul territorio al fine di evitare impatti traumatici sulla rete esistente e, soprattutto, sulle piccole imprese.

2. IL MODELLO ITALIANO DI SPECIALIZZAZIONE PRODUTTIVA

La struttura del commercio estero italiano

Nel corso degli ultimi venti anni, l’Italia ha visto gradualmente crescere la propensione ad esportare[1], fino a destinare alla domanda estera quasi il 26% del prodotto interno lordo.

Si tratta di una tendenza generalizzata e comune alla maggior parte dei Paesi della UE, che ha subito una sensibile accelerazione proprio a partire dai primi anni novanta. L’adesione al Trattato di Maastricht ha determinato un sostanziale cambio di regime nelle politiche economiche dei Paesi europei, dando priorità al risanamento dei conti pubblici ed al controllo dell’inflazione attraverso una compressione più o meno accentuata della domanda interna (consumi e investimenti).

Tab. 10 – La propensione ad esportare nelle principali aree e Paesi

rapporto percentuale tra esportazioni di beni e servizi e PIL a prezzi costanti

  1987 1989 1991 1993 1995 1997
UNIONE EUROPEA 25,7 27,8 27,6 29,9 32,4 -
- ITALIA 16,8 18,6 19,2 22,9 24,6 25,8
- GERMANIA 28,0 31,3 24,9 25,1 27,3 29,5
- RANCIA 23,0 25,0 26,8 27,9 30,0 32,6
- REGNO UNITO 22,6 24,2 25,7 27,3 29,9 31,3
- SPAGNA 20,0 19,5 22,0 27,5 31,7 34,6
STATI UNITI 7,9 9,2 10,2 10,8 12,4 13,4
GIAPPONE 10,1 10,7 11,3 11,8 12,2 13,5
TOTALE OCSE 16,5 17,9 18,5 20,0 22,0 -
Rapporto ICE 1997

La minor dinamicità del mercato interno ha spinto così gran parte delle imprese manifatturiere, ma anche delle imprese terziarie europee, a dirottare una quota consistente della produzione verso i mercati esteri.

Infatti, sebbene gli scambi intra-regionali rivestano un ruolo determinate e insostituibile per la ricchezza dei Paesi europei – il commercio intra-UE si è pressoché quadruplicato nell’ultimo ventennio, passando da 335 a oltre 1.300 miliardi di dollari (+291%), rappresentando ormai il 25,7% del commercio mondiale – gli scambi inter-regionali tra la UE e le aree maggiormente appetibili come mercati di sbocco (Nordamerica, Giappone, Asia, America Latina e Paesi in transizione[2]) sono passati da circa 256 miliardi di dollari del 1991 ai quasi 500 miliardi di dollari del 1996 (+94,6%), pari a poco meno del 10% del commercio mondiale.

Tra le economie avanzate del G-7, l’Italia è il Paese che detiene una delle quote di mercato più basse, precedendo solo il Canada, con una riduzione progressiva delle quantità esportate sul totale mondiale dal 5% circa degli anni ottanta e dei primi anni novanta al 4,2% del 1998 (dato stimato).

Per il nostro Paese, tuttavia, questa contrazione è rimasta contenuta in meno di un punto percentuale, mentre per Paesi a più elevata vocazione esportativa come Germania e Giappone la flessione delle quote di mercato sull’export mondiale è stata più sensibile, rispettivamente di quasi 2,5 punti e 2,1 punti. A tale ridimensionamento, riscontrabile anche per Francia e Regno Unito in misura analoga a quello dell'Italia, si è invece contrapposto tra il 1990 ed il 1997 l’ampliamento della quota di mercato degli Stati Uniti di circa 1,6 punti, delle NIEs[3] asiatiche di oltre 2,5 punti e degli altri Paesi in via di sviluppo asiatici (soprattutto Cina, Thailandia, Malaysia e Filippine) di ben 4 punti.

Tab. 11 – Quote di mercato sulle esportazioni mondiali

a prezzi costanti

  1991 1993 1995 1997
ECONOMIE AVANZATE 81,3 79,8 78,3 77,7
- UE 43,2 40,9 40,3 40,0
  di cui:
-- ITALIA 4,8 5,0 5,1 4,5
-- GERMANIA 11,7 10,1 9,6 9,8
-- FRANCIA 6,4 6,0 5,7 5,7
-- REGNO UNITO 5,3 4,9 4,9 4,9
- STATI UNITI 11,9 12,0 12,2 13,2
- CANADA 3,7 4,0 4,2 4,1
- GIAPPONE 8,3 7,9 6,8 6,4
- NIEs 8,5 9,6 10,3 10,5
PAESI IN TRANSIZIONE 2,7 2,9 3,2 3,0
PAESI IN VIA DI SVILUPPO 22,5 24,2 25,0 24,2
- MEDIO ORIENTE ED EUROPA 4,5 4,5 4,2 3,9
- ASIA 12,3 13,8 15,8 15,5
- AMERICA 3,9 4,4 4,5 4,5
- AFRICA 2,4 2,3 2,1 2,3
MONDO 100,0 100,0 100,0 100,0
Fonte: Rapporto ICE 1997

Le cause di questa graduale erosione delle nostra quota di mercato, registratasi anche nei settori «tradizionali» abitualmente vincenti, sono imputabili sia a fattori esogeni, di tipo strutturale, sia a fattori meramente endogeni.

Tra i primi, che hanno interessato tutti i maggiori Paesi industrializzati, devono essere ricompresi i radicali mutamenti nella divisione internazionale del lavoro, che hanno accresciuto i differenziali di clup non soltanto a favore delle tradizionali NIEs asiatiche, ma anche di altre economie emergenti e più competitive sul piano dei costi, come quelle latino-americane o di alcuni Paesi in transizione.

Peraltro, e qui si manifestano le disfunzioni di carattere endogeno del nostro modello competitivo, il nostro comparto manifatturiero, appare frammentato in una miriade di piccole e medie imprese, in larga misura sottocapitalizzate e guidate da un management poco avvezzo a competere anche in termini di efficienza organizzativa e decentramento produttivo, denotando una capacità di internazionalizzarsi troppo modesta o, comunque, ancora insufficiente se paragonata con i medesimi processi in atto nei Paesi che abitualmente competono con il nostro.

Il processo sempre più spinto della globalizzazione, alimentato anche dalla pressoché perfetta mobilità dei capitali, ha così fortemente modificato il panorama del commercio mondiale: ai tre maggiori detentori delle quote di mercato, cioè UE con il 40% – in calo costante dal 1990 – Stati Uniti con oltre il 13% e Giappone con poco meno del 6,5%, si è affiancata ormai l’Asia, con una quota pari al 26%, con un incremento medio annuo di circa l’1% negli ultimi sette anni.

Nell’ultimo decennio la quota di produzione nazionale assorbita dagli altri Paesi avanzati si è ridotta dal 79,5% al 70,2%: quasi sette punti come ridimensionamento dell’area UE e poco più di due punti come contrazione del mercato nordamericano. È invece raddoppiata nel periodo l’importanza dei Paesi in transizione come mercati di sbocco, passati dal 4,1% all’8,3%, dei Paesi in via di sviluppo asiatici (dal 4,3% al 7,2%) e dell’America Latina (dal 2,1% al 4,4%).

Naturalmente, l’orientamento delle esportazioni italiane verso aree più dinamiche e con elevati tassi di crescita, ma ancora fortemente instabili e fragili sotto il profilo delle istituzioni finanziarie e del livello di governance[4], hanno reso il nostro Paese più esposto ai contraccolpi delle crisi regionali e/o congiunturali, anche per le particolari caratteristiche settoriali delle nostre esportazioni.

Quest’ultimo aspetto è reso evidente dall’analisi dei saldi normalizzati[5]. Rispetto agli scambi globali con la UE, il saldo normalizzato mostra un sostanziale equilibrio tra esportazioni ed importazioni sotto il profilo delle branche produttive, riducendosi progressivamente all’1,5% del 1997, anche se a partire dal 1993 si è passati da una situazione di modesta dipendenza dall’estero, che aveva caratterizzato il periodo precedente, ad una di modesta specializzazione.

Al contrario, il sistema produttivo italiano è tornato su livelli di consistente specializzazione complessiva, proprio a partire dal 1993, nei confronti dell’area nordamericana raggiungendo quota 26,4%, dei Paesi in transizione (13,9%), dei PVS asiatici (16,9%), anche se in sensibile regresso, e dell’America Latina (33,8%).

Con riferimento al totale degli scambi con l’estero, l’Italia ha invertito il segno del saldo normalizzato, negativo per circa il 4% sino al 1992 e positivo per circa il 6-7% a partire dal 1993, passando così da una situazione di sostanziale dipendenza dall’estero ad una di apprezzabile specializzazione produttiva.

Per quanto concerne la distribuzione settoriale delle esportazioni e delle importazioni, dall'analisi del periodo 1980-1997 emerge una struttura sostanzialmente stabile dell'export in relazione al peso delle varie macro-branche sul totale. In termini di volumi, tuttavia, pur non cogliendosi mutamenti di rilievo nel modello di specializzazione dell'industria esportatrice italiana, si manifesta un peggioramento di quasi tutte le branche produttive, che riducono la quota sul totale di circa 1,5 punti, ad eccezione dei prodotti metalmeccanici e di quelli dell’industria del legno, della carta e della gomma che la accrescono, nel periodo, di oltre tre punti.

Decisamente più rilevanti risultano le modificazioni nella distribuzione settoriale dei beni importati, soprattutto in riferimento ai pesi percentuali in valore. Sotto questo profilo deve essere segnalato il fortissimo ridimensionamento della quota di prodotti energetici, passata dal 33,9% del 1981 al 10,5% del 1997. In lieve calo, invece, i prodotti alimentari e della lavorazione dei tabacchi, con una quota attestatasi sul 7%.

Più preoccupante risulta, invece, l'aumento di incidenza nei settori tipici delle nostre esportazioni: la quota delle importazioni è passata per i prodotti metalmeccanici dal 14,9% del 1981 al 23,8% del 1997 e per i mezzi di trasporto dall'8,3% al 12,1%. In forte incremento risultano anche le importazioni di prodotti tessili e dell'abbigliamento, passate dal 4,7% al 7,6% del totale.

Anche il comparto chimico ha accresciuto il suo peso percentuale sull'import, divenendo, con una quota del 14,1%, il secondo per ordine di importanza, dopo i prodotti metalmeccanici e prima dei mezzi di trasporto.

Dai dati in volume emerge una variabilità nel tempo più contenuta delle quantità importate: ciò vale soprattutto per il comparto energetico, che vede ridursi la propria quota di quasi dodici punti percentuali, passando dal 28,7% del 1980 al 16,6% del 1997, a testimonianza di un ruolo ancora considerevole delle centrali ad olio combustibile nella produzione di energia.

Va, comunque, sottolineato che la riduzione relativa delle quantità importate è proseguita anche negli anni successivi al controshock petrolifero, cioè al sostanziale crollo del prezzo del greggio sul mercati internazionali, il che lascia presumere una progressiva riduzione del contenuto energetico per unità di prodotto.

Tab. 12 – Distribuzione settoriale delle importazioni in quantità

peso %

  1991 1993 1995 1997
Prodotti dell'agricoltura, silvicoltura e pesca 7,7 7,0 6,0 6,3
Prodotti energetici 19,6 20,9 17,5 16,6
Minerali ferrosi e non ferrosi 11,0 11,2 12,0 11,7
Minerali e prodotti non metallici 1,6 1,7 1,7 1,7
Prodotti chimici 10,8 11,6 12,7 12,6
Prodotti metalmeccanici 18,1 16,3 18,9 18,6
- Prodotti in metallo 1,4 1,3 1,5 1,6
- Macchine agricole e industriali 5,5 4,5 5,7 5,4
- Macchine per ufficio 4,2 4,2 4,4 4,3
- Materiale e forniture elettriche 6,9 6,3 7,2 7,1
Mezzi di trasporto 9,5 7,8 8,2 9,6
– Autoveicoli e relativi motori 7,4 6,4 7,2 8,5
- Altri mezzi di trasporto 2,1 1,3 1,0 1,1
Prodotti alimentari bevande, tabacco 7,2 7,5 6,7 6,3
Prodotti tessili, cuoio, abbigliamento 6,1 7,3 7,7 8,0
- Prodotti tessili e abbigliamento 4,9 5,7 5,8 5,9
– Cuoio, calzature 1,2 1,7 1,8 2,0
Legno, carta, gomma, altri prodotti industriali 8,2 8,7 8,7 8,7
TOTALE 100,0 100,0 100,0 100,0
Fonte: Elaborazioni Centro Studi CONFCOMMERCIO su dati ISTAT.

Per i mezzi di trasporto, invece, il deterioramento del saldo corrente, che si era tradotto nel 1992, anno di picco delle immatricolazioni di nuove vetture, in una crescita del deficit pari a venti volte il livello del 1986 (si era infatti passati da – 544 a -10.678 miliardi), pur trovando ovvia conferma nell'aumento della quota in valore delle importazioni del comparto, non corrisponde ad un accrescimento altrettanto sostenuto della quota in volume.

A partire dal 1987, l'anno successivo al controshock petrolifero, il peso sul totale delle quantità importate di mezzi di trasporto è cresciuto in venti anni di circa un punto e mezzo percentuale, attestandosi sul 9,6%: è probabile, dunque, che il peggioramento del disavanzo sia imputabile non tanto a politiche di mercato più aggressive adottate dal nostri principali concorrenti in tale settore, quanto ad una dinamica decisamente sostenuta dei valori medi unitari all'importazione, cresciuti nel decennio del 34,8% in termini cumulati.

Questa considerazione, peraltro, contrasta solo in apparenza con l'incremento ininterrotto della penetrazione delle importazioni di autoveicoli, passata dal 36,5% del 1988 a oltre il 59% del 1997. Infatti, il rapporto statistico che misura tale indicatore deve essere sempre interpretato anche in relazione all'andamento della domanda interna, che figura al denominatore, e che risulta fortemente influenzata dalla spinta sui consumi delle famiglie esercitata dagli incentivi governativi alla rottamazione.

L'evoluzione degli scambi commerciali nelle principali macrobranche NACE

Prodotti dell'agricoltura, silvicoltura e pesca

È uno dei sei comparti, sui dieci considerati, che presentano ininterrottamente dal 1980 un elevato saldo corrente negativo. Tra il 1980 ed il 1997, le esportazioni nette del settore hanno evidenziato un deficit elevato sia in termini di valori che di volumi: nel 1997 si è avuto un ulteriore peggioramento, con un ampliamento del disavanzo di circa 900 miliardi in valore e di 700 miliardi in quantità.

Il saldo normalizzato calcolato sui valori correnti, evidenze un profilo decrescente dalla fine degli anni ottanta, attestandosi nel 1997 su quota –32%, che, nonostante un miglioramento di circa 20 punti, denota ancora una considerevole dipendenza dall'estero del nostro Paese in questo settore.

I responsabili di questo forte vincolo estero della bilancia agroalimentare italiana si possono individuare nei disavanzi strutturali di sub-settori come quello dei prodotti cerealicoli, degli allevamenti zootecnici, dei prodotti ittici e della silvicoltura, unicamente ad un graduale ridimensionamento del surplus dei prodotti ortofrutticoli.

Questa debolezza di fondo del nostro settore primario risulta essenzialmente connessa alla polverizzazione del sistema delle imprese agricole, tutte di dimensioni molto ridotte e caratterizzate da fattori della produzione labour intensive, che ritardano il diffondersi di condizioni favorevoli allo sviluppo degli investimenti, della ricerca e della formazione professionale diretta all'adozione di tecnologie avanzate.

Non va infine trascurato il ruolo tutt'altro che positivo svolto dalla PAC (Politica Agricola Comune) che, privilegiando le grandi aziende agricole concentrate nelle regioni ricche della UE, finisce col penalizzare proprio le colture di tipo mediterraneo (in prevalenza prodotti ortofrutticoli e vitivinicoli), maggiormente esposte alla concorrenza dei Paesi emergenti.

Prodotti energetici

Il comparto rappresenta storicamente la principale voce deficitaria dei nostri scambi con l'estero. I saldi a prezzi correnti e costanti hanno evidenziato un passivo crescente tra il 1980 ed il 1985: il 1986 segna un punto di svolta, con una drastica riduzione del deficit in valore (molto meno accentuata nelle quantità), a seguito del controshock nei valori medi unitari sui mercati internazionali.

Il minimo storico del periodo è stato toccato nel 1988, con un disavanzo di 15.800 miliardi. Nei dieci anni successivi, invece, si è manifestato un forte incremento del passivo energetico, a causa della dinamica dei prezzi all'import più sostenuta di quella dei prezzi all'esportazione. Il 1997 si è concluso con un disavanzo record di oltre 30.500 miliardi, esclusivamente imputabile all’andamento dei prezzi all’import.

L’andamento del saldo normalizzato riflette in misura ancor più netta la pesantezza del vincolo energetico per la nostra economia: in media, sia in valore che in quantità, risulta ancorato intorno al -70%, facendo registrare il minimo storico solo nel 1993, con un livello pari a –66,3%, ma ovviamente imputabile alla contrazione dell’attività produttiva connessa alla recessione.

Prodotti chimici

Altra tradizionale voce del passivo della nostra bilancia commerciale, tra il 1980 ed il 1997 sia il saldo a prezzi correnti che quello a prezzi costanti denotano un peggioramento crescente, contribuendo per quasi il 20% alla parte deficitaria della nostra bilancia commerciale.

Tuttavia, l'andamento del saldo normalizzato tra il 1980 ed il 1997 evidenzia una dipendenza dall'estero strutturale, ma non allarmante: il livello si è molto ridotto rispetto alla media della fine degli anni ottanta e primi anni novanta, passando dal –25% circa al –17,6%, rivelando comunque l'esistenza di un ampio commercio intra-industriale.

Peraltro, il peggioramento del deficit corrente, soprattutto nel triennio 1995-97 (-14.000 miliardi circa, in media), appare preoccupante per il notevole condizionamento che questo comparto esercita su svariati processi produttivi a causa della sua natura tipicamente «orizzontale», cioè del suo ruolo di fornitore di beni intermedi ad un'estesa gamma di comparti manifatturieri.

Prodotti metalmeccanici

È il comparto, assieme a quello dei prodotti tessili e dell'abbigliamento, tradizionalmente in attivo della nostra bilancia commerciale. L'andamento del saldo corrente presenta, nel periodo analizzato, un profilo crescente del surplus tra il 1980 ed il 1985, cui segue un triennio di ridimensionamento delle esportazioni nette. Dal 1989 riprende l'evoluzione positiva del saldo attivo che raggiunge il miglior risultato a partire dal 1993, con un raddoppio del surplus rispetto al 1992 (+41.500 miliardi), per superare i 60.000 miliardi nel biennio 1996-97. Analogo trend manifesta il saldo in volume.

Nell’andamento del saldo normalizzato, calcolato sugli scambi in valore, si possono distinguere due periodi: tra il 1980 ed il 1992 si assiste ad un progressivo e considerevole ridimensionamento del livello che passa dal +30% circa al +17,6%. Dal 1993, invece, il notevole miglioramento della competitività all’export, ha innalzato in un solo anno il livello del saldo normalizzato di oltre 10 punti, riportandolo mediamente su valori poco inferiori a quelli dei primi anni ottanta (27%).

Mezzi di trasporto

Eccettuata la parentesi positiva nel biennio 1983-84, il saldo corrente è stato sempre deficitario e si è progressivamente dilatato a partire dal 1985. Anche in termini di quantità, il deficit risulta crescente, con un sensibile peggioramento nel '91 e nel '92.

Negli anni successivi al 1992, i saldi sia in valore che in volume, sono sensibilmente migliorati, ma unicamente per un notevole incremento del tasso di copertura, cioè per effetto di una dinamica delle importazioni molto più contenuta della dinamica delle esportazioni, ad eccezione del 1997 che ha visto un peggioramento del saldo corrente rispetto all’anno precedente di oltre 6.000 miliardi.

Un dato positivo è rappresentato dal miglioramento del saldo normalizzato, che dal livello di circa –20% del 1992, in crescita ininterrotta dalla metà degli anni ottanta, si è portato su valori prossimi a 0, in più o in meno, denotando un sensibile ridimensionamento della situazione di dipendenza dall’estero.

Prodotti tessili, del cuoio e dell'abbigliamento

Con un saldo corrente positivo di oltre 40.000 miliardi nel 1997 (2.000 in meno rispetto al 1996), il settore si conferma il secondo punto di forza della bilancia commerciale italiana dopo il comparto metalmeccanico. Tuttavia, dall'andamento del saldo in volume emerge chiaramente che ad un trend crescente del surplus si è sostituito a partire dal 1987 un graduale ridimensionamento dell'attivo, fino a toccare nel 1992 il peggior risultato assoluto, dopo quello del 1980, per poi tornare a crescere negli anni successivi, attestandosi nel 1997sugli stessi livelli degli ultimi anni ottanta.

Questa oscillante performance del comparto riflette un divario decisamente sfavorevole nella dinamica dei flussi delle quantità scambiate: un'elevata crescita dei volumi importati – iniziata nel 1984 – si accompagna ad un'evoluzione assolutamente insufficiente dei volumi esportati. In termini cumulati, tra il 1984 ed il 1997, i prodotti importati sono cresciuti del 148,5%, a fronte di un ben più modesto 50,2% circa dei beni esportati.

L’andamento altalenante del tradizionale surplus in questo settore, trova conferma anche nell'evoluzione del saldo normalizzato, che evidenzia un graduale peggioramento passando dal 56,2% del 1983 al 42,7% del 1997. Ciò significa che è ormai in atto una tendenza al ridimensionamento del peso delle esportazioni sull'interscambio globale del comparto non solo in termini di valori, ma soprattutto di volumi, a testimonianza delle crescenti difficoltà incontrate dalle nostre imprese tessili nel mantenimento delle proprie quote di mercato.

Prodotti in legno, carta, gomma e di altre industrie manifatturiere

Settore tradizionalmente in attivo della nostra bilancia commerciale, presenta un andamento del saldo che, pur con alcune discontinuità, evidenzia, dal 1987, un continuo accrescimento del surplus, che raggiunge nel 1992 il miglior risultato, con quasi 23.000 miliardi.

Anche il saldo in volume presenta un trend crescente nel periodo, con un surplus di livello sempre più elevato a partire dal 1993, grazie anche a dinamiche molto sostenute delle quantità esportate.

Il saldo normalizzato presenta, infine, un andamento piuttosto disomogeneo ed oscillante nel tempo, che rende difficile l'interpretazione delle tendenze dei fenomeni sottostanti, anche in considerazione dell'eccessiva eterogeneità di un comparto che aggrega imprese manifatturiere estremamente diverse per tipologia produttiva, dimensione degli impianti ed orientamento al mercato estero, che non consente l'individuazione di chiare forme di specializzazione internazionale.

A partire dal 1993, il saldo normalizzato del comparto cresce di ben 10 punti, rispetto all’anno precedente, raggiungendo un livello pari a 26,8%, per crescere ulteriormente fino al 1997 al 28,1%. Ciò, probabilmente, come conseguenza del peso rilevante che nel settore esercitano i prodotti in legno (arredamento, prodotti per la casa), nei quali le imprese italiane vantano sicuramente una leadership consolidata.

Considerazioni conclusive

Non è agevole individuare una chiave di lettura univoca della posizione italiana nell'evoluzione degli scambi con l'estero e nel processo di integrazione, internazionale che ha coinvolto in questo ultimo ventennio circa i sistemi economici dei più importanti Paesi, soprattutto per la consistenza di aspetti di forza e di debolezza non riscontrabili con analoga intensità ed evidenza nelle altre economie industrializzate.

Alcuni punti emergono comunque con sufficiente chiarezza.

In primo luogo, la quota italiana sulle esportazioni mondiali in quantità è rimasta assolutamente stabile nel periodo considerato, e cioè intorno al 5%, denotando tuttavia nel biennio 1997-98 una riduzione di oltre mezzo punto rispetto al 5,1% del 1995. È allora evidente che il miglioramento della posizione competitiva italiana realizzato proprio tra il 1993 ed il 1995, come risulta dai tassi di crescita a due cifre dei volumi esportati, è stato determinato esclusivamente da fenomeni di export substitution, indotti dall’eccezionale deprezzamento della lira di quegli anni.

Un secondo aspetto, è la sostanziale immobilità del sistema produttivo-esportativo italiano, come testimonia lo stabilizzarsi, a partire dal 1992, dell’indice di intensità degli squilibri settoriali[6] su livelli ancora troppo elevati, oscillanti intorno al 32%, dopo il periodo di rapida e ininterrotta discesa che era iniziato nei primi anni ottanta. Tale indicatore evidenzia come la struttura della nostra bilancia commerciale sia essenzialmente polarizzata tra le tradizionali branche in attivo che accrescono il proprio surplus (prodotti metalmeccanici, abbigliamento e calzature, legno, carta, gomma e altri prodotti industriali) ed i soliti settori in passivo che dilatano il proprio deficit (agro-alimentare, prodotti energetici, prodotti chimici, macchine per ufficio).

Da ciò discendono talune preoccupanti tendenze di fondo del modello di specializzazione internazionale del nostro Paese, ravvisabili in:

- una specializzazione delle esportazioni italiane nei settori «maturi», particolarmente sensibili alle fluttuazioni cicliche e caratterizzati da una crescita molto lenta della domanda mondiale, da una notevole elasticità di prezzo e da una maggior esposizione alla concorrenza dei Paesi di recente industrializzazione (NIEs);

- un eccesso di specializzazione produttiva in branche «debitrici» di tecnologie esterne ed una carenza di specializzazione in produzioni «creditrici» di tecnologie.

Sotto questo profilo, i risultati a cui sono pervenuti gli autori di un recente studio[7] sulla specializzazione produttiva dei principali Paesi europei appaiono decisamente preoccupanti.

In un arco di tempo di circa 25 anni, dal 1970 al 1994, l’analisi mostra come in Italia i settori caratterizzati, all’inizio degli anni settanta, da più elevati livelli di vantaggio comparato – cioè prodotti in cuoio e calzature, tessile-abbigliamento, mobili e ceramica – sono ancora gli stessi che hanno fatto registrare la maggior crescita alla fine del periodo considerato. In tali comparti, gli indici utilizzati per misurare il vantaggio comparato hanno raggiunto livelli (in molti casi superiori a 4, considerando che il valore unitario corrisponde ad una specializzazione pari alla media degli altri Paesi), che non trovano riscontro in nessuna delle altre economie avanzate: su 30 branche produttive esaminate, ben 19 hanno confermato le posizioni di partenza.

Per Germania, Francia e Regno Unito, invece, i guadagni di competitività sono stati realizzati in settori che partivano da situazioni di svantaggio: altri mezzi di trasporto per Francia e Regno Unito, autoveicoli, prodotti in metallo e prodotti energetici per la Germania, tutti con un livello massimo di vantaggio comparato intorno a 2, la metà dei livelli italiani. Rispetto alle posizioni di partenza, peraltro, la specializzazione risulta confermata in Germania per 15 settori, 13 per la Francia e 12 per il Regno Unito.

Il dato rilevante, dunque, è la conferma o il rafforzamento della specializzazione italiana proprio in quei settori tradizionali che, secondo la moderna teoria del commercio internazionale, avrebbero dovuto ridimensionarsi anziché ampliarsi all’aumentare dell’apertura commerciale del Paese e della pressione concorrenziale delle economie di recente industrializzazione. Questi meccanismi di rafforzamento della specializzazione nei settori maturi appaiono connessi al ruolo primario delle PMI inserite nei distretti industriali, in grado di realizzare economie di scala esterne attraverso la creazione di un sistema a rete sul territorio. Da questo connubio tra efficienza produttiva dei settori maturi e apertura internazionale discende la tipica cristallizzazione del modello di specializzazione produttiva dell’industria manifatturiera italiana.

Purtroppo, tali fenomeni di rafforzamento della specializzazione nei settori tradizionali, si sono accompagnati a fenomeni di despecializzazione nei comparti ad alta intensità tecnologica, come l’industria aeronautica, le macchine per ufficio, la chimica farmaceutica, l’informatica. In tali settori, invece, negli stessi anni, le altre economie europee hanno confermato o, in molti casi, sono state capaci di modificare il proprio modello produttivo, acquisendo posizioni di vantaggio competitivo.

Il prezzo della conferma/rafforzamento del pattern italiano di specializzazione produttiva nei comparti maturi è stato tuttavia pagato pesantemente in termini occupazionali.

Sebbene l’evidenza empirica delle NIEs asiatiche dimostri che le economie emergenti tendano ad abbandonare abbastanza velocemente le produzioni tradizionali per spostarsi su quelle a più alta intensità di capitale e a più alto contenuto di innovazione, man mano che aumenta il reddito pro-capite e cambia il mix dell’offerta dei fattori produttivi (maggior accumulazione di capitale e maggior qualificazione della forza-lavoro), è altrettanto innegabile che esse esercitino una pressione competitiva nei settori di specializzazione italiana ad ondate successive.

Considerando che il 1980 è stato l’anno di picco per l’occupazione nella trasformazione industriale, si vede chiaramente come nell’arco di circa venti anni il settore abbia ridotto costantemente e pesantemente la propria base occupazionale, passando da circa 6 milioni di occupati a 4 milioni e 500 mila del 1997, con una perdita di 1 milione e mezzo di posti di lavoro.

Tab. 13 – Unità di lavoro totali nell’industria manifatturiera dati in migliaia

variazioni assolute

  1980 1985 1990 1995 1996 1997 1980-1997
– TRASFORMAZIONE INDUSTRIALE 314,1 -896,6 70,6 -571,7 -36,8 -22,5 -1457,0
-Min. e meta. ferrosi e non -2,7 -44,4 -23,7 -33,9 -4,1 0,2 -105,9
-Min. e prod. non metallif. -7,6 -60,5 49,5 -54,9 -5,3 -5,9 -77,1
-Prodotti chimici e farmac. -2,5 -41,3 35,7 -54,7 -3,5 -4,2 -68,0
-Prod.in metallo esclusi... 74,6 -84,9 -17,4 -78,5 1,5 2,4 -176,9
-Macchine agric. ed indust. 84,6 -63,8 16,2 -53,0 7,1 -1,9 -95,4
-Macc.uff.,str.prec.,ottica 8,3 -7,9 1,8 -17,3 -1,0 -1,1 -25,5
-Materiale e fornit.elett. 39,2 -92,1 -4,3 -17,4 0,8 -2,2 -115,2
-Mezzi di trasporto 27,9 -100,7 12,4 -75,5 -3,3 -4,5 -171,6
-Prod. Alim.,bev.,tabacco 9,8 -54,2 -3,8 -27,4 -4,6 -3,4 -93,4
-Tessili,cuoio,pelli,calz. 36,6 -187,6 3,7 -88,5 -11,3 -1,4 -285,1
-Legno e mobili in legno 10,9 -75,3 -22,2 -36,1 -7,1 -1,0 -141,7
-Carta,cartotec.,editoria 18,3 -38,9 8,4 -21,5 -4,4 -0,3 -56,7
-Gomma e materie plastiche 7,6 -31,8 15,1 -8,2 -1,0 0,8 -25,1
-Prod. Altre ind. manif. 9,1 -13,2 -0,8 -4,8 -0,6 0,0 -19,4
Fonte: ISTAT

Questa tendenza risulta generalizzata in tutte le branche e soprattutto in quei comparti tradizionali che rappresentano i punti di forza della specializzazione produttiva nazionale, nei quali l’elevata profittabilità delle esportazioni è stata realizzata attraverso consistenti innovazioni di processo di tipo labour-saving e forme spinte di delocalizzazione degli impianti produttivi.

Esiste, peraltro, il rischio che la piena realizzazione dell’UEM, con l’euro e la caduta delle residue barriere al commercio intraeuropeo, portino ad una specializzazione per aree, confinando l’Italia sulle produzioni a minor valore aggiunto, più esposte ai rischi della competizione dei Paesi emergenti, ed escludendola di fatto dal nucleo forte delle economie ad alta intensità tecnologica ed elevato reddito pro-capite.

3. POLITICHE OCCUPAZIONALI E CRESCITA ECONOMICA

Il quadro di riferimento

La pressoché stagnante attività economica tra gli anni 1992-1995 ha avuto come ripercussione in Italia la perdita di circa un milione di posti di lavoro. Nel corso del biennio 1996-97 i livelli occupazionali sono rimasti sostanzialmente invariati; una leggera ripresa si è rilevata solo nel 1998.

Tab. 14 – TASSI DI DISOCCUPAZIONE IN ALCUNI PAESI

Paesi 1997 1998 1999
Paesi extra UE
Stati Uniti (G7) 4,9 4,5 4,8
Giappone (G7) 3,4 4,2 4,9
Canada (G7) 9,2 8,4 8,4
Paesi UE
Belgio 9,3 8,8 8,4
Danimarca 7,6 6,4 6,2
Germania (G7) 11,5 10,9 0,5
Irlanda 10,2 8,9 8,2
Grecia 10,3 10,2 10
Spagna 20,8 18,9 17,7
Francia (G7) 12,7 11,7 11,3
Italia (G7) 12,3 12,2 12
Lussemburgo 3,7 4,1 4,5
Olanda 6,6 5,3 5,3
Austria 6,4 6,4 6,3
Portogallo 6,7 5,1 5
Finlandia 12,6 11,3 10,2
Svezia 8 6,6 5,7
Regno Unito (G7) 5,5 4,7 5,1
Tutti i dati sopra riportati sono espressi in percentuali
*Dati previsionali
Fonte: FMI – dicembre 1998

Stando alle prime indicazioni relative all’anno in corso la tendenza al recupero dei livelli occupazionali sembrerebbe essere proseguita, con un incremento nella rilevazione compiuta a gennaio sulle forze di lavoro di oltre 200 mila unità rispetto all’analogo periodo dello scorso anno.

Il dato oltre a risentire di fattori stagionali incorpora una serie di elementi quali un certo ritardo tra le dinamiche produttive ed occupazionali, il maggior ricorso a forme di lavoro atipiche e l’emersione di porzioni di lavoro irregolare (contratti di riallineamento), che non permettono di affermare con certezza che si sia definitivamente usciti dalla fase di stagnazione del mercato del lavoro.

Il dato sulla disoccupazione conferma le preoccupazioni sulla possibilità di un significativo miglioramento del contesto occupazionale, in quanto già da alcuni mesi si nota un consistente incremento del numero di persone in cerca di occupazione, situazione che ha portato a gennaio del ’99 ad un tasso del 12,4 (12,2% nello stesso mese del ’98).

Come rilevato da più parti, ed ormai noto, il problema del lavoro in Italia non ha caratteristiche congiunturali, ma ha assunto da molti anni una dimensione strutturale. Al di là delle fluttuazioni cicliche, che in alcuni casi hanno raggiunto dimensioni consistenti, il nostro sistema non riesce a creare una quota rilevante di nuova occupazione in grado di assorbire la forza lavoro che si pone sul mercato.

Il Patto sociale

In considerazione di questi aspetti e della inefficacia delle sole politiche congiunturali per fronteggiare i problemi del mercato del lavoro, il Governo e le Parti sociali hanno recentemente siglato «Il Patto sociale» nel quale sono individuate le linee base per attivare gli strumenti atti a rimuovere alcuni degli ostacoli strutturali che frenano la dinamicità del mercato.

Dall'analisi del "Patto sociale per lo sviluppo e l'occupazione" emergono alcuni spunti di riflessione sulle dinamiche di intervento per accrescere il livello degli occupati in Italia.

Nel "Patto" si fa riferimento al "Protocollo del 1993" e si evidenzia la necessità di definire una fase di concertazione per l'ottenimento degli obiettivi di sviluppo economico e di crescita occupazionale.

Stando a quanto espresso dal "Patto" bisogna attivare:

  1. una politica dei redditi volta a favorire l'occupazione e l'allargamento della base produttiva;
  2. una maggiore concertazione ed un assetto delle regole che garantiscano l'autonomia e la responsabilità delle parti sociali;
  3. una più alta coesione tra le variabili micro-macro economiche e il mercato del lavoro, per garantire processi di sviluppo ed occupazione anche al livello locale.

Il Governo e le parti sociali, inoltre, pongono in rilievo nel Patto la convinzione di contenimento dell'inflazione e di controllo del deficit pubblico nel rispetto dei criteri di convergenza determinati dalla partecipazione dell'Italia all'Unione Economica e Monetaria (da ora UEM).

Benché gli obiettivi dello sviluppo e dell'occupazione fossero stati indicati come prioritari sia nel Protocollo del luglio '93 ,che nel Patto per il lavoro del 1996, va evidenziato il mancato raggiungimento dei propositi inclusi nei documenti citati.

L'accumulazione di capitale fisso è stata volta ad incorporare nuova tecnologia piuttosto che all'ampliamento della capacità produttiva; inoltre, la ridotta attività di coordinamento tra i diversi dicasteri, le lungaggini amministrativo-burocratiche, hanno posto un freno all'attuazione di interventi programmati penalizzando soprattutto il Mezzogiorno d'Italia.

Le dimensioni del problema Mezzogiorno, dove si concentra circa il 60% della disoccupazione italiana, avevano portato a prevedere nella legge finanziaria del 1999, sotto forma di incentivi, forme di compensazione degli svantaggi di minore produttività e di maggiore costo del capitale; il tutto mediante la proroga della fiscalizzazione degli oneri sociali per il Mezzogiorno per gli anni 2000 e 2001.

La Legge ha previsto, inoltre, sgravi contributivi triennali per i nuovi assunti nel Sud e per i giovani che intraprendono un'attività di lavoro autonomo.

Anche nei disegni di legge collegati alla finanziaria sono presenti alcuni interventi in materia di politiche del lavoro, tra cui:

  1. i provvedimenti in tema di emersione;
  2. la delega del Governo per il riordino degli incentivi all'occupazione;
  3. la delega al Governo per la riforma degli ammortizzatori sociali e quella per il riordino del tema dei lavori socialmente utili.

Il Governo Italiano traccia le linee principali di intervento, secondo le indicazioni provenienti dall'Unione Europea per la definizione del cosiddetto "primo pilastro" del piano nazionale per l'occupazione. Tali linee si identificano nel:

  1. semplificare ed adeguare alle esigenze del momento gli strumenti formativi e di inserimento al lavoro;
  2. migliorare la funzionalità delle strutture impegnate nella realizzazione dei servizi per l'impiego. Il Ministero del Lavoro, si legge nel patto sociale, contestualmente al decentramento proseguirà nell'attuazione del programma di aggiornamento e riqualificazione degli operatori interessati, in collaborazione con Regioni ed Enti locali;
  3. attuare nel corso del 1999 un sistema informativo distribuito su tutto il territorio nazionale al fine di garantire l'incontro tra domanda e offerta di lavoro.

In ogni caso, il parere comune è quello secondo cui per rimettere in moto la crescita economica e ridurre la disoccupazione è necessaria una decisa ripresa degli investimenti favorita da una minore imposizione fiscale. Tale crescita dipende, tra l'altro, dalla crescita delle esportazioni, dalla spesa pubblica e dai consumi privati interni.

In Europa, al momento, queste componenti della domanda non sembrano crescere sufficientemente, per una serie di motivi:

  1. le esportazioni non crescono a causa del rallentamento ciclico mondiale;
  2. i consumi privati per le politiche dei redditi e la spesa pubblica, a causa dei vincoli del Patto di Stabilità di Maastricht.

Con questo scenario, il modo principale per sostenere la crescita della domanda in tempi ragionevolmente brevi, consiste nell'incentivare il rilancio degli investimenti pubblici (soprattutto in infrastrutture) attraverso la ricomposizione delle varie voci di spesa.

In Italia questa strada è più percorribile di qualche anno fa per la forte riduzione della spesa per interessi.

Per ciò che concerne un'analisi di lungo periodo, la riduzione della pressione fiscale sulle imprese e sui consumatori, il basso costo del denaro ed una politica monetaria orientata al sostegno della crescita potranno fornire un contributo decisivo al sostegno della domanda per investimenti e consumi nell'unione Europea.

Il contesto europeo

Volendo estendere l'analisi compiuta per l'Italia alla globalità del sistema dell'Unione Europea (da ora UE), dobbiamo evidenziare il fatto che l'elevata disoccupazione, soprattutto giovanile, è oggi il problema più importante che l'UE si trova a dover affrontare.

Il tasso medio dei disoccupati nei paesi UE è stimato in un valore intorno all'11%, con punte che raggiungono quasi il 20% in Spagna.

Secondo le ultime indicazioni il totale dei senza lavoro nell’area della UE è ancora superiore ai 16milioni, di cui circa 14 nell’area della UEM (l’84% di questi ultimi è concentrato in soli quattro paesi Francia, Germania, Italia e Spagna).

Per aver un'idea precisa della gravità del fenomeno possiamo confrontare tali valori con quelli degli anni '60 e dei primi anni '70, quando il tasso di disoccupazione si attestava intorno al 3%.

Le cause di disoccupazione individuate da economisti e politici riguardano:

  1. la mancanza delle qualifiche che sarebbero necessarie a ricoprire i posti vacanti;
  2. una elevata porzione di disoccupati di lungo periodo che non hanno incentivo a cercare un lavoro;
  3. una pressione fiscale troppo pesante;
  4. un tasso di progresso tecnico troppo rapido e, infine,
  5. la concorrenza dei paesi a basso salario come ad esempio la Cina.

Per fare luce sulla moltitudine delle cause della disoccupazione nell'UE ci sembra utile individuare i fattori che sono comuni alla maggior parte degli stati membri, ma che nel contempo non si riscontrano nei paesi non appartenenti all'Euro.

Dal lato della domanda, un'esperienza condivisa in questi ultimi anni solo dai paesi dell'Euro è rappresentata da politiche della domanda aggregata piuttosto restrittive, sia fiscali che monetarie. I paesi aderenti all'UE hanno dovuto perseguire questo tipo di politiche per motivi di convergenza, a seguito dell'intento comune di entrare a far parte dell'Euro.

Per quanto riguarda la politica fiscale essa è dovuta ai vincoli definiti dagli accordi di Maastricht e si è rivelata piuttosto restrittiva tenuto conto della contemporanea politica monetaria, altrettanto restrittiva, e dell'esistenza di una condizione di forte disoccupazione, che a sua volta ha provocato un'ulteriore contrazione delle entrate fiscali.

Da questo complesso di eventi ne è scaturita una diminuzione degli investimenti pubblici in infrastrutture, che sono complementari agli investimenti privati.

Di seguito, mentre era stato rimosso ogni vincolo al libero movimento dei capitali, la politica monetaria è stata uniformata affinché i tassi di cambio fossero mantenuti rigorosamente fissi.

In questo modo, era obbligo che i tassi di interesse convergessero in tutti i paesi candidati all'Euro senza che le banche centrali nazionali avessero spazi di manovra per perseguire politiche monetarie autonome.

A distanza di tempo si può affermare che la politica monetaria comune si è rivelata troppo restrittiva soprattutto considerando l'irrigidimento della politica fiscale; i tassi di interesse reali si sono così attestati su livelli talmente elevati da scoraggiare gli investimenti ed incrementare i livelli di disoccupazione.

Un tema, riguardante l'occupazione, molto discusso in questo periodo concerne la riduzione dell'orario di lavoro da 40 a 35 ore lavorative settimanali ad una paga invariata. Su questo argomento numerosi economisti ritengono che, con l'adozione di tale proposta, alle difficoltà già incontrate nel ridurre l'orario di lavoro individuale, mantenendo allo stesso tempo inalterate le ore lavorate dell'impresa, si sommerebbe un incremento del salario orario pari a 5/35, ovvero a quasi il 15%. L'effetto di ciò non potrebbe che rivelarsi dirompente.

È improbabile aspettarsi che l'incremento del costo del lavoro sia sopportato dai profitti, mentre sembra ragionevole attendersi che esso si risolva in prezzi alla produzione più elevati.

Ciò darebbe luogo a un salario reale settimanale equivalente a 35 ore e/o a richieste di salari nominali più elevati che genererebbero così una spirale salari-prezzi. Va, inoltre, considerato che in presenza di tassi di cambio fissi e di una moneta unica, l'incremento dell'indice dei prezzi ridurrebbe la quota di mercato interno ed internazionale del paese rivelandosi una ulteriore causa di disoccupazione.

Tale effetto potrebbe essere contrastato se ogni paese intraprendesse simultaneamente la stessa iniziativa, facendo attenzione a non far attivare una possibile spirale inflazionistica.

Dall'analisi economica svoltasi può, affermare che i paesi dell'UE non sono stati uniti, finora, nella realizzazione di una strategia "anti-disoccupazione", per lo più, hanno adottato misure dirette ad apportare correttivi marginali alle distorsioni più evidenti provocate dalle politiche o dalle normative del lavoro esistenti.

Le proposte

Per quanto riguarda le proposte per una riduzione del numero dei disoccupati nell'UE, alcune indicazioni preziose sono emerse dal dibattito degli ultimi anni tra le diverse scuole di pensiero economico.

Per ridurre la disoccupazione, occorre anzitutto agire dal lato della domanda, attivando politiche di espansione basate su una ripresa degli investimenti, senza pagare lo scotto di una crescita inflazionistica, in modo da permettere ai sistemi economici europei di aumentare la crescita della produttività e della produzione (seguendo in parte il modello di crescita statunitense).

Dal lato dell'offerta, invece, occorre attivare:
  1. politiche di "job creation", come la riforma del sistema fiscale e un allentamento delle normative che frappongono barriere all'entrata delle imprese;
  2. una riforma dell'istituto del salario minimo, senza abolirlo, ma garantendo un standard di vita minimo ad ogni lavoratore impiegato a tempo pieno;
  3. una riforma delle politiche di regolamentazione della difesa del posto di lavoro, che riduca il rapporto tra i costi di licenziamento e i salari medi;
  4. un moderato ampliamento dei lavori a tempo definito e a tempo parziale favorirebbe i giovani e le donne, la cui possibilità di lavoro è spesso legata a queste forme di contratto più flessibili;
  5. politiche di promozione della ricerca del lavoro, che diminuiscano i costi di ricerca nel mercato del lavoro;
  6. politiche di stimolo alla mobilità dei lavoratori, volte a facilitare la trasferibilità dei sussidi sulla casa, o politiche di incentivo della trasferibilità da un'impresa all'altra dei diritti pensionistici;
  7. riforme dei sussidi di disoccupazione, in modo da fornire ai disoccupati incentivi appropriati alla ricerca di lavoro quando esistono posti disponibili e in modo da sostenere il reddito quando tali posti mancano. Per questo motivo i sussidi di disoccupazione si potrebbero far dipendere dal rapporto tra i posti di lavoro vacanti e i disoccupati: più elevato è tale rapporto più bassi devono essere i sussidi di disoccupazione.

Naturalmente, le politiche della domanda e dell'offerta sono complementari tra loro e, quindi, vanno adottate simultaneamente da tutti i paesi europei, sia per evitare fenomeni di spiazzamento competitivo, sia per utilizzare tutti gli effetti moltiplicativi che tale complementarietà comporta.


[1] Rapporto percentuale tra esportazioni di beni e servizi e PIL a prezzi costanti.

[2] Nell’ambito delle statistiche del commercio estero sono così definiti i Paesi ex-comunisti dell’Europa orientale.

[3] Le NIEs (Newly Industrialized Economies) sono Hong Kong, Corea del Sud, Singapore e Taiwan.

[4] Secondo il sistema di classificazione adottato dalla BERD (Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo) articolato su cinque livelli, al livello 1 si collocano quei Paesi che non adottano vincoli di bilancio, con politiche inefficienti dal lato del credito e dei sussidi tali da indebolire la disciplina finanziaria delle imprese; al livello 4+ si collocano invece gli standard ed i comportamenti tipici delle economie industriali avanzate, con un controllo effettivo delle società esercitato attraverso i mercati e le istituzioni finanziarie interne, favorendo le ristrutturazioni guidate dal mercato. Attualmente i Paesi asiatici si collocano ad un livello intermedio poco superiore a 2.

[5] Il saldo normalizzato è definito come rapporto percentuale tra il saldo e l’interscambio totale, pari alla somma delle esportazioni (Xi) e delle importazioni (Mi) del settore i-esimo:

SNi = (Xi – Mi)/(Xi+Mi)*100

Questo indicatore varia nell’intervallo [-100, 100] e misura il grado di specializzazione settoriale evidenziando o una specializzazione internazionale del Paese (crescente al tendere dell’indice verso +100), o una dipendenza dall’estero (crescente al tendere dell’indice verso –100).

[6] L’indice di intensità degli squilibri settoriali misura il rapporto percentuale tra la somma dei valori assoluti dei saldi settoriali e l’interscambio globale, cioè:

IISS = [∑i(Xi – Mi)/(∑iXi + ∑iMi)]*100,

dove Xi rappresentano le esportazioni del settore i-esimo e Mi le importazioni del settore i-esimo. L’indice varia tra 0 e 100 ed è pari alla media ponderata dei valori assoluti dei saldi normalizzati (cfr. Nota 5). Tanto più il valore si allontana da 0, tanto più, a parità di flussi di interscambio, la struttura della bilancia commerciale risulta polarizzata tra settori in attivo che accrescono il proprio avanzo e settori in passivo che accrescono il proprio deficit.

[7] S. de Nardis e M. Malgarini, «Le specializzazioni dei Paesi europei nel periodo 1970-94», in ICE, Rapporto sul Commercio Estero, 1997, pp. 208-18.

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