Effetti diretti e indiretti dell'aumento dell'Iva

Effetti diretti e indiretti dell'aumento dell'Iva

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12 ottobre 2011

 

 

Confcommercio-Imprese per l’Italia

 

Ministero dello Sviluppo Economico

 

TAVOLO DI CONFRONTO COORDINATO DAL GARANTE PER LA SORVEGLIANZA DEI PREZZI E DAL CAPO DIPARTIMENTO PER L’IMPRESA E L’INTERNAZIONALIZZAZIONE

 

EFFETTI DIRETTI E INDIRETTI DELL’AUMENTO DELL’IMPOSTA SUL VALORE AGGIUNTO

 

Roma, 12 ottobre 2011

 

 

 

 

Mariano Bella

Direttore Ufficio Studi

 

 

 

Consolidamento fiscale e nuovi rischi recessivi: la manovra sull’Iva

 

1. Le risorse disponibili per le famiglie          

Nel 2011 il reddito disponibile reale delle famiglie consumatrici si ridurrà per il quarto anno consecutivo. Rapportato alla popolazione residente, il reddito in termini di potere d’acquisto si è contratto in un quadriennio di circa il 7%. E’ un episodio unico nella storia economica italiana.

Secondo autorevoli istituti di ricerca italiani, nel biennio 2012-2013 il processo di riduzione del reddito reale proseguirà: non è estranea a questa prospettiva l’influenza potenziale dei provvedimenti adottati tra giugno e settembre 2011 finalizzati all’aggiustamento dei conti pubblici. L’ipotesi del verificarsi di cosiddetti “effetti non keynesiani”, relativi all’eventualità di ulteriori incrementi della propensione al consumo causati dalla prospettiva di minori oneri fiscali futuri grazie alla realizzazione dell’aggiustamento fiscale odierno, sembra da escludere, poiché i provvedimenti adottati esplicitamente prevedono nuove e maggiori imposte.

Tra il primo trimestre del 2008 e il primo trimestre del 2011, le rilevazioni della Banca d’Italia sulle consistenze della ricchezza finanziaria netta delle famiglie (incluse le Isp) testimoniano una sostanziale invarianza delle risorse a prezzi correnti, pari a poco più di 2.800 miliardi di euro. Depurando il confronto dall’aumento dei prezzi, pari a circa il 5,2%, e considerando l’incremento della popolazione residente di circa 800.00 unità, si evince che nel triennio ogni italiano mediamente dispone di 3000 euro in meno di disponibilità finanziarie accumulate per qualsiasi scopo.

Questa riduzione sommata alla perdita di reddito disponibile reale implica che ciascuna famiglia abbia nel 2011 quasi 10.000 euro in meno di risorse rispetto alla fine del 2007.

Gli effetti delle manovre di aggiustamento dei conti pubblici, le prospettive dei consumi e quelle della produzione di nuova ricchezza devono essere valutati alla luce di questo quadro economico-finanziario che caratterizza le famiglie consumatrici.

            Sotto il profilo congiunturale conviene ricordare come l’ultima ondata di turbolenze sui mercati finanziari, unitamente alla percezione di una non chiara strategia di difesa da parte del Governo italiano e delle istituzioni nazionali e internazionali, abbiano verosimilmente contribuito ad acuire la debolezza del clima di fiducia di famiglie e di imprese, tanto nel mese di agosto quanto nel mese di settembre.

 

2. L’inflazione e il mercato

La presunta patologia inflazionistica che interesserebbe l’Italia riguarda il passato remoto (fig. 1), soprattutto gli anni ’80. Oggi il differenziale inflazionistico rispetto all’Europa o alla Germania, Paese sovente considerato un benchmark virtuoso, è ridottissimo o nullo.

 

Fig. 1 - Indice dei prezzi al consumo armonizzato

variazioni % tendenziali

Elaborazioni ufficio Studi Confcommercio su dati Eurostat.

 

Fig. 2 - L’Inflazione in Italia

Ufficio Studi Confcommercio, Una nota sulle spese obbligate, settembre 2011.

Per la precisione, utilizzando le risultanze dell’indice armonizzato dei prezzi al consumo, nei primi otto mesi dell’anno 2011 l’inflazione nell’Europa a 27 (EU27) è stata mediamente pari al 3% contro il valore italiano di 2,5%. Nei primi nove mesi del 2011 la variazione dei prezzi è stata mediamente pari al 2,6% nell’eurozona (EA17), esattamente il medesimo valore rilevato per l’Italia.

Appare del tutto scorretta, nel senso di non supportata dalle evidenze statistiche disponibili, la suggestione che vuole la struttura commerciale italiana responsabile di fenomeni inflazionistici. La semplice distinzione tra consumi commercializzabili, che vengono esitati, cioè, attraverso le strutture del commercio al dettaglio, e i cosiddetti consumi obbligati, cioè le spese fisse che sfuggono in larga misura alle possibilità di scelta dei consumatori (affitti, luce, gas, acqua, combustibili, energia elettrica, carburanti, assicurazioni obbligatorie, servizi bancari, spese mediche), indica che i prezzi dei due aggregati hanno avuto dinamiche radicalmente differenti (fig. 2).

Il rapporto tra inflazione sui consumi obbligati e inflazione sui consumi commercializzabili è mediamente 1,6 nell’arco dei quaranta anni che vanno dal 1970 al 2010. Inoltre, fatto 100 l’indice di prezzo dei consumi obbligati legati all’abitazione, nel 2010 questo indice vale 3.246, cioè è cresciuto di circa 32,5 volte. La stessa operazione effettuata per l’indice di prezzo dei consumi alimentari fornisce nel 2010 un valore di 1.451, con una variazione pari a meno della metà di quella osservata sulle spese obbligate. Il che implica due conclusioni: la prima è che vi sono settori che presentano ampi spazi di liberalizzazione, come suggerito costantemente dall’Antitrust, la seconda è che la ricerca dell’inflazione italiana va indirizzata presso mercati poco concorrenziali che hanno davvero poco a che fare con l’industria e la distribuzione dei beni commercializzabili.

 

3. Variazione dell’Iva, dei prezzi ed effetti depressivi sui consumi       

Fermati i punti sulle condizioni economiche medie delle famiglie e sulle macro-dinamiche inflazionistiche, si valuta il potenziale impatto sui prezzi e sui consumi del recente incremento dell’aliquota Iva standard dal 20 al 21%.

            L’impatto inflazionistico teorico dovrebbe risultare pari a circa 4 decimi di punto, dovendosi moltiplicare l’incremento dell’aliquota Iva del 5% (dal 20 al 21% vuole dire un punto in più rispetto alla base di 20) per la frazione di spesa su cui l’incremento insiste, pari a un sesto (un bene che vale 100 viene venduto a 120 e quindi l’incremento insiste su 20/120 pari a uno diviso sei), per la frazione di spesa per consumi interessata dall’aliquota al 20%, pari a circa il 45%.

            Nel caso di traslazione completa in avanti di questo inasprimento di aliquota, i prezzi mostrerebbero un incremento, a parità di altre condizioni e al termine dell’aggiustamento dei prezzi, pari a circa 4 decimi di punto. In questa ipotesi, che riteniamo largamente la più probabile per le ragioni che descriveremo più avanti, l’impatto sui consumi risulterebbe di natura recessiva e pari a 3-4 decimi di punto. La ragione di questa conclusione risiede nel fatto che l’incremento dei prezzi ridurrebbe sia il potere d’acquisto del reddito disponibile, sia il potere d’acquisto della ricchezza, finanziaria e reale, delle famiglie consumatrici. Un terzo grave fattore depressivo deriva dalla relazione negativa tra aspettative d’inflazione e clima di fiducia. Poiché il clima di fiducia tende a peggiorare, soprattutto nel caso italiano, all’aumentare delle preoccupazioni circa le tensioni inflazionistiche, e dal momento che un clima migliore impatta favorevolmente sulla propensione al consumo, l’attuale manovra sull’Iva potrebbe avere significativi effetti di contrazione dei consumi anche attraverso questo canale. Questi effetti sono stati cautelativamente esclusi dalle nostre valutazioni, come sono stati esclusi anche gli effetti depressivi derivanti dalla riduzione del potere d’acquisto del valore della ricchezza immobiliare detenuta dalle famiglie italiane. La fig. 3 chiarisce lo sviluppo del circuito depressivo che dai prezzi finisce ai consumi.

Nel caso di assenza di traslazione, ipotesi che riteniamo poco verosimile, vi sarebbe comunque un effetto depressivo sul reddito disponibile del settore privato pari a circa 4 miliardi (lo 0,4% del reddito disponibile, quasi tutto il maggiore gettito presuntivamente ricavabile dalla manovra).

 

Fig. 3 - Effetti della variazione dell’aliquota Iva

Elaborazioni Ufficio Studi Confcommercio.

 

Si tratterebbe, infatti, comunque, di un trasferimento di risorse dal settore privato al settore pubblico. In questa ipotesi si avrebbe un effetto depressivo sui consumi tra un decimo e due decimi di punto percentuale, poiché non opererebbe, rispetto alla prima ipotesi, l’effetto negativo sistemico derivante dall’incremento generalizzato dei prezzi al consumo e resterebbero neutralizzati sia gli effetti di riduzione del potere d’acquisto delle attività finanziarie e reali sia l’effetto negativo sul clima di fiducia delle famiglie (fig. 3).

 

4. I margini delle imprese

Perché riteniamo improbabile, anzi impossibile, l’ipotesi di assenza di traslazione sui prezzi finali dell’inasprimento dell’aliquota Iva?

Intanto perché un’ampia frazione di consumi, quelli che non sono strettamente commercializzabili, stanno già accusando gli aumenti (pedaggi autostradali, tabacchi, anche via l’incremento delle accise, servizi professionali, servizi bancari), anche se l’evidenza conclusiva si avrà con l’indice dei prezzi al consumo relativo ad ottobre, ancora non disponibile.

La seconda ragione è ancora più robusta. Non vi sono margini perché la filiera produttiva - quindi non soltanto il commercio - possa tenere su di sé la maggiore imposta in quanto la redditività delle imprese si è drasticamente ridotta nel triennio 2008-2010.

 

Fig. 4 - I margini delle piccole imprese (stime)

 

var. % MOL

MOL/Attivo* (%)

ROE* (%)

 

2010/2008

2008

2010

2008

2010

Piccola industria artigiana (a)

-12,5

11,0

8,3

14,9

14,1

Costruzioni

-30,1

8,2

3,0

16,2

-3,6

Terziario di mercato

-20,7

7,8

4,5

8,0

0,9

 - Commercio e rip. di veicoli

-107,8

8,0

-2,6

9,8

-25,2

 - Commercio all'ingrosso (b)

-28,5

10,0

3,9

17,2

1,5

 - Commercio al dettaglio

-76,9

8,5

-1,3

10,7

-19,5

  -  Pubblici esercizi

3,1

7,3

7,3

-1,5

8,4

 - Trasporti e magazzinaggio

-12,3

12,6

8,4

15,8

13,4

 - Attività immobiliari

-32,3

5,2

3,6

4,2

1,1

 - Attività professionali e altro ( c)

-4,0

7,3

7,0

-0,2

3,2

 - Altri servizi (d)

-1,1

9,5

6,8

12,6

6,7

Totale

-20,7

8,6

5,0

10,5

4,0

(a) comprende panificazione, macellazione carni e lavorazione del legno; (b) comprende anche gli intermediari del commercio; (c) comprende gli studi professionali legali, tecnici e commerciali; (d) comprende attività ricreative, agenzie di pubblicità e scuole private, servizi per l’igiene e di pulizia;

* calcolato sulle imprese in contabilità ordinaria.

Elaborazioni Ufficio Studi Confcommercio su dati Confcommercio-SEAC.

 

Riportando all’universo un campione di piccole imprese prevalentemente operanti nel settore dei servizi di mercato (fig. 4) si trae l’evidenza che il margine operativo lordo tra il 2010 e il 2008, cioè relativo al biennio 2009-2010, si è complessivamente ridotto di oltre il 20%. Nello stesso periodo si è ridotto del 76,9% nel caso del commercio al dettaglio ed è diventato addirittura negativo nel settore del commercio e riparazione di veicoli. Per le imprese in contabilità ordinaria, la redditività al lordo degli ammortamenti e prima della remunerazione necessaria a soddisfare le pretese del capitale di debito, in percentuale dell’attivo, passa dall’8,6% del 2008 al 5% del 2010. E’ negativa per il commercio e riparazione di autoveicoli e per il commercio al dettaglio. E’ molto ridotta per le costruzioni e le attività immobiliari ed è decrescente in tutti i settori.

Guardando al rendimento del capitale proprio (ROE), che indica la convenienza a fare impresa da confrontare con la convenienza di investire in titoli risk-free, in molti settori nell’anno 2010 si osservano valori negativi.

Per il complesso del sistema delle piccole imprese in contabilità ordinaria la redditività è scesa nel 2010 di circa due terzi rispetto ai parametri del 2008.

In questo contesto la questione non è se traslare in avanti o meno la maggiore imposta.

Non traslare vuole dire che diventa economicamente più conveniente chiudere, alimentando il processo di riduzione delle imprese, per esempio del commercio al dettaglio, le quali già presentano un saldo negativo in termini di nati-mortalità pari a -11.084 unità nei soli primi sei mesi del 2011. La drammatica decisione è semplicemente traslare e vedere che succede.

            La nostra previsione della variazione dell’indice dei prezzi al consumo è pari al 3,2% tendenziale nel mese di ottobre 2011, incorporando una variazione congiunturale di 4 decimi di punto percentuale, in larga misura dovuta alla traslazione in avanti della variazione dell’aliquota Iva.

 

5. Altre considerazioni sugli effetti della variazione delle aliquote Iva

            La riforma fiscale, i provvedimenti annunciati, approvati e in attesa di decreti e regolamenti attuativi, la clausola di salvaguardia sulla delega fiscale, la manovra sull’Iva, sono temi complessi, incidenti immediatamente sul benessere economico delle famiglie e dei lavoratori e sulle prospettive reali del Paese. Tuttavia, spesso sono trattati con superficialità o con intenti propagandistici e strumentali.

            Per restare sulla questione dell’incremento dell’Iva, si è più volte fatto l’esempio della Germania come caso virtuoso di variazione consistente delle aliquote Iva senza apprezzabili effetti reali sul sistema economico. Ciò, oltre a essere illogico - la tesi dell’Iva come pietra filosofale della finanza pubblica non è credibile - è anche contraddetto dai dati ufficiali disponibili.

La Germania alla fine del 2006 presentava un’inflazione al consumo, secondo le misurazioni Eurostat, negativa o nulla (fig. 5): nell’ultimo trimestre del 2006 la media dell’inflazione è -0,1% congiunturale.

L’incremento di tre punti dell’aliquota ordinaria - dal 16% al 19% - portava l’inflazione costantemente attorno allo 0,4-0,5%, con picchi congiunturali dell’1%.

Il gradino inflazionistico accresceva l’inflazione tendenziale da circa l’1% a circa il 2%.

 

Fig. 5 - La manovra sull’Iva in Germania

Elaborazioni Ufficio Studi Confcommercio su dati Eurostat.

 

            Si deve poi ricordare che la Germania ha, e aveva al tempo della manovra, una pressione tributaria e contributiva molto inferiore al nostro Paese: nel 2007 il confronto è 39,6% contro 43,1% e nel 2010 i valori stanno a 39% contro 42,6%, dove la pressione più elevata è sempre quella italiana.

            Infine, la Germania ha fatto corrispondere all’incremento dell’aliquota Iva, sempre e comunque inferiore alla nostra, la riduzione dei contributi sociali.

            Pertanto, qualsiasi paragone tra Italia e Germania sulle operazioni di variazione delle aliquote Iva è fuorviante perché non appropriato in quanto le condizioni alle quali il paragone viene proposto erano e permangono radicalmente differenti.

 

6. Le polemiche non aiutano

Si è recentemente avanzata l’accusa che il commercio approfitterebbe dell’occasione dell’aumento dell’aliquota Iva al fine di incrementare sostanzialmente i prezzi e quindi di arrotondare i margini di guadagno.

Questo è da sempre impossibile perché il commercio, soprattutto al dettaglio, è il principale settore economico soggetto al controllo sociale di decine di milioni di consumatori che quotidianamente assumono e licenziano i loro commercianti fornitori. E’ la competizione tra circa 800.000 punti di vendita, dei quali oltre 200.000 nel settore alimentare, a garantire comportamenti non opportunistici. L’antecedente della presunta speculazione in occasione del changeover non ha riscontro alcuno nei dati statistici, i quali, almeno in sede ufficiale e istituzionale, dovrebbero essere gli unici sui quali costruire tesi e contro-deduzioni.

In ogni caso, appare opportuno suggerire alcune accortezze quando si valutano le variazioni dei prezzi, specialmente in un contesto mediatico e politico piuttosto confuso come quello italiano.

L’inflazione esisteva prima della metà di settembre 2011: quindi se il prezzo di un bene presenta una variazione congiunturale di un punto percentuale non si può affermare che c’è speculazione soltanto perché l’impatto della variazione dell’Iva sul prezzo finale è 0,8333. Esistono oggi, ed esistevano in passato, driver inflazionistici indipendenti dalla politica fiscale del Governo italiano. E’ opportuno ricordare che i prezzi in dollari delle materie prime non energetiche negoziate sui mercati internazionali sono ai massimi di sempre, come sono storicamente elevati quelli delle materie prime energetiche. Il tasso di cambio euro-dollaro, le siccità in Australia, le inondazioni nel lontano oriente o le determinazioni del cartello dei produttori e degli esportatori di petrolio sono verosimilmente indipendenti dalle nostre manovre di aggiustamento dei conti pubblici.

Inoltre, quand’anche osservassimo variazioni particolarmente elevate di uno o più prodotti converrà ricordare che le imprese di produzione e di distribuzione massimizzano (o tentano di massimizzare) una qualche funzione dei profitti totali e non dei profitti su ciascun oggetto delle decine di migliaia di beni e servizi quotidianamente disponibili per i consumatori italiani. Per fare un esempio, se prendiamo 5 beni diversi il cui prezzo finale sia cento, non è detto che il negoziante debba esitarli, dopo l’incremento dell’aliquota dal 20 al 21%, ciascuno a 100,83333. Potrebbe darsi il caso, ed è molto verosimile che accada, che 4 di questi beni siano ancora venduti a 100 ben dopo l’incremento dell’aliquota e che in quinto venga proposto a 103, oppure a 104 o a 104,5, a parità sempre di altre condizioni. Segnalare che un bene abbia un’inflazione tendenziale del 3 o 4% e, per induzione impropria, denunciare comportamenti speculativi è scorretto in generale, disonesto in qualche caso. Nell’esempio appena fornito, se le quantità vendute dei beni sono simili, l’inflazione sarà esattamente quella determinata dalla variazione di aliquota.

Lungo la filiera, sconti sulle quantità, diverse intensità dei poteri contrattuali, elasticità della domanda dei consumatori finali, contribuiranno a determinare la dimensione e la dinamica temporale degli incrementi di prezzo dovuti alla variazione dell’aliquota. E’ veramente ingenuo pensarla diversamente perché è veramente ingenuo pensare che se qualcuno lungo la catena produttiva, e in particolare il commercio al dettaglio, fosse stato in grado di aumentare i prezzi per migliorare i propri profitti netti, non l’avrebbe già fatto e aspetterebbe le determinazioni del Governo in materia di politica fiscale per approfittarne. E’ una congettura molto strana: sappiamo tutti che il mercato non funziona così e che gli imprenditori non si comportano in modo tanto curioso.

Caso mai, il problema è di capire cosa accade dove il mercato non c’è oppure è opaco, asimmetrico, dominato da pochi, tra i quali la pubblica amministrazione.

 

7. Epilogo: verso una nuova recessione?

            La contrarietà di Confcommercio-Imprese per l’Italia rispetto a molti dei contenuti, non alla necessità, della manovra, non è dettata dalla paura di perdere alcuni punti di margine, sostanzialmente già persi, forse irrimediabilmente, durante la grande recessione e comunque sotto pressione già da molto tempo prima della crisi. Non è neppure il fastidio di essere, come di consueto, oggetto di accuse sovente strumentali, confuse sotto il profilo logico, sempre infondate sul piano dell’evidenza statistica.

            E’ semplicemente dovuto alla convinzione che non più tasse ma minori spese sono necessarie per tornare a crescere, almeno in termini di presupposti di finanza pubblica per il rilancio dell’economia reale. La teoria e, soprattutto, l’esperienza dimostrano che le manovre efficaci riguardano la riduzione degli sprechi, delle inefficienze, dell’invadenza della cosa pubblica nell’economia e nella vita dei cittadini. Aumentare le imposte e le tasse non fa altro che proseguire la rincorsa impossibile tra maggiori spese e maggiori entrate.

            Tra agosto e settembre, da parte delle istituzioni e dei centri di ricerca nazionali e internazionali, si è presa piena coscienza del risvolto potenzialmente recessivo delle manovre di aggiustamento predisposte dal Governo.

A questo punto, la nostra previsione di crescita per il 2012 dei consumi dello 0,2% e del Pil dello 0,3%, valori non dissimili da quelli proposti da tutti i più autorevoli osservatori, implica che la probabilità di entrare nuovamente in recessione sia non minore di quella di una prosecuzione lungo il lentissimo, estenuante, incerto processo di ritorno alla crescita economica.

I prossimi mesi appaiono cruciali. Il verso che assumerà la dinamica economica italiana potrebbe essere determinato proprio dai movimenti della propensione al consumo: un suo blocco o una sua riduzione farebbero entrare, molto verosimilmente, il Paese in una nuova fase recessiva. 

            E’ nostro auspicio di osservare, quanto prima, un’indicazione chiara da parte delle Autorità di politica economica nella direzione della crescita produttiva e del rilancio della fiducia di lavoratori e imprese.

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