Energia, infrastrutture, spesa pubblica: un "freno" per le imprese e il mercato

Energia, infrastrutture, spesa pubblica: un "freno" per le imprese e il mercato

Un'analisi di Confcommercio su come "liberare" la nostra economia

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6 marzo 2007

 

16 /07
Roma, 6.3.2007

 

 

 

Un’analisi di Confcommercio su come “liberare� la nostra economia

 

ENERGIA, INFRASTRUTTURE, SPESA PUBBLICA:

UN “FRENO� PER LE IMPRESE E IL MERCATO

 

 

Spesa pubblica crescente e di dubbia efficienza, elevati costi dell’energia per famiglie e imprese, inadeguato funzionamento del sistema dei trasporti pubblici e privati, declino demografico e scarsa cultura della concorrenza sia nei mercati dei beni sia in quello del lavoro. Sono questi i nodi da sciogliere per liberare la nostra economia e rimuovere i vincoli a una crescita economica di lungo periodo, l’unica che può creare benessere per i cittadini-consumatori: questo, in sintesi, quanto emerge da un’analisi dell’Ufficio Studi Confcommercio sui fattori che ostacolano i processi di liberalizzazione e la crescita nel nostro Paese.

 

In Italia, secondo l’analisi di Confcommercio, l’energia elettrica, per ampie fasce di utenti, è più cara di quasi il 50% rispetto alla media europea, in larga misura a causa del peso della fiscalità; i redditi per lavoratore dipendente nella pubblica amministrazione sono sensibilmente superiori a quelli dei settori di mercato e, soprattutto, il divario è pericolosamente crescente; nella P.A. il numero di dirigenti, a parità di dipendenti, è 4 volte superiore a quello dei settori di mercato. Il sistema Italia “distrugge� inoltre tempo negli spostamenti, a danno della produttività e determinando un costo per la collettività: 4 miliardi di euro, in termini di tempo perso, dovuto alla congestione sulla rete stradale per il trasporto passeggeri, senza considerare i ritardi crescenti nel trasporto ferroviario.

 

Il mercato dell’elettricità e del gas: costi e risparmi

 

In Italia il costo dell’energia elettrica e del gas è tra i più alti in Europa. E questo vale sia per gli usi domestici che per quelli industriali, con pesanti ricadute su famiglie e imprese. Il problema dell’eccessivo costo dell’energia nel nostro paese è legato essenzialmente ad alcuni fattori infrastrutturali che rendono poco efficiente l’intero settore dei beni e servizi energetici:

 

  • ridotta capacità di importazione di gas connessa all’inadeguatezza dei rigassificatori nel nostro Paese;
  • ridotta capacità di importazione di energia elettrica a causa di un numero insufficiente di elettrodotti;
  • assenza di fonti di tipo nucleare e insufficienti investimenti sulle fonti innovative.

 

Per l’energia elettrica, in particolare, l’Italia è il paese dove sono applicati prezzi ben al di sopra della media europea: a luglio 2006, gli utenti domestici (3.500 KWh annui) pagano 21,1 eurocent contro i 14,5 della media UE25, con uno scostamento di oltre il 45%; analoga situazione per i prezzi per uso industriale nella classe di consumo 2GWh: 14 eurocent in Italia contro la media UE25 di 9 eurocent, con uno scostamento del 55%.

 

Certamente, accanto alle problematiche di natura infrastrutturale vi sono anche altri elementi che concorrono a generare sovracosti per gli utenti finali determinando una minore efficienza del mercato energetico nel complesso:

 

  • l’esistenza di contratti d’importazione di lungo periodo in capo al monopolista per il gas;
  • le posizioni dominanti sul mercato all’ingrosso dell’energia elettrica;
  • la forte presenza dello Stato attraverso le partecipazioni in Eni ed Enel (che, nel 2005, hanno fruttato quasi 2 mld di euro);
  • un carico fiscale sull’energia tra i più elevati in Europa.

 

Per quanto riguarda il peso delle imposte sui prezzi sia dell’energia elettrica che del gas, l’Italia è al primo posto davanti ai principali competitors europei e al di sopra della media europea come evidenziato nelle tabelle seguenti.

 

Peso percentuale delle imposte sui prezzi dell’elettricità (Luglio 2006)

Paese

Consumi domestici

(3.500 kWh)

Consumi industriali

(2 GWh)

Italia

26,6

21,5

Germania

24,7

12,0

Francia

24,0

7,8

Spagna

18,0

5,0

Regno Unito

4,8

2,6

Media UE 25

23,3

10,4

Fonte: elaborazioni Ufficio Studi Confcommercio su dati Eurostat

 

Peso percentuale delle imposte sui prezzi del gas (Luglio 2006)

Paese

Consumi domestici

(2.200 mc)

Consumi industriali

(1.000.000 mc)

Italia

37,3

7,8

Francia

22,7

2,2

Spagna

14,0

0

Germania

11,9

9,1

Regno Unito

4,8

2,8

Media UE 25

22,2

6,1

Fonte: elaborazioni Ufficio Studi Confcommercio su dati Eurostat

 

 

Per quantificare il potenziale risparmio di costo dell’energia â€" ad uso domestico e industriale â€" è sufficiente ipotizzare l’applicazione in Italia del prezzo medio degli altri paesi europei e confrontare i prezzi per classi di consumo pagati dall’utente finale (al lordo delle imposte) in Italia e in Europa per tipologia di consumo nel periodo.

Per l’energia elettrica, il risparmio cumulato su 4 anni (2002-2005) ammonterebbe a circa 39 miliardi di euro, equivalente a più di 500 euro annui per famiglia, ipotizzando il trasferimento dalle imprese ai consumatori dei minori costi degli input energetici.

Per quanto riguarda il gas, con riferimento al triennio 2001-2003 (dati disaggregati non disponibili per gli anni successivi), il risparmio cumulato ammonterebbe a circa 3 miliardi di euro per le utenze industriali e a poco più di 15 miliardi di quelle domestiche. Con un beneficio complessivo per ogni singola famiglia di circa 300 euro all’anno.

Se è, quindi, indubbia la rilevanza del tema dei costi energetici, è opportuno segnalare però che, da soli, i processi di liberalizzazione in questo campo non bastano. Bisogna risolvere, anche e soprattutto, i tanti problemi infrastrutturali.

 

 

Infrastrutture, congestione e valore del tempo

 

Liberare l’economia e sviluppare la produttività dei fattori â€" e quindi creare benessere â€" è anche questione di gestione del tempo. Tempo di lavoro, tempo di consumo, tempo accessorio: quest’ultimo è quello impiegato per recarsi al lavoro, per tornare a casa, per andare al supermercato, per cercare informazioni, per portare a termine transazioni utili. Ridurre il tempo accessorio permette di accrescere quello dedicato al lavoro e quello dedicato al consumo e al tempo libero.

In Italia lo spreco di tempo è soprattutto connesso alle inefficienze dei trasporti. E’ vero che la ricetta per muoversi meglio non può essere semplicemente più strade e più ferrovie: usarle meglio sarebbe altrettanto importante. Ma è anche vero che negli anni ’90 la rete autostradale italiana - che svolge il duplice ruolo basilare di corridoio e di servizio per le aree urbane a supplenza delle carenze della rete stradale ordinaria - ha fatto registrare solo un incremento del 4,8%, notevolmente al di sotto della Spagna (+19,1%), della Francia (+32,7%) o del Portogallo (+142,2%).

La rete ferroviaria si è addirittura ridotta. La crescente domanda di mobilità crea una congestione quantificabile in oltre 4 miliardi di euro, in termini di tempo perso, per il solo trasporto di passeggeri su gomma.

Per non parlare del trasporto di merci: l’inadeguatezza delle infrastrutture materiali e immateriali (sistemi informativi di mobilità) fa crescere il costo della logistica sul Pil (tra i più elevati in ambito europeo). Un’efficiente mobilità di merci nel sistema economico è il primo requisito perché il Paese ritorni globalmente competitivo.

 

C’è di più: la strada ordinaria, che non ha fruito di adeguati investimenti in sicurezza, causa costi esterni netti, cioè detratte le imposte e le assicurazioni che gravano sugli utenti, pari a oltre 30 miliardi di euro (dato riferito all’anno 2004). Essa è responsabile per il 91% di tutti gli incidenti mortali su qualsiasi modalità di trasporto.

Tempo e vite umane sono costi rilevantissimi che richiedono visione strategica e investimenti: la messa in sicurezza della rete ordinaria, soprattutto intorno alle periferie delle grandi città, magari mediante la concessione a privati della gestione e del pedaggiamento come fonte di ricavo, in un contesto regolatorio trasparente, stabile ed efficace, dovrebbe essere una priorità di qualsiasi governo. E vale molto di più di diversi interventi di liberalizzazione parziale di mercati marginali.

Liberare l’economia, quindi, dalla congestione e dai pericoli connessi alla mobilità.

 

Spesa pubblica

 

Il tema della spesa pubblica è strettamente connesso a quello delle liberalizzazioni:

 

  • nella P.A. le garanzie dei lavoratori sono maggiori che nei settori di mercato: si ha un problema di equità che si riverbera sull’efficienza (sovra-remunerazione del fattore lavoro nella P.A.);
  • nella P.A. il costo del lavoro è sganciato dalla produttività o, almeno, non ci si preoccupa seriamente di valutarne la produttività: altri dovranno produrre per compensare questa differenza oppure crescerà lo stock di debito che, attraverso gli interessi, acuisce lo spostamento di risorse dai settori che generano ricchezza a quelli che la consumano senza produrla.

 

Ne derivano, di conseguenza, alcuni comportamenti con effetti distorsivi per il mercato attuati dai settori produttivi per difendersi dai suddetti fenomeni; inoltre, la riduzione del mark-up nei settori market grazie alle liberalizzazioni non si trasferisce ai cittadini-consumatori ma soltanto agli stakeholders della P.A. Finchè ci sarà il sospetto che l’amministrazione pubblica gode di protezioni ingiustificate nessuno accetterà di perdere parte della propria rendita a favore dei cittadini-consumatori. E’ evidente, quindi, che una spesa pubblica di dubbia qualità costituisca un vincolo alla crescita.

 

Il costo del lavoro nel settore pubblico (Fig. 1) risulta non soltanto maggiore che in quello privato, ma soprattutto il divario appare fortemente crescente (da 800 euro a 12.000 euro in 25 anni), un fenomeno che non ha giustificazione e che va rapidamente neutralizzato.

 

Fig. 1 â€" differenza tra redditi da lavoro dipendente tra P.A. e settori market.

 

Fonte: elaborazioni Ufficio Studi Confcommercio su dati Istat

 

Desta perplessità anche l’organizzazione del lavoro nelle amministrazioni pubbliche.

Non solo nella media delle amministrazioni il numero di dirigenti appare particolarmente elevato in rapporto al resto dei dipendenti. Ma, fatto sconcertante, questo rapporto si è quasi raddoppiato nel giro di 12 anni (fig. 2) passando da 3,3 dirigenti per 100 dipendenti nel 1993 a poco meno di 6 nel 2005.

E’ sintomo di una crescita qualitativa della forza lavoro nella pubblica amministrazione o è prevalentemente il risultato di automatismi di carriera che livellano verso l’alto redditi sostanziali e qualifiche formali?

 


 

Fig. 2 - Dirigenti e dipendenti: P.A. e settori di mercato

Fonte: elaborazioni Ufficio Studi Confcommercio su dati Istat

 

Questo fenomeno non è estraneo alla crescita del peso del costo del lavoro nella pubblica amministrazione rispetto al Pil. Dopo un periodo di riduzione di tale valore â€" dal 12,2% nel 1990 al 10,4% nel 2000 - il peso ha cominciato a crescere di nuovo (11,4% nel 2006). E’ urgente frenare questa dinamica e invertirla.

In caso contrario non avrebbero senso neppure i ricorrenti suggerimenti di riduzione della partecipazione dello Stato in alcune importanti aziende: privatizzare vendendo quote del capitale collettivo in luogo di ridurre il debito pubblico allenterebbe semplicemente il vincolo sulla spesa corrente, che continuerebbe a crescere.


 

Fig. 4 - Spesa pubblica pro capite, debito e Pil: confronti internazionali (euro)

 

Fonte: elaborazioni Ufficio Studi Confcommercio su dati Ameco (Commissione Europea)

 

Se si confrontano alcuni indicatori della spesa pubblica dell’Italia con quelli, ad esempio, di Francia e Germania (fig. 4) emerge che il nostro paese:

 

  • al netto degli interessi ha la minore spesa pro capite;
  • ha un enorme “pesoâ€� rappresentato sia dallo stock di debito che dalla spesa per interessi sullo stesso;
  • ha il livello più basso di Pil per abitante.

 

E dunque si scopre che la spesa per assistenza e previdenza in termini pro capite non è poi così elevata: questo è forse un segnale quantitativo di inefficienza. Spendiamo molto per tenere in piedi una macchina che non produce benefici.

In un contesto di elevati interessi, di elevato e crescente stock di debito pubblico e di relativamente modesto Pil pro capite.

In questo senso, liberare l’economia è liberarsi del debito. Per tornare a crescere.

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