Le giovani generazioni in Italia dopo la pandemia

Le giovani generazioni in Italia dopo la pandemia

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3 agosto 2021

Introduzione e sintesi

Le questioni demografica e giovanile in Italia indirizzano il Paese verso un sempre più marcato declino. Giustamente il PNRR se ne occupa. Puntiamo tutto su di esso, sperando che riesca a dimostrarsi risolutivo di grande parte dei problemi che vengono evidenziati da questa nota.

 

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Tra il 2000 e il 2019 la popolazione di quindici anni e oltre residente in Italia è cresciuta di 3,23 milioni di unità, risultato di una riduzione di 3,45 milioni di persone di età compresa 15 e 34 anni e di un aumento di 6,68 milioni di persone di età maggiore di 34 anni. Immaginare un futuro roseo per i prossimi 30 anni con queste premesse oggettive è impossibile.

Nel 2000 gli occupati giovani erano 7,7 milioni, nel 2019 5,2 milioni: meno 2,5 milioni. Nello stesso periodo la Germania ha perso 235mila occupati giovani. Quindi: declino italiano in assoluto e in termini comparativi. Toccherà farcene una ragione, se le cose non si modificheranno nel futuro molto prossimo, e in modo profondo.

Il tasso di fecondità è sceso da 2,66 figli per donna della metà degli anni sessanta del secolo scorso a 1,18 figli dell’anno in corso.

In Italia, i giovani che potrebbero lavorare nella fascia di età 15-34 anni, ma non lo fanno né cercano attivamente un’occupazione, erano, nel 2000, il 40% di quella fascia di età; nel 2019 sono quasi il 50%. In Germania, tale quota nel medesimo periodo è rimasta costante al 30%. Le differenze sono cospicue e tendono ad ampliarsi.

La situazione del Paese è anche più grave distinguendo per tipologia d’impiego. Tra il 2004 e il 2019, i giovani lavoratori dipendenti sono diminuiti del 26,6%, i giovani indipendenti del 51,4%, una differenza talmente grande da non poter essere attribuita al caso. Fare impresa o comunque lavorare in proprio è sempre più difficile, e lo è ancora di più per i giovani. La quota di lavoratori indipendenti giovani sul totale occupati della stessa fascia di età è passata, di conseguenza, dal 22,7% del 2004, al 16,3% del 2019. Considerando la demografia sottostante ed estrapolando meccanicamente queste tendenze, il pericolo concreto è che tra meno di trent’anni non ci saranno più lavoratori indipendenti giovani, anzi, estremizzando un po’, non ci saranno più lavoratori indipendenti tout court.

D’altra parte, gli ostacoli ai giovani e al fare impresa giovane si vedono bene anche nei dati sugli espatri netti all’estero (cancellazione dalle anagrafi comunali meno iscrizioni (rimpatri). Negli undici anni che vanno dal 2009 al 2019 sono spariti poco più di 345mila giovani di età tra i 18 e i 39 anni, con un certo pericoloso equilibrio tra le aree del Paese e con il Sud in rapida rimonta in termini di valore assoluto degli espatri.

Non c’è da stupirsi che questi fenomeni poi distruggano il tessuto produttivo attuale e, soprattutto, prospettico. Negli ultimi dieci anni l’Italia ha perso 156mila imprese giovanili, che ora pesano meno del 9% sul totale imprese mente nel 2011 tale quota era di circa undici punti e mezzo. Questa pessima performance ha due cause: la prima è la demografia, la seconda è l’eccesso di difficoltà che incontra un giovane imprenditore potenziale nel realizzare il suo progetto lavorativo. Ci vogliono politiche di maggiore ampiezza e stabilità: aggiustare i deficit di contesto – microcriminalità, logistica, formazione del capitale umano – migliorare la burocrazia, ridurre la pretesa fiscale.

È necessario fare un esame di coscienza – se proprio non si vogliono adottare gli strumenti economico-statistici di valutazione tecnica delle politiche pubbliche – per stabilire se a fronte degli sforzi fatti per l’occupazione giovanile, i risultati siano stati adeguati. In caso di risposta negativa la conseguenza sarebbe cambiare le azioni.

Il numero di NEET – giovani nella fascia di età 15-29 anni che non lavorano, non studiano né sono in formazione – in Italia ha superato i due milioni di unità prima della pandemia. È record assoluto in Europa. Più correttamente, in rapporto alla popolazione della stessa fascia di età sono il 22% in Italia contro meno del 15% della Spagna e del 7,6% della Germania. Quindi, dei pochi giovani che ci rimangono pochissimi lavorano o sono comunque attivi sul mercato.

E tutto ciò stranamente convive con 245mila ricerche di lavoro (vere) da parte delle imprese che ogni anno non vengono soddisfatte, considerando costante il dato del 2019 di fonte ufficiale. Questo dovrebbe costituire un’evidenza definitiva del fatto che abbiamo bisogno di studio e formazione professionale.

L’inevitabile calo della parte economicamente attiva della popolazione fa emergere anche il tema della sostenibilità del sistema pensionistico e, più in generale, del sistema di protezione sociale nel suo complesso e del patto generazionale che ne è alla base. In questo senso il mix tra capitalizzazione individuale e ripartizione è la strada obbligata per garantire una tenuta di lungo periodo del welfare state, con il pilastro pubblico obbligatorio ed il pilastro complementare sempre più connessi ed orientati a garantire, insieme, più adeguati livelli di copertura.

Sottovalutare queste problematiche – cedendo alla tentazione di misure ancora una volta tese all’aumento della spesa pensionistica – significa mettere a rischio la tenuta del sistema, scaricando sulle coorti più giovani un peso che non potranno sostenere, ed innescando un processo irreversibile e sempre più simile ad uno “schema Ponzi” che prima o poi presenta inevitabilmente il conto.

I dati sui redditi d’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro completano il quadro desolante della condizione giovanile, in attesa di poter dire che i problemi saranno superati grazie alle ingenti risorse europee da spendere nei prossimi anni.

Considerando i lavoratori di età fino a trent’anni, tra il 1977 e il 2016 il reddito d’ingresso del dipendente è sceso del 7,5% (meno 1.100 euro a prezzi costanti circa), quello del lavoratore indipendente – imprenditore, lavoratore autonomo, libero professionista – del 41% (meno 7.300 euro). In conseguenza di queste dinamiche, nel 2016 – e oggi le cose saranno peggiorate, se possibile – il reddito d’ingresso di un giovane indipendente è del 25% inferiore al reddito d’ingresso di un giovane dipendente (alla fine degli anni settanta era del 17% più elevato).

E bisogna rimarcare che il fenomeno riguarda proprio i giovani, sebbene la svalutazione del lavoro indipendente, rispetto ai redditi dei dipendenti, abbia un po’ interessato anche gli addetti meno giovani.

 

***

 

La marginalizzazione delle giovani generazioni in Italia ha, quindi, molteplici dimensioni tra loro coerenti. Meno possibilità imprenditoriali, peggiore demografia, assenza di politiche efficaci, redditi d’ingresso decrescenti. Una fotografia, insomma, del declino già sperimentato. Peggio ancora: se non si cambia è la premessa per quello, ben più doloroso, che dovremo sperimentare. Tutti, si capisce, visto che qualcuno pagherà per i debiti che i giovani non potranno sostenere visto che non potranno auto-sostentarsi. La marginalità dei giovani è la marginalità di tutti.

E certo la pandemia non ha aiutato. Gli anziani hanno pagato in termini di vite umane. Ma ai giovani non è stato fatto alcuno sconto in termini di perdita di apprendimento e socialità.

 

1. La questione demografica

Da qualche decennio si parla apertamente nel nostro Paese di categorie svantaggiate rispetto all’ingresso e alla partecipazione al mercato del lavoro. In questa nota il riferimento è ai giovani, senza distinzione di genere.

Nella tabella 1 sono rappresentati la struttura della popolazione per condizione professionale e classe di età e i suoi cambiamenti nell’arco degli ultimi vent’anni, nel confronto Italia vs Germania, quest’ultima nel ruolo di benchmark.

 

Tab. 1 – Popolazione per condizione professionale e classe di età
migliaia, var. assolute e var. %

Elaborazioni Ufficio Studi Confcommercio (USC) su dati Eurostat.
  Italia Germania
15-34 anni 2000 2019 var. ass. var. % 2000 2019 var. ass. var. %
Forze di lavoro 9.438 6.327 -3.111 -33,0 13.821 13.171 -650 -4,7
- Occupati 7.688 5.170 -2.518 -32,7 12.813 12.579 -235 -1,8
- Disoccupati 1.750 1.157 -593 -33,9 1.008 593 -415 -41,2
Inattivi 6.415 6.077 -338 -5,3 6.200 5.576 -624 -10,1
Totale popolazione 15.853 12.404 -3.449 -21,8 20.021 18.747 -1.274 -6,4
35 anni e oltre 2000 2019 var. ass. var. % 2000 2019 var. ass. var. %
Forze di lavoro 14.037 19.614 5.577 39,7 25.626 30.602 4.976 19,4
- Occupati 13.242 18.190 4.948 37,4 23.511 29.822 6.311 26,8
- Disoccupati 795 1.425 629 79,1 2.115 780 -1.335 -63,1
Inattivi 18.869 19.975 1.106 5,9 23.006 21.345 -1.660 -7,2
Totale popolazione 32.906 39.589 6.683 20,3 48.632 51.947 3.315 6,8
15 anni e oltre 2000 2019 var. ass. var. % 2000 2019 var. ass. var. %
Forze di lavoro 23.475 25.941 2.466 10,5 39.447 43.773 4.326 11,0
- Occupati 20.930 23.360 2.430 11,6 36.324 42.400 6.076 16,7
- Disoccupati 2.545 2.582 36 1,4 3.123 1.373 -1.750 -56,0
Inattivi 25.284 26.052 768 3,0 29.206 26.922 -2.284 -7,8
Totale popolazione 48.760 51.993 3.234 6,6 68.653 70.694 2.042 3,0

 

Sebbene Italia e Germania siano entrambe afflitte dalla problematica dell’invecchiamento demografico, emerge che nella classe di età 15-34 anni, la flessione che interessa l’Italia tra il 2000 e il 2019 relativamente alla popolazione di quella coorte, sfiora i 3,5 milioni di unità, il triplo della contrazione registratasi in Germania.

Una contrazione di tale entità dipende da numerosi fattori di contesto[1] che influiscono sulle dinamiche della popolazione, ma che possono essere sintetizzati dal tasso di fecondità totale (TFT, numero di nati vivi per donna in età fertile). Tale indicatore, dal valore di 2,66 della metà degli anni sessanta del secolo scorso, fase di culmine del baby-boom, si è ridotto di oltre il 50%, scendendo ad 1,27 nel 2019, senza dimenticare che secondo l’ultima analisi diffusa dall’Istat, il numero medio di figli per donna in età fertile di nazionalità italiana è addirittura pari ad 1,18, il più basso di sempre.

Se le coorti giovani tendono a contrarsi rapidamente in Italia, ciò è dovuto alla fecondità (oltre che all’emigrazione).

Una breve digressione sul punto chiarisce i termini della questione. Nella figura 1 sono presentati gli incroci tra TFT (tasso di fecondità totale) e il PIL reale pro capite negli anni 1952-2019, ottenuto quest’ultimo tramite retropolazione delle serie più aggiornate del PIL reale e della popolazione di fonte Istat, con le ricostruzioni storiche che risalgono sino all’Unità d’Italia realizzate congiuntamente dall’Istat e dalla Banca d’Italia.

Il legame tra TFT e livello del PIL pro capite appare di tipo inverso, ma è frutto dello scorrere del tempo non esplicitamente considerato nella costruzione dello scatter. In altre parole, i TFT non si riferiscono a persone diverse osservate nel medesimo istante di tempo e caratterizzate da eterogenei livelli di reddito. Accade semplicemente che nel corso degli ultimi settanta anni le condizioni economiche e sociali sono radicalmente mutate e le famiglie numerose sembrano passate di moda. Un’Italia con più asili nido e una più equilibrata distribuzione dei carichi relativi alla cura del nucleo familiare tra uomini e donne potrebbe, per esempio, rilanciare la natalità, a parità di altre condizioni.

Se, pertanto, si ha l’accortezza di immaginare che i punti a destra della figura 1 riguardano gli anni più recenti e quelli a sinistra quelli più lontani, la relazione appare influenzata dai cambiamenti nelle preferenze sociali oltre che dal reddito famigliare.

 

Fig. 1 – Il TFT e il livello del PIL reale pro capite
Italia, anni 1952-2019

Figura 1 – Il TFT e il livello del PIL reale pro capite

Elaborazioni USC su dati Istat e Banca d’Italia.

 

Anzi, l’osservazione della figura 2 restituisce smalto alla suggestione che il reddito abbia un impatto positivo sulle scelte di procreazione, sempre nella condizione ceteris paribus. Come si vede, a incrementi/decrementi al tempo t-1 del reddito pro capite, corrispondono valori del TFT al tempo t elevati/più ridotti.

In altri termini la variabile ritardata di un periodo relativa al reddito personale, influenza le decisioni delle famiglie riguardo alla dimensione del nucleo familiare (numero dei figli) del periodo successivo, in quanto un decremento, ad esempio, del reddito personale genera incertezza riguardo alla stabilità futura delle risorse familiari derivanti dal lavoro e, quindi, induce le coppie a ritardare il concepimento dei nascituri, in attesa di miglioramenti/stabilizzazione dei flussi reddituali.

Questa relazione sembra essersi osservata anche nelle diverse fasi della recente pandemia. Non a caso l’Istat, in occasione del Rapporto Annuale 2021, relativamente all’impatto dello shock pandemico sul bilancio demografico, ha osservato che “il quadro demografico nel 2020 è contraddistinto dal nuovo minimo storico di nascite dall’Unità d’Italia e da un massimo di decessi dal secondo dopoguerra. Tra i fattori determinanti dell’andamento della popolazione – anche per i riflessi sui progetti di vita individuali – vi è il calo eccezionale dei matrimoni. I primi dati relativi al 2021 rafforzano la convinzione che la crisi abbia amplificato gli effetti del malessere demografico strutturale che da decenni spinge sempre più i giovani a ritardare le tappe della transizione verso la vita adulta, a causa delle difficoltà che incontrano nella realizzazione dei loro progetti”.

 

Fig. 2 – Il TFT e la variazione del PIL reale pro capite
Italia, anni 1952-2019

Figura – Il TFT e la variazione del PIL reale pro capite

Elaborazioni USC su dati Istat e Banca d’Italia.

 

Il crollo del tasso di fecondità italiano spiega la ragione per la quale coloro che nel 2000 si collocavano nella classe di età tra 15 e 34 anni non siano stati in grado, per scelta o ragioni contingenti, di generare un numero sufficiente di figli nei successivi vent’anni, in modo da evitare o ridurre quella perdita di popolazione giovane di circa 3,5 milioni di unità. Una contrazione che si è riflessa in misura consistente sulla componente della popolazione attiva. Tale fenomeno non si è verificato per la Germania, il cui tasso di fertilità, seppur non elevato, è comunque superiore a quello italiano e, soprattutto, costantemente crescente (passato dall’1,38 del 2000 all’1,54 del 2019) con la conseguenza positiva di aver limitato la contrazione della fascia di popolazione giovane, in un arco ventennale, a poco più del 6%, contro il quasi 22% dell’Italia (tab. 1).

Per comprendere meglio l’impatto del TFT sulle dinamiche della popolazione, si deve considerare che variazioni apparentemente ridottissime dell’indicatore, corrispondono comunque a variazioni nei flussi di nati vivi affatto trascurabili. Ad esempio, nel caso dell’Italia, relativamente al ventennio considerato nell’analisi, un incremento del TFT di un centesimo di punto corrisponde mediamente, per anno, ad un incremento dei flussi di nati vivi di quasi 4mila unità. Per la Germania, invece, si avrebbe una maggiorazione media annua superiore alle 5mila unità, in quanto più spesse sono le coorti di popolazione femminile in età fertile, tra i 15 e i 49 anni, secondo le convenzioni demografiche.

Se dunque l’Italia, per tutto l’arco temporale tra il 2000 e il 2019, avesse beneficiato dello stesso TFT della Germania – superiore mediamente di circa sette centesimi di punto – il numero medio di nati vivi in ciascun anno sarebbe stato più elevato di quasi 27mila unità rispetto al dato osservato. Alla fine del periodo considerato, cioè nel 2019, la popolazione totale sarebbe risultata più elevata di un numero di unità – ipotizzando assenza di morti premature – derivante dalla somma degli oltre 500mila (27mila x diciannove anni) e dei figli da questo generati.

 

2. Giovani e mercato del lavoro

Il contraccolpo più pesante della riduzione di popolazione si è avvertito dal lato della condizione professionale (tab. 1). Le forze di lavoro nella classe 15-34 anni si sono ridotte del 33% (meno del 5% in Germania). Inoltre, la contrazione risulta della medesima entità anche nelle sue componenti, cioè occupati e disoccupati, mentre il segmento degli inattivi, con una riduzione di circa il 5%, si è mantenuto quasi stabile. Il deficit di popolazione nella fascia di età 15-34 anni si è riflesso perciò essenzialmente sulla componente attiva, cioè occupati e persone in cerca di occupazione: 2,5 milioni di occupati giovani in meno nel ventennio considerato (-32,7%) e quasi 600mila persone giovani in cerca di occupazione in meno (-33,9%), per il solo effetto demografico.

Riguardo alla Germania, invece, la citata riduzione assai contenuta delle forze di lavoro è stata determinata da una sostanziale tenuta della componente degli occupati, che registra nel periodo una contrazione inferiore al 2% e, soprattutto, da una elevatissima flessione delle persone in cerca di occupazione, superiore al 41%, accompagnata anche da una consistente riduzione di inattivi in quella classe di età (-10,1%): ciò evidenzia che al netto del declino demografico, il cui impatto appare ben più ridimensionato rispetto alla situazione italiana, le dinamiche economiche generali hanno consentito alla Germania di far transitare tra gli occupati quote rilevanti sia di disoccupati, sia di inattivi, relativamente ai giovani 15-34 anni.

Specularmente, le classi di età dagli over 35 in avanti (tab. 1) hanno fatto registrare per l’Italia variazioni in positivo di ampiezza significativa. Anche su questa fascia di popolazione, tuttavia, si sono riverberati gli effetti negativi della severa recessione del 2009 e, successivamente, del prolungarsi di un ciclo economico estremamente debole.

Anche nel caso della fascia di età 35 anni e oltre, la Germania mostra andamenti difformi da quelli dell’Italia. In particolare, sono le condizioni complessive del mercato del lavoro e il tono generale dell’economia a determinare le differenze, come testimonia il fatto che un incremento comunque ragguardevole degli occupati di circa il 27% si affianca ad una straordinaria contrazione dei disoccupati (-63,1%), evidentemente in larga misura assorbiti dal sistema produttivo, in quanto non transitati nel segmento degli inattivi, che registrano, anch’essi, una riduzione superiore al 7%. Dinamiche, dunque, per persone in cerca di occupazione e inattivi, di segno totalmente opposto rispetto al dato italiano.

Ulteriori conferme delle preoccupanti difficoltà di accesso al mercato del lavoro incontrate dai giovani italiani rispetto ai loro omologhi tedeschi derivano dalla tabella 2, dove sono rappresentati i tassi di partecipazione[2] al mercato del lavoro.

Le differenze riguardano i livelli assoluti degli indicatori e le rispettive variazioni per Paese intercorse nell’arco temporale 2000-2019.

Nella fascia dei giovani 15-34 anni, il rapporto tra le forze di lavoro (occupati + disoccupati) e la popolazione di riferimento, ossia il tasso di attività, peggiora di quasi dieci punti nel periodo rispetto alla Germania, attestandosi al 51% nel 2019 – con una flessione di oltre otto punti rispetto al 2000 – contro il 70% circa della Germania, che migliora, invece, di oltre un punto nel periodo considerato.

Tab. 2 – Tassi di partecipazione al mercato del lavoro per classe di età
in %

Elaborazioni Ufficio Studi Confcommercio su dati Eurostat.
  Italia Germania
15-34 anni 2000 2019 var. ass. 2000 2019 var. ass.
Tasso di attività 59,5 51,0 -8,5 69,0 70,3 1,2
- Tasso di occupazione 48,5 41,7 -6,8 64,0 67,1 3,1
Tasso di disoccupazione 18,5 18,3 -0,3 7,3 4,5 -2,8
Tasso di inattività 40,5 49,0 8,5 31,0 29,7 -1,2
35 anni e oltre 2000 2019 var. ass. 2000 2019 var. ass.
Tasso di attività 42,7 49,5 6,9 52,7 58,9 6,2
- Tasso di occupazione 40,2 45,9 5,7 48,3 57,4 9,1
Tasso di disoccupazione 5,7 7,3 1,6 8,3 2,5 -5,7
Tasso di inattività 57,3 50,5 -6,9 47,3 41,1 -6,2
15 anni e oltre 2000 2019 var. ass. 2000 2019 var. ass.
Tasso di attività 48,1 49,9 1,7 57,5 61,9 4,5
- Tasso di occupazione 42,9 44,9 2,0 52,9 60,0 7,1
Tasso di disoccupazione 10,8 10,0 -0,9 7,9 3,1 -4,8
Tasso di inattività 51,9 50,1 -1,7 42,5 38,1 -4,5

 

Sicuramente preoccupante il calo del tasso di occupazione giovanile italiano, che non solo si riduce di quasi sette punti, ma si attesta nel 2019 al di sotto del 42%, un livello distante ben venticinque punti da quello della Germania.

Anche il tasso degli inattivi, con una crescita nel periodo considerato di 8,5 punti, mostra un evidente effetto-scoraggiamento di ampie fasce di popolazione giovanile che rinunciano alla ricerca attiva di un lavoro. Il tasso di inattività è circa venti punti più elevato nel 2019 di quello tedesco, che mostra persino una contrazione di oltre un punto.

Il tasso di disoccupazione giovanile italiano resta pressoché stabile poco al di sopra del 18%, ma è purtroppo pari a quattro volte quello della Germania, che si colloca nel 2019 ad un modesto 4,5%.

Dinamiche e differenze di livello tra Italia e Germania relativamente a questi tassi, si ritrovano anche in riferimento alla classe dei 35 anni e oltre, sebbene di intensità più ridotta rispetto a quanto emerso per la classe 15-34 anni.

Sotto il profilo della posizione nella professione, il trend di lungo periodo dell’occupazione presenta differenze marcate tra le classi di età (tab. 3). In questo caso, i dati evidenziano una periodicità differente, in quanto le statistiche delle forze di lavoro relative alla posizione nella professione sono disponibili solo a partire dal 2004 e dunque l’analisi si sofferma su un arco temporale più ridotto rispetto ai confronti precedenti.

 

Tab. 3 – Evoluzione dell’occupazione in Italia per posizione professionale e classe di età

Elaborazioni Ufficio Studi Confcommercio su dati Istat.
migliaia, var. assolute e var. %
15-34 anni 2004 2019 var. ass. var. %
Dipendenti 5.899 4.327 -1.572 -26,6
Indipendenti 1.735 843 -892 -51,4
Totale 7.634 5.170 -2.464 -32,3
35 anni e oltre 2004 2019 var. ass. var. %
Dipendenti 10.208 13.720 3.512 34,4
Indipendenti 4.521 4.469 -51 -1,1
Totale 14.729 18.189 3.461 23,5
15 anni e oltre 2004 2019 var. ass. var. %
Dipendenti 16.107 18.048 1.940 12,0
Indipendenti 6.255 5.312 -943 -15,1
Totale 22.363 23.360 997 4,5
composizione %
15-34 anni 2004 2019 var. ass.  
Dipendenti 77,3 83,7 6,4  
Indipendenti 22,7 16,3 -6,4  
35 anni e oltre 2004 2019 var. ass.  
Dipendenti 69,3 75,4 6,1  
Indipendenti 30,7 24,6 -6,1  
15 anni e oltre 2004 2019 var. ass.  
Dipendenti 72,0 77,3 5,2  
Indipendenti 28,0 22,7 -5,2  

 

Focalizzando l’attenzione sulla componente giovanile 15-34 anni, si può verificare che negli ultimi quindici anni si è prodotta una contrazione di entità allarmante, corrispondente ad oltre 2 milioni e 400mila unità, cioè sostanzialmente un terzo degli occupati che risultavano del 2004. In termini percentuali, la flessione quasi raddoppia nella componente degli indipendenti (-51,4%), determinando un dimezzamento dei livelli occupazionali del 2004, mentre per la componente alle dipendenze, la riduzione, comunque ragguardevole, è di oltre 1,5 milioni di unità, che si traduce in un -27% circa rispetto al 2004.

Colpisce certamente, nel dettaglio della posizione professionale, la riduzione di quasi 900mila giovani lavoratori indipendenti (imprenditori, liberi professionisti, lavoratori autonomi), quasi ad evidenziare una progressiva perdita di fiducia delle fasce di popolazione giovane nella libertà di intrapresa economica.

Probabilmente, nella valutazione sul “fare impresa” da parte dei giovani, pesano i molti gap strutturali di contesto, mai risolti o attenuati nei decenni, che sinteticamente si traducono in pesanti oneri burocratici e fiscali e ciò pur in presenza di strumenti agevolativi predisposti dal policy maker – in forma talvolta episodica e disorganica – con misure a favore delle start-up e allargamento della platea dei potenziali beneficiari della c.d. fiscalità di vantaggio.

Relativamente alla classe complementare dei 35 anni e oltre, si registra nel periodo 2004-2019 una concentrazione della crescita occupazionale tutta nella componente dipendente (3 milioni e 512mila unità in più, pari al +34,4%, tab. 4), mentre sostanzialmente la componente autonoma dell’occupazione riesce a tenere, al netto di una trascurabile flessione di 51mila unità, cioè il -1,1%.

In termini complessivi, è comunque nella componente giovanile dell’occupazione che si concentra la contrazione subita dai lavoratori indipendenti nell’arco temporale considerato.

Infatti, le dinamiche descritte conducono anche a una ricomposizione delle due componenti per posizione professionale all’interno degli occupati totali per classe di età, con gli indipendenti 15-34 anni che scendono dal 23% circa del 2004 a poco più del 16% del 2019, la riduzione di quota maggiormente elevata.

 

3. L’emigrazione all’estero

Il disagio avvertito dai giovani nel corso della pandemia si aggiunge ad un quadro già complicato dall’incertezza e dalla sfiducia che contraddistinguono le giovani generazioni riguardo le loro aspettative future. Per molti di essi l’Italia è percepita come un Paese dove il mercato del lavoro non offre tutte le condizioni e le opportunità per vedere realizzate e valorizzate le proprie competenze e capacità su cui si è investito.

La scelta di trovare all’estero nuove esperienze occupazionali sembra, perciò, è molto diffusa come può far capire l’andamento del flusso emigratorio che si riscontra negli ultimi anni e che ha assunto dimensioni significative.

I dati della tabella 4 riguardano le iscrizioni (vale a dire i rimpatri dall’estero) e le cancellazioni (vale a dire i trasferimenti all’estero) anagrafiche effettuate nei Comuni dai cittadini italiani di età compresa tra 18 e 39 anni per le variazioni di residenza.

 

Tab. 4 – Flussi migratori di cittadini italiani di età 18-39 anni

Elaborazione USC su dati Istat.
  rimpatri (iscrizioni) espatri (cessazioni) saldo
2009 10.509 20.889 -10.380
2010 10.043 20.452 -10.409
2011 10.857 25.557 -14.700
2012 9.900 33.556 -23.656
2013 9.528 42.342 -32.814
2014 10.231 45.074 -34.843
2015 10.869 51.048 -40.179
2016 14.639 60.788 -46.149
2017 16.473 61.553 -45.080
2018 18.795 63.570 -44.775
2019 25.577 68.063 -42.486
2009-2019 147.421 492.892 -345.471

 

Dal 2009 al 2019 (ultimo anno di cui si dispongono i dati) sono oltre 345mila i cittadini che, al netto di quanti sono rientrati in patria, si sono cancellati dalle anagrafi comunali per trasferirsi all’estero, con una crescita significativa a partire dal 2013.

I flussi di giovani italiani diretti all’estero provengono da tutte le aree del Paese ma, in valore assoluto, il Nord è la ripartizione territoriale dove si registra il numero più elevato di espatri (tab. 5).

 

Tab. 5 – Espatri di cittadini italiani di età 18-39 anni per ripartizione geografica di origine

* i termini Sud, Mezzogiorno e Meridione sono usati in modo intercambiabile e designano sempre le stesse otto regioni (sei continentali e le due isole maggiori).
Elaborazione USC su dati Istat.
  Nord Centro Sud Italia
  espatri espatri/pop. 18-39 (%) espatri espatri/pop. 18-39 (%) espatri espatri/pop. 18-39 (%) espatri espatri/pop. 18-39 (%)
2009 10.950 0,17 3.615 0,13 6.324 0,11 20.889 0,14
2014 21.899 0,40 7.712 0,31 15.463 0,28 45.074 0,34
2019 29.995 0,58 10.350 0,46 27.718 0,57 68.063 0,55

 

In termini relativi rispetto alla popolazione italiana della ripartizione di origine, di età fra 18 e 39 anni, gli espatri dal 2009 al 2019 mostrano un generale aumento del loro peso percentuale che raggiunge il valore massimo pari allo 0,6% nel Nord e nel Sud. Gli effetti delle dinamiche demografiche, la precarietà del mercato del lavoro locale, ma anche la posizione geografica di confine di alcune regioni (ad esempio nel Nord) che facilita i trasferimenti con Paesi limitrofi, sono alla base di questo andamento.

 

4. Sempre meno imprese giovani

Un giovane emigra anche perché realizzare iniziative imprenditoriali autonome si rivela un’operazione complessa e piena di ostacoli.

Nel 2020 le imprese giovanili (ovvero quelle imprese dove la partecipazione al controllo e alla proprietà è detenuta in prevalenza da persone di età inferiore ai 35 anni) che operano nel nostro Paese sono circa 540mila.

La distribuzione sul territorio non è uniforme e registra nel Sud (41,8%) la maggiore concentrazione sostenuta, molto probabilmente, anche da agevolazioni e contributi statali per favorire progetti di autoimprenditorialità in grado di valorizzare le opportunità presenti nei territori del Mezzogiorno.

Rispetto all’universo delle imprese registrate presso le Camere di Commercio nel 2020, quelle giovanili rappresentano l’8,9% del totale: si tratta di una realtà imprenditoriale significativa il cui sviluppo appare determinante per assicurare il ricambio della base produttiva del nostro Paese (tab. 6).

Nel confronto con il 2011 il dato preoccupante che emerge dall’andamento della demografia delle imprese è la riduzione di queste iniziative imprenditoriali. Lo stock delle imprese giovanili, infatti, si è ridimensionato dal 2011 al 2020 di oltre 156mila unità, un risultato che riflette un fenomeno in atto già da tempo che l’impatto della pandemia ha contribuito ad aggravare (tab. 7). Nel complesso nazionale, il calo delle imprese è pari al 22,4%, peggiore di oltre 13 punti percentuali assoluti del calo della popolazione residente tra 18 e 34 anni di età, registrato nello stesso periodo.

Dal punto di vista territoriale le imprese giovanili riducono il proprio numero in tutto il territorio, ma è il Sud a presentare, in termini assoluti, il calo più consistente.

 

Tab. 6 – Imprese registrate giovanili (*) per ripartizione

(*) si considerano Imprese giovanili le imprese la cui partecipazione al controllo e alla proprietà è detenuta in prevalenza da persone di età inferiore ai 35 anni.
Elaborazione USC su dati Movimprese.
  2011 peso % % giovanili su totale imprese 2020 peso % % giovanili su totale imprese
Nord-ovest 164.903 23,6 10,3 126.425 23,4 8,2
Nord-est 109.453 15,7 9,1 82.005 15,2 7,2
Centro 137.315 19,7 10,6 106.629 19,7 8,0
Sud 285.755 41,0 14,2 226.100 41,8 11,0
Italia 697.426 100,0 11,4 541.159 100,0 8,9

 

Tab. 7 – Imprese registrate (totali e giovanili) e popolazione residente 18-34 anni per ripartizione
var. assolute e % var. % 2011-2020

Elaborazione USC su dati Movimprese e Istat.
  var. ass. 2011/2020 var. % 2011/2020 var. % 2011/2020
  imprese giovanili totale imprese imprese giovanili totale imprese popolazione residente 18-34 anni
Nord-ovest -38.478 -54.992 -23,3 -3,4 -4,8
Nord-est -27.448 -60.286 -25,1 -5,0 -5,7
Centro -30.686 29.456 -22,3 2,3 -8,7
Sud -59.655 53.779 -20,9 2,7 -13,7
Italia -156.267 -32.043 -22,4 -0,5 -9,2

 

Tab. 8 – Imprese giovanili e popolazione 18-34 anni
valori %

Elaborazione USC su dati Movimprese e Istat.
  imprese giovanili su popolazione 18-34 anni popolazione 18-34 anni su popolazione totale
  2011 2020 2011 2020
Nord-ovest 5,8 4,7 17,8 16,8
Nord-est 5,3 4,2 18,0 16,9
Centro 6,3 5,4 18,5 16,8
Sud 6,3 5,8 21,7 19,3
Italia 6,0 5,1 19,3 17,7

 

Come emerge dalla tabella 8, rispetto al 2011 gli effetti dei mutamenti demografici hanno ridotto l’incidenza di queste imprese sulla popolazione giovane, rapporto che a livello nazionale passa dal 6,0% al 5,1% del 2020.

 

5. I NEET: capitale umano senza prospettive

Nell’ampia fascia degli inattivi all’interno della popolazione, è di particolare rilevanza ai fini di una corretta valutazione della bontà o del successo delle politiche inclusive che favoriscono l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, concentrare l’attenzione su una specifica categoria, contrassegnata dall’acronimo inglese NEET (Neither in Employment nor in Education and Training), che identifica appunto coloro che si trovano nella condizione di non essere né occupati, né in un percorso di istruzione e/o di formazione professionale, soprattutto in riferimento alle fasce di popolazione giovane.

Sotto questo profilo, assume un valore significativo il confronto tra l’Italia e alcuni Paesi dell’eurozona (tab. 9), scelti sia secondo il criterio delle dimensioni simili (Germania, Francia, Spagna), sia secondo il criterio di una migliore efficienza del mercato del lavoro e dei sistemi di welfare (Danimarca, Olanda e Svezia).

Il periodo per il confronto parte dal 2006, primo anno a partire dal quale risultano disponibili i dati per i confronti-paese e per l’aggregato dell’eurozona (UEM19).

I giovani tra i 15 e i 29 anni di nazionalità italiana presentano, purtroppo, almeno due record negativi nell’ambito dei NEET: nel 2006 condividevano con la Germania il primato di rappresentare la quota più elevata, circa il 23%, degli oltre 8 milioni di NEET dell’eurozona, conquistando però il primato solitario nel 2019, con l’incidenza sul totale dei NEET dell’area euro, ridottisi peraltro nei quasi quindici anni considerati di oltre 1 milione e 200mila unità, salita a quasi il 29%, avendo i NEET italiani superato la soglia dei 2 milioni di unità.

Il secondo record negativo per i NEET italiani è rappresentato dal fatto che l’incidenza di tale segmento rispetto alla popolazione della stessa fascia di età, superiore al 22% nel 2019 e in crescita di quasi tre punti rispetto al 2006 (panel in basso della tabella 9), risulta la più altra tra i Paesi del confronto, quasi doppia rispetto al dato medio dell’eurozona, che nel 2019 si colloca al 12,6%. L’Italia è l’unico tra i grandi Paesi considerati che fa registrare un incremento sensibile (+8,3%) del numero dei NEET 15-29 anni tra il 2006 e il 2019, laddove invece Germania, Francia e Spagna evidenziano flessioni più o meno marcate di questo aggregato sociale, sia in termini assoluti, sia in termini relativi (tab. 9).

 

Tab. 9 – Giovani che non lavorano, non studiano e non seguono corsi di formazione (NEET*)

* neither in Employment nor in Education and Training
Elaborazioni USC su dati Eurostat.

migliaia, var. assolute e var. %
15-29 anni 2006 2019 var. ass. var. %
UEM19 8.173 6.933 -1.240 -15,2
Danimarca 43 107 64 148,8
Germania 1.880 1.018 -862 -45,9
Spagna 1.142 1.070 -72 -6,3
Francia 1.492 1.363 -129 -8,6
Italia 1.850 2.003 153 8,3
Olanda 183 183 0 0,0
Svezia 162 119 -43 -26,5
in % della popolazione della classe di età
15-29 anni 2006 2019 var. ass.  
UEM19 13,6 12,6 -1,0  
Danimarca 4,6 9,6 5,0  
Germania 12,9 7,6 -5,3  
Spagna 12,9 14,9 2,0  
Francia 13,2 12,4 -0,8  
Italia 19,2 22,1 2,9  
Olanda 6,2 5,7 -0,5  
Svezia 9,6 6,3 -3,3  

  

Il fatto che l’Italia vanti il non invidiabile primato dei NEET nell’eurozona, con oltre 2 milioni di giovani tra i 15 e i 29 anni, evidenzia quanto scarsa sia l’attenzione del policy maker nei confronti di un capitale umano lasciato senza prospettive di occupazione e di reddito, in assenza di politiche attive efficaci, dirette all’inserimento dei giovani in programmi quanto meno di istruzione e formazione professionale, finalizzato all’ingresso nel mercato del lavoro e all’ottenimento di un’occupazione stabile retribuita.

È probabile che la scarsa funzionalità di alcuni strumenti, seppur introdotti con lodevoli finalità, derivi da gap informativi sui mismatch tra domanda e offerta del mercato del lavoro italiano. Forse, le competenze relative alle politiche attive per il mercato del lavoro sono frammentate tra un numero eccessivamente elevato di enti/amministrazioni pubbliche a livello centrale e locale e ciò, nella fase di elaborazione dei programmi di sostegno e di inserimento dei giovani nei percorsi occupazionali, potrebbe dar luogo alla definizione di un quadro solo parziale e talvolta non del tutto aderente alle reali esigenze delle imprese.

Sotto questo profilo, più di una suggestione è fornita dalla tabella 10, relativa alle informazioni diffuse dall’Istat con cadenza trimestrale sui posti vacanti per branca di attività economica.

 

Tab. 10 – Posti vacanti per branca di attività economica in Italia
migliaia

Elaborazioni USC su dati Istat.
  2016 2017 2018 2019
Industria e servizi (esclusa P.A.) 149,6 200,6 221,0 244,1
- Industria 36,1 48,4 60,0 61,7
- Servizi 113,5 152,2 161,1 182,4
- Commercio ingrosso, dettaglio e riparazioni 17,7 24,1 26,2 25,3
- Trasporto e magazzinaggio 4,9 8,4 10,6 12,4
- Servizi di alloggio e di ristorazione 22,7 36,9 34,7 42,6
- Servizi di informazione e comunicazione 6,4 8,1 9,1 10,6
- Attività finanziarie e assicurative 3,0 3,9 3,6 3,6
- Attività professionali, scientifiche e tecniche 9,2 7,7 11,0 11,6
- Noleggio, agenzie di viaggio, servizi di supporto alle imprese 7,4 12,5 13,6 14,1
- Istruzione 20,0 19,3 23,0 29,0
- Sanità e assistenza sociale 10,5 19,8 17,6 20,7
- Attività artistiche, sportive, di intrattenimento e divertimento 3,9 4,9 4,4 4,6
- Altre attività di servizi 7,6 6,5 7,1 7,8

 

I dati sono disponibili solo a partire dal 2016 e, secondo quanto riporta l’Istat, si riferiscono alle ricerche di personale che, alla data di riferimento (l’ultimo giorno del trimestre), sono iniziate e non ancora concluse. In altre parole, si tratta di posti di lavoro (intesi come posizioni lavorative) retribuiti (nuovi o già esistenti, purché liberi o in procinto di liberarsi) per i quali il datore di lavoro cerca attivamente al di fuori dell’impresa un candidato adatto ed è disposto a fare sforzi supplementari per trovarlo. Il dato viene diffuso sotto forma di tasso, cioè come rapporto percentuale fra il numero di posti vacanti e la somma di questi ultimi con le posizioni lavorative occupate, ma partendo dai livelli noti di queste ultime è possibile trasformare i tassi in numero di posizioni lavorative vacanti.

Nel complesso, tra il 2016 e il 2019, emerge una crescita continua dei posti di lavoro non occupati per mancanza di competenze/abilità richieste dai datori di lavoro, dai quasi 150mila del 2016 ai circa 245mila del 2019, con l’attesa prevalenza delle branche dei servizi market che, del resto, rappresentano quasi il 60% delle posizioni lavorative del totale dei settori economici. Il commercio, i servizi di alloggio e ristorazione, l’istruzione e la sanità e assistenza sociale, risultano essere i comparti dei servizi dove più numerose appaiono le posizioni lavorative vacanti.

Si tratta di posti di lavoro retribuiti non coperti che, in presenza di strumenti formativi meglio ottimizzati per le esigenze espresse dalle imprese, potrebbero ridurre in misura non trascurabile il numero di giovani in cerca di occupazione o dei giovani che nella loro condizione di NEET, accrescono la numerosità statistica di coloro che fanno parte degli inattivi.

 

6. Transizione demografica e spesa pensionistica italiana

Il processo di cambiamento strutturale del contesto demografico che sta investendo il nostro Paese produrrà effetti particolarmente significativi nei decenni a venire anche sul fronte della composizione della spesa pubblica e della tenuta del patto generazionale.

Tali cambiamenti, che la composizione della popolazione per età ha subito e subirà, determineranno infatti un’inversione secolare del trend dell’indice di dipendenza strutturale, che nel 2041 risulterà superiore al massimo storico raggiunto all’inizio del Novecento, quando tuttavia il peso della popolazione in età non attiva era elevato per la numerosità della popolazione tra 0 e 14 anni.

Le proiezioni che utilizzano il modello della Ragioneria Generale dello Stato (RGS) mostrano un indice di dipendenza dei pensionati – che rappresenta la numerosità dei pensionati rispetto a quella degli occupati nella fascia di età 15-64 anni – in decremento fino al 2025, per effetto sostanzialmente delle riforme pensionistiche adottate tra il 2009 e il 2011 che hanno innalzato l’età pensionabile. Mentre, dal 2025 al 2050 si registra però la risalita di tale rapporto proprio a causa della transizione demografica avversa.

In circa quaranta anni si realizzerà, dunque, la transizione demografica con riduzione della popolazione in età attiva ed incremento di quella in età non attiva: il rapporto tra la popolazione di età maggiore di 65 anni e quella di età 15-64 anni passerebbe dal 31,1% del 2010 al 62,8% del 2050, con successiva convergenza graduale al 61%.

L’interazione tra la transizione demografica, il pensionamento e la scomparsa delle coorti dei baby boomers e il passaggio completo al regime contributivo per il calcolo delle pensioni, avranno una forte incidenza sul rapporto tra spesa pensionistica e PIL.

Le previsioni della RGS e le proiezioni contenute nella Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza (NADEF) 2020 presentano un’incidenza percentuale della spesa per pensioni sul PIL sostanzialmente simile. Il rapporto in argomento si prevede possa registrare dapprima una tendenza crescente fino al 2045 – con un certo incremento dal 2030 al 2040/2045 per il pensionamento con il sistema retributivo delle coorti di baby boomers – per poi ridursi gradualmente sino al 2070, quando lo stesso risulta poco superiore al 13% grazie alla scomparsa delle suddette coorti e il contestuale passaggio a regime del criterio di calcolo contributivo. Questo trend è garantito, ovviamente, dalle riforme pensionistiche messe in campo soprattutto nel 2011 e che vanno quindi salvaguardate per garantire la sostenibilità nel tempo del patto generazionale che è alla base del sistema previdenziale a ripartizione.

Dal 2019 e fino al 2022, il rapporto tra spesa pensionistica e PIL aumenta velocemente, per poi ridursi nei due anni seguenti: la spesa in rapporto al PIL cresce significativamente a causa della forte contrazione dei livelli di PIL dovuti all’impatto dell’emergenza sanitaria che ha colpito l’Italia dal febbraio 2020, ma anche per l’introduzione sperimentale, per gli anni 2019-2021, della misura di pensionamento anticipato c.d. Quota 100, che ha determinato, sebbene in misura inferiore alle previsioni, un incremento del numero di pensioni in rapporto al numero di occupati.

Nel quadriennio 2026-2029 si assisterebbe a un lieve declino, anche per un parziale recupero dei livelli occupazionali, con ripresa del rapporto tra spesa pensionistica e PIL che si incrementa fino al 2044. Tale dinamica è essenzialmente dovuta all’aumento del rapporto fra numero di pensioni e numero di occupati indotto proprio dalla transizione demografica, solo parzialmente compensato dall’innalzamento dei requisiti minimi di accesso al pensionamento, che risulta ben superiore all’effetto di contenimento degli importi pensionistici esercitato dalla graduale applicazione del sistema di calcolo contributivo sull’intera vita lavorativa.

A partire dal 2045, il rapporto scende rapidamente, arrivando a poco più del 13% nel 2070. Tale rapida riduzione del rapporto fra spesa pensionistica e PIL è determinata dall’applicazione generalizzata del calcolo contributivo che si accompagna alla stabilizzazione, e successiva inversione di tendenza, del rapporto fra numero di pensioni e numero di occupati, per la progressiva uscita delle generazioni del baby boom sia degli effetti dell’adeguamento automatico dei requisiti minimi di pensionamento in funzione della speranza di vita.

Dall’ultimo rapporto pubblicato dal Centro Studi e Ricerche di Itinerari Previdenziali (Rapporto n. 8/2021 - Il bilancio del sistema previdenziale italiano), emerge che nell’anno 2019 la spesa totale per prestazioni previdenziali del sistema obbligatorio è risultata pari a 230,3 miliardi di euro (+2,07% rispetto al 2018) a fronte di entrate per contributi pari a 209,4 miliardi di euro.

Nel 2019, dunque, il saldo tra le entrate contributive e la spesa per pensioni è risultato negativo per 20,9 miliardi di euro (20,8 milioni, nel 2018), che raggiungono i 58,6 miliardi di euro ricomprendendo anche la quota assistenziale finanziata con la GIAS (gestione degli interventi assistenziali).

La spesa per il welfare assorbe oggi circa il 56% dell’intera spesa pubblica a dimostrazione di un sistema particolarmente sbilanciato sulle prestazioni rivolte alle fasce di età più anziane piuttosto che a quelle più giovani e in età da lavoro. Il calo atteso della parte economicamente attiva della popolazione fa quindi emergere, oltre alle problematiche descritte nei paragrafi precedenti, anche il tema della sostenibilità di un sistema pensionistico, ad oggi fondato sullo schema a ripartizione, e più in generale della sostenibilità del sistema di protezione sociale nel suo complesso e del patto generazionale che ne è alla base. In questo senso il mix tra capitalizzazione individuale e ripartizione è la strada obbligata per garantire una tenuta di lungo periodo del welfare state, con il pilastro pubblico obbligatorio ed il pilastro complementare sempre più connessi ed orientati a garantire, insieme, più adeguati livelli di copertura.

Sottovalutare queste problematiche – cedendo alla tentazione di misure ancora una volta tese all’aumento della spesa pensionistica – significa mettere a rischio la tenuta del sistema, scaricando sulle coorti più giovani un peso che non potranno sostenere, ed innescando un processo irreversibile e sempre più simile ad uno “schema Ponzi” che prima o poi presenta inevitabilmente il conto.

 

7. I redditi d’ingresso nel mondo del lavoro: la “generazione mille euro”

Una delle questioni più importanti, se non la più importante, che è emersa quanto meno negli ultimi vent’anni relativamente alle difficoltà dei giovani di inserirsi nel mondo del lavoro, è quella della retribuzione o, più in generale, considerando non solo la componente dei lavoratori dipendenti, quella del reddito d’ingresso.

Nella letteratura economica il tema è stato trattato con ampia evidenza empirica[3] e, come sottolineato nel contributo di Naticchioni et al. (2014), non si tratta di una specificità al negativo solo italiana, in quanto da più parti in Europa si è concordi “…nell’enfatizzare le condizioni sfavorevoli delle giovani generazioni nel mercato del lavoro, sia rispetto agli adulti e agli anziani, sia rispetto ai giovani delle precedenti generazioni, tanto da riferirsi sovente ai più giovani con termini quali generazione sacrificata, generazione zero, generazione 1.000 euro. Il Financial Times ha recentemente parlato di ‘lost generation’ per sottolineare la forte caduta dei salari dei più giovani rispetto alle generazioni precedenti”.

Per altro verso, molte narrazioni, talvolta superficiali, stigmatizzano il mancato o problematico adattamento dei giovani al mercato del lavoro collegandolo alla mancanza di qualifiche adatte o al rifiuto di retribuzioni diverse da quelle pretese.

Non c’è dubbio, che in termini di retribuzione oraria lorda, esista un gap consistente tra i livelli italiani e quelli dei nostri principali partner dell’Unione, tale da giustificare forme di riluttanza ad accettare un primo impiego da parte dei giovani: dati Eurostat riferiti al 2018, segnalano un livello di retribuzione lorda oraria di 15,6 euro in Italia, rispetto ai 18 della Francia, i 19,7 della Germania, gli oltre 20 di Belgio, Irlanda, Finlandia e Svezia, ma soprattutto i circa 30 della Danimarca. Eventuali differenze nel costo medio della vita tra i diversi Paesi non possono spiegare completamente questi divari.

È di qualche utilità una semplice statistica descrittiva desunta dalle indagini della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie italiane.

Si tratta di serie storiche lunghe, con dati disponibili dal 1977 al 2016, diffusi con cadenza biennale, ragione per la quale dopo il rilascio del 2018 – riferito appunto al 2016 – lo shock imprevedibile della pandemia del 2020 ha impedito la pubblicazione del consueto aggiornamento, che avrebbe allungato la serie al 2018.

Dal set informativo della Banca d’Italia (tab. 11) emergono significative differenze tra il reddito d’ingresso dei lavoratori sino a 30 anni di età (sia dipendenti, sia indipendenti) e la fascia Prime-age, corrispondente appunto ai lavoratori in età tra i 51 e i 65 anni, ossia la fascia di età in cui si raggiunge il picco retributivo.

Il confronto sui livelli retributivi è stato effettuato esprimendo i valori storici del 1977 ai prezzi del 2016, in modo da escludere totalmente la distorsione provocata dalla variazione cumulata nel tempo del livello dei prezzi, verificando esclusivamente il potere d’acquisto dei redditi da lavoro.

 

Tab. 11 – Reddito d’ingresso al netto di imposte e contributi per età del percettore e posizione nella professione
euro a prezzi 2016

Elaborazioni USC su dati Banca d’Italia.
  fino a 30 anni da 51 a 65 anni (fascia Prime-age)
  Lavoratore dipendente (a) Lavoratore indipendente (b) Lavoratore dipendente (c) Lavoratore indipendente (d)
1977 15.160 17.806 18.987 22.512
2016 14.017 10.494 20.047 22.163
var. ass. -1.143 -7.312 1.060 -349
var. % -7,5 -41,1 5,6 -1,6
gap reddituale: [(a)-(c)]/(c)*100 e [(b)-(d)]/(d)*100
1977 -20,2 -20,9 0,0 0,0
2016 -30,1 -52,7 0,0 0,0

 

La tabella 11 evidenzia due evoluzioni in negativo.

In primo luogo, i giovani fino a 30 anni di età, sia nell’ambito del lavoro dipendente, sia nell’ambito del lavoro autonomo, accusano nell’arco di circa quarant’anni, una riduzione del potere d’acquisto dei propri redditi da lavoro. Più contenuta, circa 1.100 euro, corrispondente al -7,5% nel caso dei dipendenti, ma nettamente più elevata, oltre 7.300 euro, cioè una flessione di oltre il 41%, nel caso dei lavoratori indipendenti.

In secondo luogo, la classe di età fino a 30 anni, vede accrescersi nel periodo considerato il gap reddituale rispetto ai lavoratori Prime-age, sia dipendenti, sia indipendenti.

Questi ultimi, infatti, incrementano il proprio reddito reale di poco più di mille euro (+5,6%) se dipendenti, mentre si limitano a mantenerlo sostanzialmente costante nel caso degli indipendenti, che registrano una riduzione trascurabile di circa 350 euro (-1,6%).

Ne consegue che il gap dei lavoratori giovani rispetto ai Prime-age, peggiora in misura consistente: per i lavoratori dipendenti il reddito da lavoro risulta inferiore di oltre il 30% nel 2016 a quello dei Prime, accrescendosi il divario di circa dieci punti percentuali

Ben più allarmanti le indicazioni per i lavoratori indipendenti, il cui gap in termini di minor reddito rispetto ai Prime passa da circa il 21% a quasi il 53%.

Non c’è dubbio che si tratti di segnali importanti di una situazione di progressivo deterioramento delle condizioni in cui opera il lavoro autonomo, sempre meno in grado di assicurare alle giovani generazioni livelli di reddito accettabili.

Non si può trascurare di sottolineare, infatti, che se ancora nel 1977 il reddito da lavoro di un giovane autonomo risultava superiore di oltre il 17% rispetto a quello del suo pari età dipendente, le dinamiche di lungo periodo hanno portato nel 2016 ad un’inversione, con il reddito dal lavoro autonomo dei giovani inferiore di circa 3.500 euro a quello dei pari età dipendenti, ossia il 25% in meno, una contrazione di elevata intensità in termini di potere d’acquisto.

 

8. La socialità negata (per nobili ragioni) durante la pandemia

La già difficile condizione giovanile in Italia è peggiorata nel 2020. I giovani sono stati i più colpiti nella loro vita sociale (anche a prescindere dai guasti patiti dal sistema dell’istruzione, che non è oggetto di questa nota).

In occasione dell’indagine Censis-Confcommercio “Clima di fiducia e aspettative delle famiglie italiane 2021”, realizzata nella scorsa primavera, sono state rivolte, nella seconda parte di aprile, ai responsabili degli acquisti di 1.000 famiglie di età pari o superiore a 18 anni, alcune domande su comportamenti e attese delle famiglie durante la pandemia.

Esaminando le risposte del totale degli intervistati emergono alcune indicazioni interessanti su cosa è mancato di più durante il periodo della pandemia. Le diverse fasi di confinamento domestico o di limitazione agli spostamenti e all’utilizzo di determinati servizi, oltre a determinare impatti di varia natura e intensità sull’economia delle famiglie, hanno comportato rinunce e modifiche comportamentali.

Come era facilmente prevedibile, quello di cui si è maggiormente sentita la mancanza è la libertà di incontrare amici e parenti (punteggio medio di 8,2 in un range da 1, minimo disagio, a 10, massimo disagio; prima colonna della tabella 12) seguita dalla possibilità di viaggiare (punteggio medio 7,3) a cui si aggiungono le gite fuori-porta nei fine settimana (6,9). Sostanzialmente tutto ciò che è riconducibile alla libertà di impiegare il proprio tempo libero nel modo preferito.

Tra le tipologie di esercizi/servizi la cui chiusura è pesata di più per la popolazione, si segnalano bar e ristoranti (6,3) seguiti da musei e altri luoghi di cultura (6,2) e cinema, teatri, eventi concertistici (6,0). La rinuncia all’attività sportiva è stata “dolorosa” più o meno come l’impossibilità di praticare lo shopping e accedere ai servizi di cura della persona come estetisti, parrucchieri e barbieri (dal 5,3 al 5,6). Voti decisamente più bassi per l’impossibilità di recarsi sul luogo di lavoro (3,2) e di frequentare locali notturni e sale da ballo (2,7).

Un ulteriore elemento di interesse rilevato dall’indagine sono le differenze generazionali nella percezione delle difficoltà che la pandemia ci ha imposto (ultime tre colonne della tabella 12). Il rating da 1 a 10 su quanto si è sentita la mancanza di diverse occasioni di socializzazione è stato, infatti, applicato agli intervistati suddivisi in tre classi di età. La prima fascia comprende gli intervistati dai 18 ai 44 anni, un intervallo ampio che non individua propriamente la fascia giovanile, ma da cui si possono trarre comunque indicazioni interessanti sugli effetti della pandemia sui comportamenti delle generazioni più giovani.

Come si vede, l’impedimento a poter vivere momenti di socializzazione è stato molto più gravoso per i giovani che per gli anziani con scarti molto significativi. Se pensiamo che le interviste riguardano i responsabili degli acquisti che devono comunque avere più di 18 anni, si ha contezza delle profonde differenze che i lockdown hanno prodotto sul sentiment dei cittadini.

 

Tab. 12 – Che cosa è mancato di più alle famiglie durante la pandemia
In generale, dall’inizio delle misure di distanziamento sociale, quale tra le seguenti cose le è mancata di più? (media dei punteggi da 1 a 10, 1 minima mancanza, 10 massima mancanza)

Elaborazioni USC su Outlook Censis-Confcommercio, maggio 2021.
    classe di età
  totale 18-44 45-64 65 e +
Incontrare amici/parenti 8,2 8,1 8,7 7,8
Viaggiare 7,3 7,9 7,7 6,3
Le gite e i week-end fuori porta 6,9 8,0 7,5 5,4
Le passeggiate in centro e/o nei parchi 6,6 7,5 6,9 5,7
Cene (ristoranti/pizzerie) e aperitivi 6,3 7,4 6,6 5,1
Visitare musei/mostre/luoghi di cultura 6,2 6,5 6,6 5,6
Frequentare cinema, teatro, concerti 6,0 6,7 6,4 4,9
Parrucchiere/estetista/barbiere 5,6 6,1 5,7 5,2
L’attività sportiva 5,4 6,1 5,9 4,2
Lo shopping (negozi, centri commerciali) 5,3 6,0 5,4 4,7
La partecipazione a cerimonie e riti religiosi 4,9 4,7 5,0 4,8
La colazione al bar 4,6 5,7 4,7 3,7
Eventi sportivi (calcio e altri sport) 3,9 4,8 4,2 2,9
Recarmi fisicamente al lavoro 3,2 4,6 3,6 1,7
I locali notturni, le discoteche 2,7 4,2 2,7 1,5

 

Questo risultato, forse scontato al punto da essere completamente trascurato dal dibattito pubblico, fa apprezzare ancora di più lo sforzo eccezionale che hanno fatto i giovani durante la pandemia a rispettare tutte le misure di contenimento alla diffusione del coronavirus.

Se l’impossibilità di incontrare amici e parenti è stata vissuta dalle fasce di età più giovani in linea con il dato medio, alcune voci mostrano invece scarti significativi. Ad esempio, la mancata frequenza di locali notturni e discoteche, pur essendo all’ultimo posto nella graduatoria, è stata vissuta dai giovani con maggior sacrificio rispetto alle fasce di età più adulte (4,2 contro 2,7 nel range da 1 a 10). Analoga considerazione vale per le passeggiate, le cene e gli aperitivi fuori casa e la partecipazione a eventi sportivi.

Al di là delle tante rinunce che in diversa misura hanno colpito tutta la popolazione e i giovani in particolare, è interessante quello che emerge dall’indagine riguardo alle opinioni su quali siano state le fasce d’età maggiormente penalizzate dalla pandemia.

Rafforzando quanto già rilevato nella tabella precedente, secondo gli intervistati la situazione emergenziale che si è venuta a determinare da un anno a questa parte ha visto tra gli “sconfitti” prima di tutto i più giovani, categoria indicata da circa il 46% delle risposte (tab. 13).

Esaminando i giudizi espressi sulla base della classe di età dei rispondenti, emerge una sorta di solidarietà genitori-figli. Per i più giovani, l’attenzione è verso la classe di età nel pieno dell’attività lavorativa, cioè 45-64 (48,1%); per l’età pienamente lavorativa, l’attenzione non è affatto su di sé, anzi, ma è verso i giovani (54,4%); probabilmente madri e padri, figlie e figli, soffrono più delle sofferenze dei congiunti che direttamente delle proprie.

È verosimile che questo dato sia riconducibile al fatto che le famiglie hanno “toccato con mano” le difficoltà e lo spaesamento dei loro figli nel doversi adattare alla didattica a distanza e all’intermittente ritorno in aula, nell’impossibilità di socializzare con i coetanei, nelle limitazioni alla pratica sportiva.

Pochi si concentrano sulle difficoltà degli anziani (a ben guardare neppure gli anziani stessi). Infatti solo il 12,8% del campione li ritiene i più penalizzati.

 

Tab. 13 – La percezione dei cittadini più penalizzati per fasce d’età
Secondo lei, nel complesso, quali sono le classi d’età maggiormente penalizzate dalla situazione emergenziale che stiamo vivendo?

Elaborazioni USC su Outlook Censis-Confcommercio, maggio 2021.
    classe di età
  totale 18-44 45-64 65 e +
giovani 45,8 40,6 54,4 39,7
popolazione in età lavorativa 41,4 48,1 33,8 45,3
anziani 12,8 11,3 11,8 15,0
totale 100,0 100,0 100,0 100,0

 

Si tratta di un risultato molto forte, considerando che gli anziani sono stati le principali vittime – in senso proprio – della pandemia e hanno dovuto subire un fortissimo confinamento domestico, avendo tra l’altro più difficoltà nell’organizzarsi una “vita in digitale” là dove era l’unica possibilità in essere.

Consulta anche il sito dei Giovani Imprenditori di Confcommercio

[1] Esistono delle correlazioni evidenti tra tasso di fecondità totale (TFT) e PIL reale pro capite, con quest’ultimo proxy sintetica di una serie di aspetti che possono condizionare le decisioni personali in materia di procreazione, qualora dipendenti da disponibilità reddituali più o meno elevate (ad esempio, in termini di aspettative adattive, la crescita passata del reddito personale può influenzare le scelte sulla dimensione familiare, così come la capacità di mantenere stabilmente un rapporto di lavoro come fonte di reddito futuro o, ancora, la possibilità di non costringere la donna al trade-off tra lavoro/reddito e maternità/cure parentali a seconda che il livello personale del reddito sia sufficientemente elevato da consentire di pagare per servizi come gli asili nido, la scuola materna e/o altre forme di supporto per la cura dei figli acquistabili sul mercato perché non garantite dal sistema di welfare pubblico).
[2] Si tratta di rapporti caratteristici che esprimono popolazione attiva (forze di lavoro, come somma di occupati e disoccupati), occupati e popolazione inattiva in percentuale della popolazione di riferimento in termini di classe di età. Il tasso di disoccupazione, invece, è espresso dalle persone in cerca di occupazione in percentuale della popolazione attiva (forze di lavoro), sempre in termini di classe di età.
[3] Ci limitiamo a segnalare due contributi sul tema: A. Rosolia e R. Torrini (2016), The generation gap: a cohort analysis of earnings levels, dispersion and initial labor market conditions in Italy, 1974-2014, in Banca d’Italia, QEF, N. 366 e P. Naticchioni et al. (2014), La Meglio Gioventù: Earnings Gaps across Generations and Skills in Italy, in IZA DP No. 8140.

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