Roadshow PMI: Il roadshow arriva a Trento

Roadshow PMI: Il roadshow arriva a Trento

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3 aprile 2009

Cari Amici,
questa tappa di Trento si inserisce nel programma più generale del road-show territoriale promosso da Confcommercio per presentare il suo Manifesto delle PMI.

Sulla scorta dello Small Business Act europeo, ossia dell’atto d’indirizzo comunitario che ha riconosciuto il ruolo propulsivo delle PMI e la necessità di politiche ad esse dedicate, abbiamo infatti pensato che fosse giusto aprire proprio in Italia una grande discussione, pubblica e partecipata, sulla risorsa PMI.

Proprio in Italia – dicevo – perché, a buon diritto, il nostro Paese può essere considerato “patria” per eccellenza delle PMI.

Queste imprese, infatti, costituiscono il 95% della sua struttura produttiva, contribuiscono alla formazione del valore aggiunto per oltre il 70%, ed all’occupazione per oltre l’80%.

Queste imprese sono, dunque, una grande risorsa del Paese. Una risorsa che merita di essere coltivata, se si vuole efficacemente contrastare la crisi e tornare rapidamente a crescere.

Insomma, parafrasando una nota affermazione, penso che oggi si possa davvero dire che ciò che è utile alle PMI è utile al Paese.

Perché le politiche utili alle PMI non sono le politiche da “riserva indiana”. Al contrario, le PMI chiedono di potere competere ad armi pari e di crescere.

E’ questa, del resto, la lezione migliore che possiamo trarre dalla storia dei processi di sviluppo territoriale del nostro Paese e, in particolare, dalla storia del processo di sviluppo territoriale del Nord-Est.

Dalla storia – voglio dire – dei silenziosi mutamenti di pelle del sistema produttivo e della crescente integrazione tra sistema manifatturiero e sistema dei servizi.

Dalle tante storie di successo – ancora – delle multinazionali tascabili, dei distretti e delle reti d’impresa.

Storie di successo alla cui base vi è sempre il “lievito” fortissimo di un capitale sociale che riconosce il valore del lavoro, della voglia di fare impresa, delle relazioni cooperative e fiduciarie fra tutti gli attori dello sviluppo territoriale.

Lo ricordo non per fare l’elogio retorico di quel che è fin qui stato.

Al contrario, lo ricordo perché penso che da questi fondamentali bisogna ripartire e su questi fondamentali occorre investire – in termini di politiche e di risorse – per affrontare l’emergenza e per essere pronti alla ripresa, nel momento in cui la congiuntura internazionale migliorerà.

Perché è esattamente questo ciò che occorre all’Italia: un Paese che, per fortuna, non ha coltivato il modello della crescita a debito, cioè il modello che è saltato sotto i colpi della “tempesta perfetta” che si è abbattuta su mercati finanziari con regole davvero troppo deboli; un Paese, d’altra parte, che viene da anni di crescita lenta, lentissima, causati da ritardi strutturali di lungo periodo.

Questa è, insomma, la nostra analisi dello stato di salute del Paese, entro ed oltre il perimetro della crisi.

Un’analisi da cui discende una terapia conseguente, che abbiamo provato a sintetizzare sotto il titolo di un patto per la fiducia, un patto per dare più fiducia al Paese: oggi e domani.

Oggi, dando più fiducia alle famiglie: sia non lasciando solo e senza protezioni chi, purtroppo, dovesse perdere il posto di lavoro; sia sostenendo i consumi attraverso riduzioni di pressione fiscale sui redditi medio-bassi, compatibili con gli equilibri difficili della finanza pubblica.

Oggi, dando più fiducia alle imprese:  contrastando il rischio della stretta creditizia e rafforzando gli strumenti di garanzia, dal fondo centrale di garanzia ai consorzi fidi; accelerando i tempi di pagamento delle pubbliche amministrazioni; mobilitando la spesa per infrastrutture locali immediatamente cantierabili; assicurando un’equa rivisitazione dei parametri degli studi di settore alla luce della crisi e dei suoi sviluppi.

Oggi e domani, dando più fiducia alle famiglie ed alle imprese: facendo avanzare tutto il cantiere delle riforme strutturali di cui l’Italia ha più che mai bisogno.

Dalla riforma della pubblica amministrazione a quella della struttura della spesa pubblica, anche con la costruzione di un federalismo fiscale responsabile e pro-competitivo.

Così come – per venire al tema posto al centro di questo nostro incontro – con la riforma della scuola, dell’università, della formazione, necessaria per sostenere, nel nostro Paese, valorizzazione del capitale umano e dell’innovazione, anche e soprattutto nelle PMI.

Per questo, nel nostro Manifesto, abbiamo chiesto un’opzione forte tanto per gli investimenti in infrastrutture, quanto “per il potenziamento – cito testualmente – del capitale umano, con un sistema educativo e formativo che riconosca ed apprezzi merito e responsabilità, per irrobustire i fondamentali della crescita e dell’occupazione”.

Non vi è, infatti, dubbio alcuno sulla relazione fortissima e positiva che intercorre tra accumulazione di esperienze e competenze e crescita economica.

D’altra parte, altrettanto indubbio è che le comparazioni statistiche internazionali segnalano la necessità di forti incrementi qualitativi e quantitativi dei risultati del nostro sistema educativo e formativo.

Mentre le PMI – ed è un punto che emerge con chiarezza anche dall’indagine che oggi abbiamo presentato – considerano la qualità delle risorse umane il patrimonio più prezioso dell’impresa.

Se guardiamo, poi, all’innovazione, nelle comparazioni europee, l’Italia si colloca nel gruppo dei Paesi ad innovazione “moderata”, con risultati complessivi inferiori alla media dell’Europa a 27.

Insomma, anche nel nostro Paese, non mancano buone pratiche, buoni risultati ed “eccellenze”. Non mancano né buoni docenti, né bravi studenti.

Ma –  vista nel suo complesso  – la situazione dice che il sistema si è inceppato: tra il 2000 ed il 2006, ad esempio, si è ridotto drasticamente il numero di quindicenni italiani con capacità di lettura elevate; atenei e business-school spagnole svettano nelle graduatorie internazionali, mentre sono davvero troppo rare le presenze delle università italiane nelle fasce alte di queste classifiche.

Perché, allora, il sistema si è inceppato? Forse per un problema di risorse?

Certo, anche per questo. Perché sarebbe bene, in ogni caso, che si facesse di più – sia sul versante pubblico che su quello dell’iniziativa dei privati – per la scuola e per l’università, per la formazione continua, per la ricerca e per l’innovazione.

Ma -  ancor prima e tenendo conto tanto dei “chiari di luna” della finanza pubblica, quanto delle difficoltà delle imprese – è doveroso chiedersi se, intanto, le risorse che ci sono sono impiegate al meglio.

Se, in altri termini, con una migliore organizzazione del sistema educativo e formativo non sia possibile farle fruttare di più e meglio.

Noi pensiamo che sia così.

Pensiamo, ad esempio, che sia possibile, nella scuola, riequilibrare il rapporto tra alunni ed insegnanti senza che ciò vada a discapito della qualità.

Pensiamo che sia doveroso, nell’università, bloccare la proliferazione di sedi distaccate e di fantasiosi corsi di laurea, che poco o nulla hanno a che fare con il mondo del lavoro e dell’impresa e con le prospettive del Paese.

Pensiamo, soprattutto, che occorra – per la scuola, per l’università, per la formazione e per il Paese tutto – una “rivoluzione” copernicana per la responsabilità, il merito ed il talento.

Quella – a noi sembra – per cui si sta generosamente impegnando il Ministro Gelmini.

Una “rivoluzione”, insomma, che metta la parola “fine” ad una lunga stagione della storia italiana in cui si è affievolito il principio della responsabilità individuale e collettiva e, conseguentemente, quello del riconoscimento e del premio del merito e del talento.

Possiamo farlo, dobbiamo farlo. Con il contributo di tutti: della politica tutta e di tutte le forze sociali. Sapendo che ciascuno deve fare la propria parte e che ciascuno può arricchire il risultato finale.

Anche qui, insomma, si tratta di riscrivere le “regole del gioco”. Anche qui, insomma, si tratta di lavorare sui fondamentali del sistema-Paese. Farlo con spirito “costituente”, sarebbe allora davvero prezioso.

Ma bisogna procedere con determinazione ed urgenza, senza veti incrociati e senza interdizioni reciproche.

Perché non possiamo davvero più permetterci un’Italia che arranca in un mondo che corre.

Quanto all’innovazione, voglio sottolineare due questioni specifiche.

Dobbiamo lavorare –  nell’Italia patria delle PMI – perché sia reso più fluido il circuito tra ricerca, innovazione e PMI.

E’ un terreno sul quale la collaborazione tra università, agenzie di ricerca ed innovazione, camere di commercio ed associazioni imprenditoriali – supportata dall’azione delle istituzioni centrali e territoriali -  può fare la differenza.

Ma è un’azione che non deve procedere in ordine sparso. E’ un’azione che deve assumere la forma e la sostanza di un grande progetto strategico del Paese.

In questo 2009 – che è anche l’anno europeo della creatività e dell’innovazione – l’Italia si meriterebbe davvero, per il lancio di una simile iniziativa, la convocazione dei suoi “stati generali” per l’innovazione.

Ancora sull’innovazione. E’ un’esigenza che taglia trasversalmente tutto il sistema produttivo. E’un’esigenza che avverte particolarmente quel mondo dei servizi, che Confcommercio rappresenta e che, già oggi, contribuisce per ben più del 40% alla formazione del PIL e dell’occupazione.

Ed è soprattutto da questo mondo dei servizi che, nel futuro prossimo, potrà venire, nel nostro Paese, maggior crescita e maggiore occupazione.

Perché, allora, non puntare sul rafforzamento della produttività dei servizi attraverso il sostegno della loro innovazione: innovazione tecnologica ed organizzativa, innovazione di formato e, appunto, di servizio al cittadino/consumatore?

Per far questo, occorre però superare l’idea – ancora così forte nella politica economica del nostro Paese – secondo cui l’innovazione è un concetto che riguarda anzitutto il sistema manifatturiero, e solo marginalmente e residualmente  il sistema dei servizi.

Idea smentita da quanto è avvenuto ed ancora avviene nei Paesi che crescono di più, ma – lo ripeto – straordinariamente resistente.

Come noto, il principale programma di sostegno all’innovazione è stato denominato, nel nostro Paese, “Industria 2015”.

Non abbiamo nulla contro l’innovazione nel sistema industriale, e certo non ne facciamo una questione di nomi ed etichette.

Ma, insomma, “nomen omen…”.

Per cui la dirò così: non è arrivato il tempo che al programma “Industria 2015” si affianchi un programma “Servizi 2020”?

Secondo noi, il tempo è arrivato. Prenderne atto sarebbe un contributo importante per iniziare a costruire, fin da oggi, l’Italia che verrà come un’Italia più ambiziosa, più competitiva, più giusta.

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