Il testo integrale dell'intervento di Sergio Billè

Il testo integrale dell'intervento di Sergio Billè

P:01 D:20-2-2003

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20 febbraio 2003
Credo che si debba dare atto alla nostra confederazione di aver sempre affrontato, con equilibrio, senso di responsabilità e lungimiranza i problemi che, in questi anni, si sono via via posti per un sostanziale rispetto delle norme dello Statuto dei lavo

Credo che si debba dare atto alla nostra confederazione di aver sempre affrontato, con equilibrio, senso di responsabilità e lungimiranza i problemi che, in questi anni, si sono via via posti per quanto riguarda i rapporti di lavoro e l'applicazione delle norme dello Statuto dei lavoratori.

E vengo al punto, cioè a questo referendum, che propone di estendere anche alle piccole imprese fino a 15 dipendenti l’obbligatorietà del reintegro del lavoratore licenziato senza giusta causa.

Ci sembra una proposta di riforma irricevibile e inaccettabile ed è questa la ragione per la quale abbiamo deciso di scendere in campo con iniziative che impegneranno fin da ora tutte le nostre strutture territoriali ma di dare anche il nostro massimo contributo per la creazione di un fronte del no che coinvolga tutte le altre rappresentanze imprenditoriali.

Sarà, insomma, un "NO DAY" chiaro e tondo, una mobilitazione convinta e più che motivata contro un referendum che tende solo a scardinare proprio quella parte del sistema produttivo che oggi appare in grado di produrre nuovi posti di lavoro.

Le nostre idee sono  oggi ampiamente condivise e questo conferma la validità di questa nostra iniziativa. Ma è anche indispensabile che tutti coloro che saranno chiamati a votare per questo referendum conoscano, per tempo,  le ragioni di fondo che motivano il nostro no ad un referendum  che, se venisse approvato, causerebbe danni irreparabili ad una delle parti più produttive del nostro sistema imprenditoriale.

Sul fatto che lo Statuto dei lavoratori  abbia bisogno di una revisione e di un sostanziale aggiornamento che lo renda più compatibile con le esigenze di un assetto sociale ed economico che, rispetto a 30 anni fa, ha subito una rivoluzione quasi copernicana, credo che tutti, anche i sindacati, siano sostanzialmente d’accordo.

Ma questa revisione non può essere fatta in modo  frammentario, a pezzi e bocconi, dando un colpo alla botte e uno al cerchio, sul filo della pura demagogia. Al contrario dovrà essere il risultato, il traguardo, la logica conclusione di un serrato e aperto confronto tra le parti sociali che consenta di meglio conciliare, nel contesto dell'economia globale, l’esigenza di una maggiore competitività del sistema con quella dello sviluppo e della salvaguardia dei diritti e delle garanzie dei lavoratori.

Non è certo un problema che si possa risolvere in momenti di grave emergenza come quello che stiamo purtroppo vivendo, ma è anche importante che queste continue emergenze non finiscano per sfilacciare il confronto e finire col diventare un alibi per non affrontare un problema che ormai è giunto a maturazione e, per questo, non può essere a lungo rinviabile.

E credo che, proprio partendo  da questo assunto, gran parte delle strutture  sindacali si sono guardate bene dal sottoscrivere un referendum che pretende  di cancellare una parte fondamentale dello Statuto dei lavoratori senza per altro avanzare proposte  alternative che possano consentire al sistema delle piccole imprese non solo di continuare ad essere competitive ma di poter puntare allo sviluppo del mercato e quindi dell’occupazione.

Anche le prime iniziative di carattere legislativo non appaiono né congrue né convincenti. In una di esse, ad esempio, si propone  che, per compensare le disastrose conseguenze che avrebbe  la riforma di questa parte dello Statuto dei lavoratori, venga decisa, in parallelo, una congrua riduzione del carico fiscale oggi esistente su questo tipo di imprese.

Proposta a dir poco lunare, perché dove si potrebbero trovare oggi i cospicui fondi necessari per una simile compensazione?

La verità è che anche gran parte dell’opposizione, di fronte a questa sciagurata proposta demolitrice, appare imbarazzata e anche i sindacati sembrano aver deciso una pausa di riflessione.

Alcune parti politiche vorrebbero aggirare l’ostacolo  ricorrendo allo strumento legislativo. E noi siamo pronti a lasciare la porta aperta ad ogni tipo di confronto politico anche se temiamo  che una soluzione legislativa, almeno allo stato delle cose, sia difficile, quasi come una quadratura del cerchio.

Con un rischio ulteriore: quello che tutto finisca  inevitabilmente nell'invaso di  una crisi internazionale della quale oggi è difficile, forse impossibile prevedere latitudini, durata e conseguenze sul sistema economico.

E c’è da aggiungere un’altra e, credo, non irrilevante considerazione.   

La stragrande maggioranza delle forze politiche di qualsiasi colore politico e molte delle strutture sindacali non hanno assunto alcuna iniziativa quando tre sentenze della Corte Costituzionale e trenta della Cassazione hanno ribadito, a chiare lettere, la validità di quelle norme contenute nell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori che prevedono un regime differenziato tra grandi e piccole imprese per quanto riguarda il reintegro del dipendente licenziato senza giusta causa. 

E vediamole queste sentenze della Corte Costituzionale. “La disciplina differenziata, ha detto la Corte nel 1974, ha fondamento non solo perché tiene conto del rapporto fiduciario che, nelle piccole imprese, esiste tra datore di lavoro e dipendente, ma anche dell’opportunità di non gravare con oneri eccessivi sull’attività delle imprese di modeste dimensioni  salvaguardando così la funzionalità delle loro unità produttive”. E  la stessa Corte nel 1986: ”il differente regime differenziato di tutela risponde a ragioni di ordine economico e sociale: imporre ad una piccola impresa il reintegro del lavoratore licenziato, anziché il risarcimento, equivale non solo a minarne la capacità economica ma, soprattutto, a modificare, anzi, nella maggior parte dei casi, a peggiorare, la qualità del lavoro e le capacità competitive di queste aziende".

Aggiungo, a conforto di queste tesi ribadite anche, in più occasioni, dalla Corte di Cassazione, alcuni dati di fatto.

Nelle microimprese, quelle con meno di 10 addetti, si concentra il 48,5% dell’occupazione, il 24,2% dei lavoratori dipendenti, il 30,3% del fatturato globale e il 32,3% del valore aggiunto. Il 67,7% dell’occupazione in questo segmento è costituita, invece, da lavoro indipendente. All’opposto, le imprese di maggiori dimensioni (quelle con 100 e più addetti) assorbono il 24,5% del totale degli occupati, il 37,7% dei lavoratori dipendenti incidendo solo per il 38,6% nella produzione di valore aggiunto.

E ancora: la produttività nominale del lavoro - misurata dal valore aggiunto per addetto - è pari a 36,2 mila euro. Ebbene le imprese con meno di 10 addetti assorbono il 40% di tale valore. Il 47% se si comprendono, in questo calcolo, anche le imprese fino a 15 dipendenti.

Cosa significano questi dati? Almeno tre cose. 1 - Introdurre norme che, di fatto, rendono assai più rigidi i rapporti di lavoro, costringerebbe molte piccole imprese a potenziare ulteriormente il lavoro indipendente a svantaggio di un lavoro dipendente che, a causa della correzione della normativa, comporterebbe più oneri e più rischi per l’azienda. 2 - Si depotenzierebbero tutte le possibilità di sviluppo e di investimenti in quest’area di imprese.

3 - Diminuirebbe sostanzialmente la produzione di ricchezza proprio nel momento in cui il sistema paese non è in grado  di arricchirlo  con altri flussi.

Mi sembra di avere fin qui esposto non una ma cento, forse mille ragioni per cui è indispensabile dire no a questo referendum il cui obiettivo è quello di prendere per il collo, anzi di distruggere proprio quel sistema di imprese che, in questi anni, ha maggiormente contribuito allo sviluppo dell’occupazione e alla produzione di ricchezza di questo paese. Oppure qualcuno davvero crede che, nel breve come nel medio periodo, le grandi imprese possano invertire la rotta creando nuovi posti di lavoro? Stando ai dati dell’ultimo anno la tendenza appare del tutto contraria e non ci sono fondati motivi per pensare che si possa, all’improvviso, rovesciare.

Quindi, questo referendum rappresenta, a conti fatti, un’opportunità solo per chi vorrebbe  ampliare ulteriormente la già assai vasta area del sommerso, dell'abusivismo e dell’economia illegale.

E costituirebbe un'ottima opportunità anche per chi punta  ad indebolire, non certo a rafforzare,  i diritti e le garanzie del lavoratore dipendente. Perché è chiaro come la luce del sole che, se venisse modificata, nel modo proposto da questo referendum, la normativa attualmente in vigore, buona parte delle imprese ricorrerebbero a tutti gli strumenti che la legge oggi mette a loro disposizione per stipulare soltanto  contratti di lavoro flessibile quali il part time, il lavoro interinale, il tempo determinato e così via.

L'area del lavoro precario, sia pure all'interno del mercato legale, crescerebbe in misura esponenziale e così le 100 mila assunzioni di lavoratori a tempo inde-terminato realizzate da questo settore nel 2002 si ridurrebbero della metà,  e anche meno della metà nei prossimi anni.

Sono questi gli obiettivi del referendum? Certo che no perché non mettiamo in dubbio la buona fede dei suoi proponenti, ma sarebbe opportuno che anch’essi, insieme a tutti noi, riflettessero sulle reali, concrete, palpabili conseguenze che l’approvazione di questa proposta sicuramente comporterebbe.

Io non so - e credo che obiettivamente non lo sappia nessuno - che cosa potrà accadere, in Italia come altrove, nei prossimi mesi. Ma è certo, anche se  l’apertura di un conflitto con l’Iraq sarà per qualche tempo procrastinata - e tutti ovviamente ce lo auguriamo - che il permanere di forti tensioni internazionali potrà avere conseguenze assai negative anche sul nostro sistema economico già in profonda crisi da più di un anno.

Tagliamo pure le gambe alle piccole imprese e il sistema andrà in cocci. Togliamo al mercato quel margine di flessibilità che gli consente, in una situazione di crisi come quella attuale, di non rinunciare comunque allo sviluppo e alla creazione di nuovi posti di lavoro e il risultato sarà uno solo: tutti a casa.  

 

 

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