Incontro con il leader del Partito Democratico Walter Veltroni

Incontro con il leader del Partito Democratico Walter Veltroni

Roma, 29 gennaio 2008

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29 gennaio 2008

Caro Segretario, Caro Onorevole,
anzitutto grazie per avere accettato il nostro invito al confronto. Al confronto, cioè, tra l'esperienza nascente del Partito Democratico e il mondo imprenditoriale che in Confcommercio si riconosce.

In sala, è presente una ampia e qualificata rappresentanza di questo mondo. Simbolicamente e politicamente, sono presenti quelle 800 mila e più imprese del commercio, del turismo, dei servizi e dei trasporti, che a Confcommercio aderiscono. Simbolicamente e politicamente, è presente l'intero mondo di quell'economia dei servizi e del lavoro autonomo, che oggi reca un contributo determinante alla formazione della crescita e dell'occupazione nel nostro Paese.

Siamo una libera associazione di imprese e di imprenditori. Imprenditori anche con diverse culture e sensibilità politiche.

Ma ciò che li tiene, ciò che ci tiene insieme è la scelta di partecipare ad un'esperienza associativa, la cui missione è quella di interpretare al meglio le esigenze, le aspettative, le buone ragioni dell'economia dei servizi.

Al meglio e in autonomia rispetto ai partiti e agli schieramenti politici. Cioè semplicemente cercando di far valere la nostra autonoma capacità di analisi e di proposta in un confronto sempre aperto con la politica, con i governi, con il Parlamento.

Autonomia non è, però, qualunquistica indifferenza o neutralità. L'autonomia, al contrario, è la condizione necessaria per l'esercizio del diritto/dovere a proporre, ad incalzare, a scegliere, a verificare, a criticare.

Sempre e comunque nel merito, e con un giudizio che non si fa mai pregiudizio.

Ecco, dunque, quale è la nostra "carta di identità".

Ho voluto ricordarla, in apertura del nostro incontro, perché già il "chi siamo" motiva il nostro interesse a comprendere come il Partito Democratico agirà per essere non un nuovo partito, ma un partito nuovo. E, soprattutto, come, in questo modo, contribuirà alla costruzione di una nuova politica.

Perché è indubbio che una buona e nuova politica sia oggi la miglior risposta al distacco crescente tra i cittadini e le istituzioni, tra i cittadini e una politica troppo e troppo spesso autoreferenziale, troppo e troppo spesso dominata dalla dittatura del breve termine.

A questo distacco e al virus pernicioso dell'antipolitica bisogna reagire, e occorre farlo presto. Ne va delle fondamenta della nostra democrazia: di quella politica, così come di quella economica.

Noi infatti – caro Segretario – non ci rassegniamo.

Non ci rassegniamo al ritratto di un'Italia "infelice", tracciato, qualche tempo fa, dal New York Times.

E pensiamo anche che l'Italia sia un Paese un po' meno pigro e un po' meno ripiegato su se stesso rispetto a quanto emerge dall'ultimo rapporto del Censis.

Certo – per dirla ancora con il Censis – ci sentiamo parte delle "minoranze attive". Ma crediamo anche che queste "minoranze" siano ancora assai cospicue: qualitativamente e quantitativamente.

Ce lo dice la nostra quotidiana esperienza di lavoro, così ricca di rapporti con altri imprenditori e con lavoratori che "fannulloni" non sono.

Ce lo dice il contatto quotidiano con i consumatori e con le famiglie, di cui forse nessuno meglio di noi conosce fatiche, bisogni ed attese, ma anche la capacità, la volontà, la disponibilità a lavorare per un Paese migliore.

Per un Paese, cioè, che cresca di più e che cresca meglio, assicurando sviluppo ed equità, oltre che il risanamento della finanza pubblica.

Insomma – se davvero lo si vuole – noi restiamo convinti del fatto che ci siano tutte le condizioni e le risorse per non subire il guanto di sfida lanciatoci da tempo dall'economia spagnola.

E la condizione fondamentale è, appunto, che scenda in campo una buona e nuova politica. Quella, cioè, che abbia ambizione, forza e sobrietà.

L'ambizione di dare risposte concrete al lungo elenco di questioni che vanno sotto i titoli sintetici della crescita lenta e della competitività difficile.

La forza di misurarsi sulle riforme necessarie per rafforzare il potenziale di crescita del nostro Paese.

La sobrietà come cifra dell'etica pubblica e, soprattutto, del rapporto tra politica e mercato, tra politica ed economia: alla politica, cioè, la responsabilità di costruire regole buone e necessarie; all'impresa e al mondo del lavoro, la responsabilità di far fruttare queste regole.

Ambizione, forza, sobrietà per assicurare, in definitiva, una governabilità reale. Quella che richiede maggioranze parlamentari adeguate, ma anche coerenza e coesione programmatica all'interno dei diversi schieramenti politici.

Per questo noi pensiamo che la riforma della legge elettorale sia importante e che il confronto sul tema debba andare avanti e arrivare a compimento.

Fin d'ora, se le condizioni politiche ci saranno. Anche dopo il voto, comunque, se il ritorno anticipato alle urne dovesse essere l'unico esito possibile dopo la crisi del Governo Prodi.

Certo non tutto dipende, e in maniera esclusiva, dalla legge elettorale. Ma da una buona legge elettorale può davvero venire un contributo importante alla costruzione di una nuova politica.

Nessun modello di legge elettorale è perfetto. Ma trovare la quadra, per quanto difficile, è assolutamente necessario per il Paese.

Perché è giusto e necessario restituire agli elettori il diritto di scegliere i propri rappresentanti in Parlamento. È giusto e necessario rispettare identità e culture politiche differenziate così presenti nella storia del nostro Paese, ma contemporaneamente occorre ridurre la frammentazione dei partiti e favorire la costruzione di coalizioni politiche programmaticamente coerenti.

Quel che serve al Paese è, in breve, una compiuta democrazia dell'alternanza, che segni il passaggio dal bipolarismo muscolare, perché fragile al bipolarismo mite, perché forte.

Leggi elettorali, riforme istituzionali per il superamento del bicameralismo perfetto e il varo della Camera delle Regioni, regolamenti parlamentari che contengano la frammentazione dei gruppi sono, allora, banchi di prova urgenti della volontà e della capacità di costruire la politica nuova.

Ma occorre anche qualcosa di più: la scelta di concepire il confronto politico – sempre giustamente competitivo – come un impegno capace di assicurare continuità nella risposta ai grandi problemi del Paese: si tratti della sempre aperta e irrisolta questione meridionale come della nuova questione settentrionale.

Insomma, almeno laddove le risposte richiedono "tolleranza zero" – richiedono, cioè, una rigorosa simmetria di diritti e di doveri – lì occorre unità, più unità, unità nella politica, unità tra politica e cittadini.

Perché il nostro Paese non merita e non può tollerare il dramma dei rifiuti a Napoli, il giogo della criminalità su intere aree del territorio nazionale e le troppe morti sul lavoro: troppe per mancato rispetto delle norme in materia di sicurezza, ma troppe anche per il colpo di pistola del malvivente che ti vuole derubare dell'incasso giornaliero.

Noi – che rientriamo a pieno titolo nell'area della "società del rischio", cioè dei non garantiti, e che spesso ci troviamo ad operare nei territori della "società della forza", cioè dove è più forte il controllo del territorio da parte della criminalità – crediamo davvero che sia giunto il momento di un impegno politico straordinario che coinvolga tutti – partiti e istituzioni, lavoratori e imprese – e che a tutti chieda un supplemento di responsabilità per salvaguardare l'unità dell'Italia.

Per questo – caro Segretario – ho particolarmente apprezzato un passaggio di una tua recente intervista. Hai detto della necessità di "una svolta culturale per la sinistra".

Perché – hai aggiunto – "è tempo di uscire dalla contrapposizione tra impresa e lavoro", riconoscendo che l'imprenditore "è un lavoratore. Che rischia, che ci mette del suo, che magari non dorme la notte perché ha un mutuo in banca e non sa se potrà pagarlo".

Ecco, noi siamo questi imprenditori. Che rischiano, che ci mettono sempre il proprio e che spesso non dormono la notte: per i mutui da pagare e anche per le troppe tasse, per il costo e i tempi biblici di troppe burocrazie e per i ritardi con cui le pubbliche amministrazioni pagano i fornitori.

Eppure queste imprese, questi imprenditori sono una grande risorsa per il Paese.

I servizi hanno dato un contributo determinante alla crescita dell'occupazione, avvalendosi di norme in materia di rapporti di lavoro, che hanno costruito una buona flessibilità governata e contrattata agendo così efficacemente contro la precarietà della disoccupazione e del lavoro nero.

La distribuzione commerciale è stata oggetto di importanti processi di liberalizzazione – che hanno comportato, nel settore, una dolorosa "selezione darwiniana"- e ha fatto, tutta e tutta insieme, la propria parte per il contenimento dell'inflazione.

Lo certifica l'Istat, lo certificano le statistiche comunitarie e il fatto che – nonostante tutte le inefficienze del sistema-Paese – l'inflazione italiana, anche nella fase più recente, risulta più contenuta della media europea.

Ma, soprattutto, è dai servizi che, nel futuro, potrà venire il di più di crescita, di produttività e di occupazione, di cui il nostro Paese ha necessità.

Del resto, è ciò che avviene in tutte le economie avanzate.

Qui, però, continuiamo a registrare un deficit di attenzione politica rilevantissimo. Perché tarda troppo a maturare il riconoscimento del fatto che oggi occorre – accanto e non contro la politica industriale – una vera e propria politica per i servizi.

Fatta, peraltro, di poche e semplici cose: non la riduzione di spazi di flessibilità, ma la riduzione della rigidità dell'attuale modello di contratto di lavoro a tempo indeterminato; le liberalizzazioni – ben fatte e discusse per tempo – secondo il metodo descritto da Mario Monti come disarmo bilanciato dei privilegi di tutte le corporazioni; il sostegno all'innovazione, secondo le forme tipiche che essa assume nel sistema dei servizi.

Lo dico senza amor di polemica, ma giusto per intenderci: possibile che, ancora oggi, il principale provvedimento di riordino delle politiche per l'innovazione varato dal Governo assuma il titolo programmatico di "Industria 2015"?

Possibile che, ancora oggi, la pratica della concertazione si faccia – in punto di metodo e di merito – a prescindere da un'oggettiva valutazione di chi rappresenta che cosa, e stranamente e ripetutamente dimenticando il ruolo di chi – come noi – rappresenta qualcosa come il 40% del PIL e dell'occupazione?

Anche qui – caro Segretario – occorre una svolta: una svolta culturale, una svolta politica.

Avere ignorato questa necessità, anche nella più recente esperienza di governo, è stato un errore. Un errore da matita blu.

Perché, senza questa svolta, il Paese non riparte e rischiamo di dar ragione ai profeti del declinismo.

Invece, bisognerebbe semplicemente fare ciò che è normale in un Paese normale: fare i conti e far fare a tutti i conti con la realtà del Paese.

Abbiamo un debito pubblico che ci costa, ogni anno, largamente più di 70 miliardi di euro di interessi e, nonostante questo, la spesa pubblica continua a crescere.

Abbiamo raggiunto livelli record di pressione fiscale, intorno al 43%, e, nonostante questo, si stenta a mettere in campo un progetto serio per la sua riduzione, integrando il giusto principio del pagare tutti per pagare meno con l'altrettanto vero e giusto principio del far pagare meno, affinché tutti paghino.

Partendo – siamo d'accordo – dalla riduzione del prelievo fiscale sui redditi da lavoro, pur ricordando che ancora molto resta da fare anche sul versante della fiscalità d'impresa: per una riduzione dell'IRES al netto della rideterminazione delle basi imponibili; per studi di settore compiutamente equi e selettivi; per il superamento degli effetti distorsivi dell'IRAP; per aliquote IVA competitive per il turismo.

Si agisca, però, su tutto il lavoro. Su quello dipendente come su quello autonomo, senza inaccettabili pregiudiziali ideologiche.

Ma, per far questo, è giunto il momento di dire basta alla logica dello "spendi e tassa".

E dunque – accanto al giusto impegno per il recupero di evasione ed elusione, patologie che tagliano trasversalmente tutta l'economia e la società italiana – occorre altrettanta determinazione nel ridurre inefficienze e sprechi della spesa pubblica stimati nell'ordine dei 70 miliardi di euro all'anno, all'incirca 5 punti di PIL.

Abbiamo infatti – oltre alla necessità di ridurre la pressione fiscale – un bisogno vitale di rafforzare le infrastrutture e il capitale umano, attraverso la scuola e l'università, per generare ricerca e innovazione; ma, su questi versanti, gli investimenti pubblici languono, perché la spesa pubblica è troppo assorbita dalle spese correnti.

Abbiamo la necessità di riequilibrare la spesa sociale; ma continuiamo a pagare pensioni troppo magre perché troppo precoci e a destinare davvero troppo poco alle politiche per il lavoro.

Insomma, è sulla capacità di affrontare e risolvere questo nodo – quello, cioè, del controllo, della ristrutturazione e della riqualificazione, della riduzione della spesa pubblica – che oggi sono chiamati a misurarsi i riformisti dell'una e dell'altra parte, e certamente anche il riformismo del Partito Democratico.

Su molte delle scelte operate dal Governo Prodi, abbiamo dissentito. Ma è davvero su questo punto – cioè sul costante rinvio di un forte processo riformatore capace di affrontare e risolvere la "questione" spesa pubblica – che, a nostro avviso, si è più fortemente misurata la distanza tra le esigenze e le attese di gran parte dei ceti produttivi del Paese e le politiche di governo.

Quali che saranno, allora, gli esiti della crisi, il primo punto dell'agenda di governo, sul terreno della politica economica, è allora chiaro, chiarissimo.

"Giù le tasse, ora o mai più", per dirla con il titolo di un recente intervento di Francesco Giavazzi.

Giù le tasse per reagire a prospettive di crescita debolissima nel 2008, sostenendo la domanda interna e i consumi delle famiglie.

Ma giù le tasse anche per forzare l'efficientamento della spesa pubblica e per far fronte, in questo modo, all'esigenza di correzioni strutturali dell'andamento dei conti pubblici per almeno 30 miliardi di euro nel prossimo triennio.

A noi e alle altre parti sociali spetta la responsabilità di incalzare questi processi. Spetta la responsabilità di praticare una contrattazione collettiva in cui si incontrino tanto le esigenze di aumenti salariali, quanto la necessità di sostenere scelte di produttività.

Concludo.

La sfide con cui il Paese deve confrontarsi sono chiare. Ed è chiaro che – rispetto a queste sfide – non ci sono scorciatoie.

Occorre un progetto forte e ambizioso, che chieda a tutti di fare la propria parte.

È una responsabilità di tutti. Certamente, è anche una nostra responsabilità. Ma è anzitutto una responsabilità della politica. Di una politica e di partiti che davvero vogliano essere nuovi.

Se questa responsabilità, se questa volontà c'è, batta un colpo.

Reagire alle sfide, costruire il futuro di un'Italia più ambiziosa è certamente possibile. È questo il momento per iniziare a farlo. Ora o mai più.

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