Incontro con il Viceministro dell'Economia, Vincenzo Visco, al Consiglio Generale di Confcommercio

Incontro con il Viceministro dell'Economia, Vincenzo Visco, al Consiglio Generale di Confcommercio

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22 maggio 2007

Grazie al Vice-Ministro Visco per avere accettato il nostro invito al confronto in occasione dell'odierna seduta del Consiglio della Confederazione.

Lo ringrazio, perché considero questa Sua partecipazione ai nostri lavori una testimonianza importante di assunzione di responsabilità politica in una fase in cui stanno venendo al pettine tutti i nodi dell'impostazione dell'ultima legge finanziaria.

In particolare, le conseguenze di una strategia che, ai fini del miglioramento dello stato di salute della finanza pubblica, ha scelto di fare largamente leva sulle maggiori entrate, piuttosto che sulla riqualificazione e la riduzione della spesa.

La sostanza della manovra finanziaria per il 2007 sta, infatti, in poche, ma pesantissime cifre: 39 miliardi di euro – tanto vale questa manovra – di cui ben il 67%, cioè 26 miliardi, dovrebbero essere il risultato delle maggiori entrate.

Così – stando ai documenti ufficiali e, in particolare, alla Relazione Unificata sull'economia e la finanza pubblica – la pressione fiscale si attesterà, nel 2007, intorno al 43%, mentre ormai la spesa pubblica complessiva ha oltrepassato il 50% del Pil.

Tra aprile del 2006 e marzo del 2007, le entrate dell'erario crescono di circa 35 miliardi di euro, passando così dal 25,6% al 26,9% del Pil, senza tener conto dell'impatto crescente dei tributi locali.

Il prelievo marginale complessivo, cioè fiscale e contributivo, sui redditi personali da attività d'impresa sfiora, intanto, il livello del 58% già per un reddito di circa 35.000 euro.

Non proseguo oltre nell'elencazione delle cifre, ma c'è ne è già a sufficienza, a mio avviso, per una prima conclusione politica: siamo di fronte ad un vero e proprio "cortocircuito" fra una troppo elevata pressione fiscale e una troppo elevata spesa pubblica.

Così la pensiamo noi. Ma poiché pensiamo anche che sia giusto confrontarsi con il modo in cui la pensano, più in generale, i cittadini di questo Paese, abbiamo commissionato la realizzazione del sondaggio – che vi è stato prima illustrato – sulla pressione fiscale e contributiva percepita da parte della popolazione attiva, interrogando dunque tanto i lavoratori autonomi (imprenditori, commercianti, artigiani, professionisti), quanto i lavoratori dipendenti, pubblici e privati.

Un confronto i cui esiti offriamo oggi alla valutazione politica del Vice-Ministro Visco e, più in generale, del Governo, perché riteniamo che di questo confronto una buona politica debba far tesoro.

Cosa dicono, dunque, delle tasse e dei contributi previdenziali, gli italiani che lavorano?

Più del 59% dice che si tratta di un peso troppo elevato e circa il 74% ritiene che, con l'ultima finanziaria, la pressione fiscale e contributiva sia aumentata. ICI ed IVA sono considerate i tributi più "ingiusti". Cattiva gestione e spreco delle risorse, evasione fiscale, spesa pubblica troppo alta, debito pubblico elevato sono indicate come le cause principali del peso delle tasse.

Quanto alla qualità dei servizi pubblici che ottengono a fronte delle tasse che pagano, il giudizio degli italiani che lavorano salva un po' la scuola, la sanità e l'ordine pubblico, ma non le funzioni amministrative, tanto dello Stato quanto degli Enti locali, la previdenza e l'assistenza, i trasporti e, soprattutto, la giustizia.

Proviamo, allora, a trarre qualche conclusione.

Gli italiani che lavorano sanno far di conto. Sanno cosa significa, rispetto al loro reddito, il prelievo fiscale e contributivo. Pagano le tasse, ma vorrebbero che tutti le pagassero. Pagano le tasse, ma vorrebbero una migliore qualità dei servizi pubblici. Pagano le tasse, ma vorrebbero che i tanti soldi che versano fossero meglio amministrati.

Semplici richieste di buon senso, dunque. La semplice richiesta di un Paese normale.

Alla fine della cavalcata di percentuali del sondaggio, resta confermata tutta la validità di un intervento del Governatore Draghi di qualche tempo fa : "Il livello dell'imposizione tributaria in Italia – così il Governatore – è elevato. Penalizza le imprese e le famiglie che compiono il proprio dovere fiscale. In prospettiva esso va moderato. I frutti della lotta all'evasione devono trovare compensazione nella riduzione delle aliquote".

Ma resta confermata anche la validità di quanto, più di una volta, ha sottolineato il Vice-Ministro Visco, segnalando che ci troviamo in una situazione che non consente ulteriori incrementi di pressione fiscale e che sarebbe giunta l'ora di affrontare e risolvere il nodo della spesa pubblica.

Il guaio è però – caro Vice-Ministro – che questo nodo continua a non essere affrontato e men che meno risolto.

Perché il gettito delle entrate è cresciuto, ma continua a crescere anche la spesa pubblica. Perché sulle spoglie del magro "tesoretto" continuano a prevalere le voci del partito della maggiore spesa e troppe resistenze si oppongono a scelte di buon senso per mettere sotto controllo la spesa pensionistica. Perché i soldi per gli aumenti contrattuali nel pubblico impiego si trovano, ma dell'avvio di un ragionevole processo di riduzione delle aliquote Irpef, che darebbe un po' di fiato alla domanda interna e ai consumi delle famiglie, parliamo soltanto noi e pochi altri.

Eppure ragionevolezza e buon senso vorrebbero che recupero di evasione ed elusione, controllo e riduzione della spesa pubblica, riduzione progressiva della pressione fiscale si tenessero insieme.

Perché il tenerle insieme le rafforza reciprocamente. Rafforzerebbe davvero la tax-compliance di contribuenti che vedrebbero utilizzate le risorse pubbliche meglio e con più parsimonia; che percepirebbero un disegno in cui il "pagare tutti per pagare meno" si integra con il "pagare meno per pagare tutti".

Ad ogni buon conto ed a scanso di equivoci, lo ripeto ancora una volta: evasione ed elusione vanno contrastate, perché queste patologie alterano anche le regole di una corretta concorrenza.

Rendono impari il confronto tra le imprese – tantissime – che il proprio dovere lo fanno e chi non lo fa.

La dimensione del nero e del sommerso è, nel nostro Paese, davvero troppo ampia. Stando all'ISTAT, si tratta all'incirca del 17% del Pil. In ogni caso, è una dimensione troppo ampia.

Ma, proprio per questa sua ampiezza, io penso che sia corretto riconoscere che si tratta di una patologia che investe tutto il Paese. Investe – e qui cito – "milioni di persone e tutte le categorie sociali: imprese medie, grandi e piccole, lavoratori autonomi, lavoratori dipendenti, pensionati...È inutile, strumentale e fuorviante impostare la questione della lotta all'evasione in termini di categorie sociali".

Inutile, strumentale, fuorviante: non saprei dire meglio di così. Dire meglio, cioè, di come ha scritto il Vice-Ministro Visco, da un cui intervento ho tratto la citazione.

Ma allora – caro Vice-Ministro – quello che Ti chiedo, che Ti chiediamo è, ad esempio, quale senso abbia la tanta enfasi mediatica sulla vicenda dello scontrino fiscale, l'insistenza sulla sanzione – troppo spesso sproporzionata – della chiusura dell'esercizio commerciale per violazioni contestate, ma non ancora definitivamente accertate.

A me, a noi sembra, appunto, che tutto ciò sia inutile, sia strumentale e sia fuorviante. Che tutto ciò riproponga il copione della "gogna" e della ricerca di capri espiatori. Oltre che quello della tecnica dei controlli comodi e facili nei confronti di chi è più esposto con le sue vetrine su strada rispetto ai controlli complessi e difficili nei confronti di chi può far ricorso agli strumenti sofisticati dell'elusione.

Questo non lo accettiamo, davvero non possiamo accettarlo. Tanto più in quanto aspettiamo ancora risposte certe – giusto per fare qualche esempio – sulla cancellazione di un balzello come la tassa sulle insegne o sulla contestualità fra la trasmissione telematica dei corrispettivi e la caduta della valenza fiscale dello scontrino.

Lo dico con pacatezza, ma anche con fermezza. Senza equità, senza senso della misura, senza impegno determinato alla riduzione della burocrazia fiscale, la lotta all'evasione e all'elusione non farà grandi passi in avanti.

Rischiamo, invece, troppe chiusure di attività, troppi ripiegamenti nel nero e nel sommerso, causati da una letale over-dose di adempimenti e di prelievo fiscale.

Un cocktail micidiale; una miscela di tributi erariali, ma anche di addizionali e di tributi locali, frutto perverso di un federalismo senza federalismo fiscale, che non riesce ad impegnare tutti i livelli di governo alla responsabilità del controllo e della riduzione della spesa pubblica.

Dunque, non chiediamo "sconti" politici. E non cerchiamo neppure scorciatoie. Chiediamo, invece, un rapporto più cooperativo tra fisco e contribuente.

Quello che nasce dalla semplicità, dalla certezza e dalla stabilità delle norme e degli adempimenti.

Quello che nasce dal rispetto di elementari principi di civiltà giuridica in materia di non retroattività delle norme e di diritto ad una tassazione sulla base del reddito effettivo ed attuale e non potenziale e stimato.

Ogni riferimento alla vicenda degli studi di settore è qui, ovviamente, assolutamente non casuale.

Noi il rinnovato Protocollo d'intesa sugli studi di settore lo abbiamo firmato. Lo abbiamo firmato, perché in esso abbiamo trovato scritto che c'è "l'esigenza di migliorare la capacità d'intervento selettivo degli studi di settore"; perché è stato scritto che resta ferma "la volontà di non modificarne la natura trasformandoli in strumento automatico con azione indiscriminata".

Ora, però, si tratta di passare dalle parole ai fatti. Si tratta, in particolare, di verificare l'impatto dei nuovi indicatori di normalità economica.

Tutti gli indicatori vanno maneggiati con cautela e tanto più quando essi sono francamente ancora approssimativi. Approssimativi: perché fanno riferimento a circa 200 studi di settore, ma non ancora ai circa 2000 modelli organizzativi in cui, a loro volta, gli studi si articolano.

Lo abbiamo detto prima, cioè lungo il percorso di discussione della legge finanziaria; lo abbiamo detto al momento della stesura del Protocollo d'intesa; lo diciamo ancora ora: sulla corretta – cioè equilibrata e selettiva – applicazione degli indicatori di normalità economica per il periodo d'imposta 2006, si gioca la credibilità di tutta l'esperienza degli studi di settore.

Qui si vedrà, in concreto, se vale il principio della selettività, se davvero si è scelto di non fare degli studi una forma di catastizzazione del reddito, ovvero – per essere più chiari – una sorta di "Bancomat" per fare cassa.

È allora necessario assicurare la possibilità di un tranquillo e compiuto contraddittorio con l'amministrazione finanziaria, dando modo ai contribuenti di spiegare quando e perché gli indicatori non funzionano.

E particolare cautela dovrà essere adottata nell'applicazione degli indicatori alle imprese che operano in condizioni di marginalità economica. Sono tante e sono cresciute in anni di crescita lenta e di ristrutturazioni settoriali profonde, come quella vissuta dal commercio.

Insomma, parametri, indicatori, valori di congruità, di coerenza, di normalità: tutte le scelte tecniche vanno bene, ma, alla fine, devono realmente funzionare. Devono essere, cioè, capaci di chiedere al contribuente il "giusto", perché – per dirla in termini sartoriali – ne prendono le giuste misure.

Altrimenti, non si sarà certamente reso un buon servizio a chi, fin qui, ha fatto il proprio dovere e, in definitiva, si sarà dato ragione a chi il proprio dovere non lo ha fatto e, peraltro, continuerà a non farlo.

Noi – a nome dei tantissimi che il proprio dovere lo fanno e vogliono continuare a farlo – semplicemente questo Ti chiediamo, caro Vice-Ministro: il Tuo impegno per un fisco equo.

Lo chiediamo noi. Lo chiedono tutti gli italiani che, ogni giorno, cercano di fare di questo Paese una società attiva, più attiva.

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