Intervento del Presidente Sangalli alla tavola rotonda sulla «questione settentrionale» dopo il voto

Intervento del Presidente Sangalli alla tavola rotonda sulla «questione settentrionale» dopo il voto

Roma, 3 maggio 2006

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3 maggio 2006

Cari Amici,
anzitutto il mio ringraziamento a tutti gli autorevoli partecipanti a questa occasione di confronto su "La «questione settentrionale» dopo il voto", che abbiamo ritenuto utile promuovere.

Perché lo abbiamo ritenuto utile?

Molto semplicemente, ci è sembrato che riflettere sulle ragioni della diversa distribuzione territoriale dei consensi elettorali ricevuti dalle due coalizioni sia un buon modo per ragionare – all'avvio di una legislatura certamente complessa – sui problemi reali dell'economia reale del Paese.

Per discutere cioè, come recita il sotto-titolo dell'incontro, di fisco e di infrastrutture, di impresa diffusa e di lavoro autonomo. Se preferite – e per fare ricorso ad una formula estremamente sintetica – per discutere dei problemi del fare impresa e del competere.

Questo è, dunque, l'obiettivo di merito dell'incontro: verificare se dalla riflessione sui "perché" del Nord, si possa trarre materia sul come costruire il domani dell'Italia. Di tutta l'Italia: che può apparire politicamente divisa, ma che è certamente unita dall'esigenza di definire con urgenza un'agenda di lavoro per la legislatura, che metta in grado il Paese di affrontare e vincere la sfida della competitività.

Ma abbiamo anche – lo confesso – un obiettivo di metodo: verificare se, rispetto ai contenuti di questa agenda, potranno verificarsi convergenze tra gli schieramenti politici.

Se, in altri termini, rispetto alle emergenze e alle urgenze del Paese, ci sia la possibilità di dare concretezza d'impegno politico e parlamentare alle formule del bipolarismo mite e dialogante e dello spirito bipartisan.

Perché, certo, non compete a noi dare indicazioni o suggerimenti rispetto alle formule di governo.

Ma penso che sia davvero un nostro dovere segnalare che, se si vuole rilanciare la crescita e lo sviluppo, bisognerà pur mettere in campo da parte di tutti – da parte della politica, come da parte delle forze sociali – un supplemento di responsabilità.

I "perché" del Nord, dunque (anche se non solo del Nord).

Perché, cioè, al Nord è stata relativamente più forte l'adesione ad alcuni temi forti della proposta della Casa delle Libertà, a partire dalla questione della riduzione della pressione fiscale complessiva a carico dei cittadini e delle imprese?

Perché invece - come ha osservato proprio Peppino De Rita in uno dei primi interventi sul tema – "l'Unione non è riuscita a leggere in anticipo" i termini, le ragioni, le spiegazioni della questione settentrionale?

Non credo, ovviamente, che sia plausibile una lettura di "classe" delle scelte di voto. Su questo non la faccio lunga, anche perché mi sembra che non possano esserci davvero molti dubbi.

E mi limito, quindi, a ricordare quanto – fra gli altri – ha efficacemente evidenziato Mario Carraro, già Presidente di Confindustria-Veneto, che così ha dichiarato, intervistato da "La Repubblica": "A Campodarsego, dove c'è la mia fabbrica, l'80 per cento del voto è stato di destra. Devo desumerne che i miei operai votano per Berlusconi e i suoi soci. Siamo noi padroni, pochi, a votare diversamente".

Certo, Campodarsego non è tutto il Veneto e il Veneto non è tutto il Nord. Così come gli operai che lavorano nelle aziende di Carraro non sono tutti gli operai e i "padroni" che si riconoscono nella posizione politica di Carraro non sono tutti i padroni.

E, d'altra parte, nel distretto conciario di Solofra – terra di piccole e medie imprese in provincia di Avellino e caso segnalato dal "Sole" nelle indagini sul campo sull'andamento del voto – il centro-sinistra ha prevalso di otto punti percentuali sulla Casa delle Libertà.

Ma, insomma, sono proprio i "mille" casi – le mille e mille "Campodarsego" e "Solofra" di cui è fatta l'Italia economica e politica – a dirci che possiamo tranquillamente mandare in soffitta le letture di "classe" del voto.

Credo, però, che sia possibile dire che la scelta elettorale prevalente nel Nord del Paese abbia avuto tutte le caratteristiche tipiche della scelta di un blocco sociale. Anzi, direi quasi di un "nuovo ceto medio".

Questa scelta ha cioè espresso, in maniera sufficientemente omogenea, le urgenze e le richieste che sono poste alla politica da un ceto diffuso, medio e medio alto.

Un ceto che ricomprende piccoli e medi imprenditori: quelli che investono, rischiano e fanno fatica in aziende che rappresentano, all'incirca, il 95 per cento della struttura produttiva ed economica del Paese.

Ma è un ceto che ricomprende anche i lavoratori autonomi della galassia amplissima di vecchi e nuovi mestieri e professioni: il 25 per cento del totale degli occupati nel nostro Paese.

È un ceto, ancora, che ricomprende largamente lavoratori dipendenti specializzati e professionali.

Intendiamoci: l'omogeneità delle richieste che questo "nuovo ceto medio" pone alla politica non significa univocità.

Né di richiesta, appunto, né di scelta.

Perché – è vero – c'è anche un Nord che, in molte grandi città, ha premiato l'Unione. E - a fronte dei successi della Casa delle Libertà nel Piemonte e nel Friuli, nel Veneto e nella Lombardia - in Liguria, nel Trentino-Alto Adige, in Emilia Romagna, vince il centro-sinistra.

Ma – comunque – una sufficiente omogeneità c'è.

Frutto - ha osservato, ad esempio, Savino Pezzotta - di "una mescolanza tra blocchi sociali, tra operai e partite Iva, tra piccoli imprenditori e circoli cattolici che è tenuta assieme da una dimensione individuale molto forte".

Ma questa "dimensione individuale" – ecco il punto – esprime soltanto le esigenze, le aspettative di un dinamismo sociale tutto riconducibile sotto l'insegna di un novello "laissez faire" o rappresenta una domanda politica tanto esigente, quanto complessa?

Certo, il "nuovo ceto medio" del Nord – il risultato della mescolanza tra blocchi sociali di cui parla Pezzotta – chiede "meno tasse".

Ma perché lo chiede?

Perché punta a massimizzare gli introiti netti da redditi e da rendite e non si cura più di tanto degli interessi generali del Paese?

Non penso che sia così.

Perché ad esempio – nel sondaggio pre-elettorale, commissionato da "Il Sole 24 Ore", sulle intenzioni di voto di commercianti e artigiani – l'opzione "meno tasse" prevaleva – è vero - rispetto all'opzione "più stato sociale".

Ma, nella graduatoria dei problemi urgenti, la questione "tasse" era sopravanzata dai temi della criminalità e della giustizia, della sanità e della disoccupazione, della scuola, dell'evasione fiscale e della inefficienza della pubblica amministrazione.

È, insomma, una richiesta politica ampia e articolata, che chiama in causa la necessità di politiche pubbliche impegnative, rinnovate, qualificate.

Perché c'è la necessità di un'Italia più moderna e competitiva.

È, insomma, la tesi di chi, ogni giorno, si misura con i problemi della crescita lenta e della competitività difficile.

E pensa, dunque, che il rapporto tra deficit e Pil va migliorato e lo stock di debito pubblico va ridotto.

Ma pensa anche che per raggiungere questi obiettivi, per rendere meno impervio il percorso del miglioramento dello stato di salute della finanza pubblica, è soprattutto la crescita che va rilanciata.

Liberalizzando e privatizzando ed anche cercando di vendere un po' di patrimonio pubblico.

Ma, soprattutto, escludendo interventi di aggravamento della pressione fiscale complessiva a carico delle imprese e dei cittadini, ad esempio ritoccando all'insù le aliquote Iva. E confermando, invece, la necessità di un sistema Paese fiscalmente più competitivo.

Agendo, insieme, per il contrasto ed il recupero dell'evasione e dell'elusione fiscale e contributiva, per la riduzione della spesa intermedia delle pubbliche amministrazioni, per la riqualificazione della spesa sociale, attraverso un welfare fondato sul lavoro e sull'intervento attivo e sussidiario dei privati e delle famiglie.

Ecco, allora, come e dove reperire risorse aggiuntive per le politiche attive per la crescita e per lo sviluppo.

La riduzione del prelievo fiscale è, in quest'ottica, una scelta di metodo. Per "forzare" il processo di costruzione di una funzione pubblica che sia, al contempo, meno costosa e più efficiente.

È questa, infatti, una necessità che era e resta impellente.

Lo era ieri, quando – alla fine degli anni novanta – l'Istat stimava in oltre 22 mila miliardi delle vecchie lire il costo complessivo degli adempimenti burocratici a carico delle imprese.

E lo è tanto più oggi, in un'Italia in cui stiamo tutti facendo i conti con una complessa transizione al federalismo, in cui all'architettura del federalismo istituzionale non si accompagna, ancora, la definizione chiara dei contenuti di un federalismo fiscale responsabile e solidale.

Ecco una questione che ci sentiamo di potere e di dovere porre, quale che sarà l'esito della consultazione referendaria sulla riforma costituzionale varata nella legislatura che si è appena conclusa.

C'è la necessità di un supplemento di responsabilità da parte di tutti, se si vuole costruire un federalismo in cui i diversi livelli istituzionali collaborino tra loro e con l'iniziativa privata ed organizzata dei cittadini e delle imprese. In cui, cioè, come si dice, ci sia collaborazione tra sussidiarietà verticale e sussidiarietà orizzontale.

C'è la necessità di una politica alta che si confronti con il Paese e sugli interessi generali del Paese. Con quello spirito bipartisan, che contraddistingue un bipolarismo maturo e capace di costruire larghe intese.

Magari – e ho visto che, in questi giorni, la prospettiva torna ad essere evocata da più parti – riprendendo l'esperienza di quella Commissione Bicamerale, che è stata l'ultimo tentativo storico di un confronto politico che, proprio sul terreno delle "regole", si proponga di costruire un Paese meno diviso.

Sarebbe – io penso – un buon modo per cercare di rispondere all'interrogativo che conclude il recente "Viaggio nelle istituzioni italiane" dell'amico De Rita: "Ma c'è qualcosa da salvare, una qualche linea d'azione che non renda inevitabile la separazione fra istituzioni e cittadini?".

È un interrogativo certamente presente nei temi che la "questione settentrionale" pone alla politica. Ed è – soprattutto – un interrogativo cui occorre dare risposta se siamo davvero tutti convinti del fatto che un sistema-Paese più coeso e responsabile è la condizione prima per giocarci e vincere la partita della sfida della competitività.

Così come – per tornare al tema della necessità di una crescita più veloce, senza la quale è francamente impensabile una significativa riduzione del rapporto tra debito pubblico e Pil in linea con l'obiettivo del 60% del Trattato di Maastricht - sarebbe davvero ora di mettere in campo una politica economica, che faccia tesoro di quanto ha recentemente "certificato", per l'Italia, il McKinsey Institute: "il rilancio dell'industria manifatturiera non potrà essere il motore della crescita, la cui vera chiave sta invece nel significativo miglioramento della produttività dei servizi".

Il che significa per noi – tentando una estrema sintesi dell'analisi e delle proposte formulate nel documento sulle "Dieci azioni per rilanciare la crescita e lo sviluppo del Paese" che abbiamo avuto modo di presentare e discutere con le due coalizioni nel corso della campagna elettorale – alcune cose fondamentali: energia meno cara e più infrastrutture; innovazione diffusa per l'impresa diffusa, e – in particolare – per il sistema dei servizi; un mercato del lavoro flessibile, ma non precario; una riduzione graduale e realistica del cuneo fiscale e contributivo e il riallineamento competitivo delle aliquote IVA per il turismo, oltre che la detraibilità dell'IVA per il turismo congressuale.

Ma, anzitutto, in termini di governance, un saldo presidio politico di tutti i temi fondamentali dell'agenda dell'economia reale del Paese, cioè dei problemi concreti del fare impresa e del competere.

Dunque, nelle forme che si riterranno più opportune, responsabilità forti e dedicate all'interno del nuovo Esecutivo in materia di economia reale, di impresa diffusa, di turismo.

Concludo, sottolineando come tutti i termini della cosiddetta "questione settentrionale" ci offrano, in realtà, la possibilità di rilanciare i temi di un confronto serio e condiviso – tra gli schieramenti politici e tra la politica e le forze sociali – su un pacchetto di scelte qualificanti per questa legislatura. Scelte che valgono non solo per il Nord, ma anche – e soprattutto – per l'intero Paese.

Scelte che definiscono quella "governabilità" di merito, di progetto, che è, in definitiva, ciò che più preme a chi, come noi, cerca di rappresentare le esigenze, le ragioni di quel terziario di mercato – del commercio, del turismo, dei servizi, dei trasporti – che, a buon diritto, ritiene di essere una risorsa – ancora largamente inesplorata – per il domani dell'Italia.

Di tutta l'Italia. Di un'Italia più moderna e competitiva.

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