Relazione del Presidente Sangalli all'Assemblea Generale 2014

Relazione del Presidente Sangalli all'Assemblea Generale 2014

Cari amici, abbiamo voluto iniziare in modo un po' irrituale per ricordare, con queste immagini, la nostra grande manifestazione del 18 febbraio. E' stato un momento storico per Confcommercio e per Rete Imprese Italia. Per la prima volta 60mila imprenditori, in modo civile ma determinato, sono scesi in Piazza del Popolo qui a Roma per dire a gran voce che "senza impresa non c'è Italia".

Quel giorno è stato un segnale forte di speranza e questa speranza siete voi. Grazie. Grazie cari amici. Grazie di cuore a tutti voi.

Benvenuti, dunque, ai signori Ministri, Viceministri, Sottosegretari, ai Parlamentari e a tutte le Autorità.

La "lezione" delle europee è stata chiara: il Paese ha espresso un deciso, ma equilibrato, desiderio di cambiamento: una speranza di crescita, di sviluppo, di un futuro diverso.

Questa speranza consegna ora al Governo un grande capitale di fiducia. Ma gli attribuisce anche una responsabilità netta, soprattutto in vista del semestre italiano di Presidenza dell'Unione europea.

E ci auguriamo che questo semestre possa rappresentare un punto di svolta.

Un punto di svolta nel rapporto tra stabilità e crescita.

Un punto di svolta per realizzare quell'Unione bancaria che servirebbe a riattivare il credito per l'economia reale.

Un punto di svolta per l'avanzamento dell'Europa delle reti: dell'innovazione digitale e della ricerca, dell'energia e delle infrastrutture.

L'Italia può portare una "dote" preziosa in Europa: forte di essere uno dei Paesi Fondatori.

Forte di essere una delle più grandi economie del continente.

Forte perché i suoi cittadini hanno dato un segnale convinto in questo senso. Abbiamo un'occasione come Paese, dobbiamo crederci.

E guardate, ho negli occhi un video che in questi mesi passa sulla Rai. Dura meno di due minuti e parla della nascita dell'Unione Europea. Racconta di come 100 anni fa iniziava la prima guerra mondiale, a cui poi è seguita, ancora più terribile, la seconda. Spiega con semplicità l'ispirazione di pace e sviluppo dei padri fondatori dell'Europa.

E termina dicendo: "Bruxelles a volte ci delude, ma come diceva Jean Monnet: meglio combattere intorno ad un tavolo, che sul campo di battaglia. Quanti ricordano perché abbiamo voluto l'Europa?". Noi lo ricordiamo, noi ci crediamo.

Ci crediamo come una grande Confederazione anch'essa nata dalle ceneri della guerra mondiale, nel 1945. Nata per dare spazio a tanti italiani che, spesso solo con la loro voglia di lavorare e poco altro, hanno aperto una bottega, un commercio, un'attività partendo dal basso. Con questa idea abbiamo cercato di contribuire alle elezioni europee con un Manifesto, che contiene tante proposte e una condizione.

La condizione è questa: l'unica strada per presentarci in Europa con dignità rimane e continua a rimanere quella di fare le riforme.

Perché la speranza s'infiamma in fretta, ma - quando non viene alimentata dai fatti - si brucia e brucia con rapidità devastante.

La parola d'ordine è "fare le riforme".

* * *

Le cifre della grande crisi le conoscete, le avete vissute ogni giorno nel vostro fare impresa.

Rispetto al 2008, gli investimenti sono crollati di quasi un quarto.

Il capitale produttivo si sta riducendo.

La prolungata disoccupazione di molti lavoratori ne riduce le abilità; genera sconforto e comprime in modo strutturale le aspettative di reddito futuro.

E' umiliante e intollerabile non riuscire ad offrire una opportunità ai tanti giovani che emigrano definitivamente all'estero per cercare occupazione.

In una parola, le nostre possibilità di crescita e sviluppo sono oggi inferiori a quelle già esigue di qualche anno fa.

L'Italia, dunque, è ancora gravemente malata di bassa crescita; non è affatto fuori pericolo.

I nostri dati sui consumi del mese di aprile indicano ancora una riduzione di tre decimi di punto. Sempre in aprile, gli occupati hanno toccato un nuovo minimo storico.

E' stridente la contraddizione tra fiducia - in risposta agli annunci del governo - e comportamenti effettivi di famiglie e imprese: perchè sulla fiducia prevale ancora l'oppressione fiscale.

Tutto ciò obbliga il Governo, il Parlamento, la politica, ad agire con celerità, fermezza, efficacia.

Perchè dobbiamo guardare con serena lucidità alla realtà: le prospettive di crescita sono deludenti; siamo, ancora, nella palude degli zero virgola tanto per il Pil quanto per i consumi.

Non ci sarà una ripresa salvifica. Ci dobbiamo salvare da soli: facendo le riforme.

E tutte le riforme che servono dipendono dalla riforma della spesa pubblica.

Nonostante i primi apprezzabili sforzi fatti, la spesa pubblica presenta ancora ampi margini di riduzione e di riqualificazione.

Ci sono tagli rilevantissimi da effettuare: in parte andranno a risparmio pubblico, in parte devono essere reinvestiti per offrire servizi degni di un paese civile a tanti cittadini che sono praticamente esclusi dalla fruizione dei principali servizi pubblici.

Si deve "licenziare" definitivamente la vecchia e cattiva abitudine dello "spendi e tassa" che ci ha portato ad avere oltre 2.100 miliardi di euro di debito.

Il naturale completamento della riforma della spesa pubblica è la riforma fiscale, nella direzione di un abbassamento del carico fiscale attraverso la riduzione generalizzata delle aliquote dell'Irpef.

E' giusto estendere il beneficio dei famosi 80 euro anche alle partite IVA, come ha dichiarato anche il Presidente Renzi.

Perchè l'attuale carico fiscale sul lavoro è incompatibile con la crescita.

Dal governo Monti in poi ciascun esecutivo ha istituito il suo fondo taglia-tasse grazie al recupero di elusione ed evasione: speriamo che funzioni almeno quello dove dovrebbero confluire, il condizionale è d'obbligo, i 15 miliardi di euro di maggiori entrate derivanti dalla lotta alla evasione e alla elusione.

Quando parlo di fisco parlo anche di semplificazione, di un approccio fiscale che favorisca l'imprenditore e il contribuente.

Le tasse in Italia si pagano infatti tre volte: prima come imposte, poi come burocrazia e infine come incertezza.

E non è possibile che un imprenditore onesto si senta sempre un po' un "sorvegliato speciale" per il fisco italiano.

Su questo terreno, non si vedono ancora cambiamenti apprezzabili: anzi, il combinato mal-disposto di Imu-Tasi-Tari potrebbe essere letale per le nostre imprese.

Non possiamo nascondere questa preoccupazione: non soltanto c'è il rischio di un incremento di pressione fiscale, nonostante la buona volontà e le condivisibili dichiarazioni d'intenti di questo Governo. C'è anche un problema di crescente incertezza su quanto, quando e come pagare questi complicatissimi tributi!

Semplificazione, dunque.

Semplificazione come controllo del numero delle norme, della loro coerenza, dell'impatto sulla vita delle imprese e delle famiglie.

Semplificazione come funzionamento della giustizia e organizzazione della burocrazia.

Ogni giorno sono necessarie correzioni ex post e circolari interpretative; ogni giorno leggi e regolamenti cambiano: sovente retroagiscono a modificare il passato, scombinare il presente e cancellare il futuro.

Non va bene. Anche perché - va ricordato - nella complicazione, nei meccanismi difficili e barocchi, spesso si annidano corruzione, illegalità, criminalità.

Semplificare, dunque, fa bene al Paese. Regole semplici sono anche regole chiare e valide per tutti.

Valide per tutti.

E questo, invece, ahimè, spesso non accade.

Penso agli amici agricoltori che stanno per essere premiati con una legislazione che permetterà loro di fare i commercianti con le regole dell'agricoltura. Amici agricoltori, siete certo i benvenuti tra noi, ma se volete fare i commercianti dovete accettare le regole del commercio!

* * *

Strette tra il calo dei consumi, la restrizione creditizia e l'eccessivo costo dell'energia, le nostre imprese rischiano una brutta fine. Non ci sono forza, coraggio, gusto per la sfida del fare impresa, che possano superare questi ostacoli.

C'è bisogno di riforme: adesso.

Il sistema bancario continua ad essere troppo rigido e timido, soprattutto nei confronti delle piccole e medie imprese. Nel primo trimestre di quest'anno, nel terziario, meno di un'impresa su quattro, tra quelle che hanno chiesto un finanziamento, ha visto accolta pienamente la propria domanda di credito.

Chiediamo, dunque, alle banche di ritrovare il valore della prossimità territoriale con le imprese. E lo dico con una frase del Presidente Draghi quando era Governatore della Banca d'Italia. Così diceva delle banche: "Valutino il merito di credito dei loro clienti con lungimiranza. Prendano esempio dai banchieri che finanziarono la ricostruzione e la crescita degli anni Cinquanta e Sessanta".

Per parte nostra confermiamo l'impegno alla maggiore diffusione della moneta elettronica a condizione che il costo delle transazioni venga allineato ai parametri europei.

Quanto al costo dell'energia, le nostre imprese pagano in media il 30% in più rispetto a quelle degli altri paesi europei. E, dunque - cara Ministro Guidi - accogliamo con favore e con fiducia l'annunciata riduzione del 10% del costo dell'energia. L'importante è che vada a vantaggio di tutte le imprese, indipendentemente dal volume dei consumi, interrompendo una prassi discriminatoria che ha scaricato su una parte del sistema produttivo l'onere delle agevolazioni alle imprese cosiddette energivore.

Non ha senso!

Non possiamo, non vogliamo più accettarlo!

* * *

Una settimana fa, nelle sue considerazioni finali, il Governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco ha chiarito senza mezzi termini che non ci potrà essere ripresa senza un duraturo aumento dell'occupazione.

Un pre-requisito per la crescita dell'occupazione è rappresentato da buone regole nel mercato del lavoro.

Oggi c'è bisogno di creare lavoro appena è possibile e dove è possibile.

E' insensato tenere distanti i lavoratori dalle imprese e le imprese dai lavoratori. E limitare le forme di assunzione perché flessibili, significa invece, inevitabilmente, limitare le opportunità.

Il vero precariato è la disoccupazione.

Per questo aprire alla flessibilità significa aprirsi ad un'economia che cambia.

Significa dare una spinta ad un settore che ha bisogno di duttilità come il terziario, che comunque in 10 anni - negli ultimi terribili 10 anni - ha creato qualcosa come 900mila posti di lavoro.

Per questo abbiamo apprezzato le semplificazioni sull'apprendistato e sui contratti a tempo determinato, che dobbiamo al Ministro Poletti.

Per questo guardiamo con grande attenzione alla legge delega sul lavoro.

Convinti che vadano fatti gli investimenti dove ci sono più possibilità di occupazione.

Convinti che politiche attive del lavoro e ammortizzatori sociali debbano andare di pari passo.

Convinti che il sistema di incontro tra domanda e offerta di lavoro vada reso più veloce, sia collegandosi con la scuola, sia collegandosi con le imprese. Ad esempio, le Camere di commercio potrebbero assumere le competenze provinciali sulle agenzie di collocamento.

Stiamo facendo un grande sforzo nel rinnovare il più grande contratto collettivo nazionale, quello del terziario, che è ormai applicato a 3 milioni di persone. E' un rinnovo che potrà accompagnare fuori dalla crisi imprese e lavoratori grazie anche a significativi pilastri di welfare integrativo: per un mercato del lavoro più competitivo, per un paese più competitivo.

* * *

Ma non diventeremo più competitivi, non accresceremo il benessere degli italiani, non ridurremo neppure di un po' il numero di persone in condizione di povertà assoluta, ormai più di cinque milioni, se non lavoreremo insieme.

Facciamocene una ragione.

Insieme.

Perché per comandare si può essere soli. Ma per governare no.

Ve lo voglio dire così, e so che non sono l'unico a pensarla in questo modo.

Non sento alcuna nostalgia della Sala Verde. Da tempo abbiamo rinunciato con sollievo a certi rituali della concertazione.

Però, tra concertazione e collaborazione c'è una differenza. Così come tra lobbismo vorace e democrazia degli interessi c'è una differenza.

Se per rifiutare la concertazione si decide di dimenticare queste differenze, sminuendo il ruolo e lo spazio dei corpi intermedi, allora si compie un errore irrimediabile. Perché le rappresentanze sono lo spazio della società, il collante della coesione sociale, sono il luogo delle proposte e della decantazione.

Sono la possibilità di partecipare oltre la politica e a sostegno della buona politica.

I corpi intermedi sono quelli che - come il 18 febbraio scorso - hanno saputo anche scendere in piazza in modo positivo e propositivo. Senza di loro, senza le associazioni, senza di noi, invece di 5 milioni di imprenditori avremmo corso il rischio di avere oggi 5 milioni di "forconi".

Penso anche al ruolo delle Camere di commercio, istituzioni nate e cresciute con l'unità d'Italia, ma innovative e utili alle imprese. Istituzioni che in un altro periodo di crisi del nostro Paese (era il 1993) hanno saputo riformarsi, diventando il luogo dove per la prima volta le imprese sono entrate nel governo della pubblica amministrazione.

Istituzioni che hanno, senza dubbio, ampi spazi di miglioramento ma che rimangono di fondamentale importanza per il Paese: uno strumento necessario ai territori per crescere, alle economie locali per rafforzarsi, alle diverse componenti dell'economia per dialogare.

Il senso di questa crisi è cambiare, sì. Ma la sfida di questa crisi è cambiare senza perdersi.

Così hanno fatto tanti imprenditori nelle loro aziende, rimboccandosi le maniche e trovando nuove strategie, nuovi mercati, nuovi percorsi.

Così ha fatto anche la nostra Confederazione che ha messo ordine al suo interno facendo un patto di trasparenza con gli associati: grazie al bilancio sociale, all'accordo sulla governance del sistema della bilateralità, ai riassetti organizzativi e rivedendo in profondità lo statuto, la nostra costituzione associativa.

Ne siamo orgogliosi.

E penso all'esperimento - non conclusivo ma concludente - di Rete Imprese Italia, che rimane motivo di impegno e di speranza.

Penso ad una Confcommercio che, scegliendo i toni e gli interlocutori, ha incanalato rabbia, frustrazione, disperazione di tanti imprenditori del commercio, dei servizi, del turismo e dei trasporti in un progetto comune. Con l'onore di rappresentare la parte produttiva di questo Paese, una parte solida e coraggiosa che ha affrontato la crisi ed è stata il paracadute dell'Italia.

Einstein, che al paracadute paragonava la mente, diceva che "funziona solo se si apre". Vale anche per i corpi intermedi: funzionano solo se si aprono.

Funzioniamo solo se ci apriamo.

Se ci apriamo al futuro, se ci apriamo alla collaborazione, se ci apriamo al cambiamento.

Solo così funzioneremo meglio noi e funzionerà meglio l'Italia.

* * *

Signori Ministri, Autorità, cari amici, cari colleghi,

la globalizzazione non governata ha messo in evidenza le nostre debolezze; la politica, sin qui, è rimasta alla finestra: non ha interpretato le istanze di cambiamento e non ha guidato i processi di modernizzazione del paese.

La nuova stagione politica del Presidente Renzi e del suo governo ha convinto molti che l'avvio delle riforme è veramente dietro l'angolo. E soprattutto che non si può tornare indietro.

L'idea di aver imboccato la strada giusta ha fatto crescere la fiducia e la speranza sia nelle famiglie sia nelle imprese.

Anche noi abbiamo intenzione e sentiamo il dovere di contribuire al processo riformatore.

Il cantiere delle riforme è ampio e complesso e ha bisogno del contributo di tutti.

Vogliamo immaginare una politica economica che si muova per sottrazione.

Fino a ieri è stata sottrazione di risorse, attraverso l'eccesso d'imposizione fiscale, oggi deve essere sottrazione di ostacoli all'attività delle imprese.

La riforma più importante investe il modo di pensare, il modo di progettare, la visione del futuro.

Oggi si cerca ancora di disegnare le politiche su questo o quel settore, immaginando di saper identificare chi sia più o meno meritevole di risorse e di investimenti pubblici. Questa stagione è finita.

E' finita l'epoca delle polemiche tra piccole e grandi imprese, tra servizi e industria.

Deve invece cominciare la stagione del pieno riconoscimento del ruolo dei servizi di mercato, del commercio e del turismo, per una crescita che non sia episodica bensì strutturale.

E' questa, in un certo senso, anche la grande intuizione di Expo 2015: aver unito le forze produttive del Paese - tutte le forze produttive del Paese - intorno ad un tema forte, di sviluppo duraturo.

E' un vero progetto comune dove tutti devono fare la loro parte. Expo deve soprattutto essere l'occasione concreta e tangibile della ripresa dell'economia.

L'occasione di rilanciare l'offerta italiana e le sue potenzialità complessive, a partire dal mercato interno.

Perchè rivalutare il ruolo della domanda interna non è operazione da circuiti culturali minori.

E' di vitale importanza per tutto il paese e per tutte le imprese!

Altro che aumentare le tasse sui consumi!

Perchè vedete io capisco la preoccupazione dell'Europa per l'equilibrio dei conti italiani, ma non capisco la ripetizione di ricette che non tengono in considerazione lo stato di salute del malato.

Lo hanno capito tutti: i consumi sono malati e se si sbaglia farmaco si aggraveranno!

Questo film l'abbiamo già visto nel 2012: conti in disordine, più tasse, -4% dei consumi e nuova recessione.

Non ripetiamo quell'errore!

Per favore, non ripetiamo quell'errore!

Piuttosto, lavoriamo tutti e senza indugi, a strategie per il rilancio della crescita e dello sviluppo, sociale ed economico.

A questo proposito, è di vitale importanza per tutto il paese e per tutte le imprese mettere a reddito il nostro immenso capitale ambientale, culturale, artistico.

Tanto più che i numeri sulla domanda turistica planetaria ne fanno una delle principali aree di crescita economica oggi e nella prospettiva di lungo termine.

Il peso del saldo turistico sul Pil vale circa l'1% in Italia, la metà rispetto all'Austria, addirittura un terzo rispetto alla Spagna. Colmare queste differenze creerebbe ricchezza aggiuntiva per decine di miliardi di euro ogni anno.

E' un obiettivo raggiungibile con un investimento relativamente basso di risorse, purchè esse siano concentrate su precise azioni e territori, secondo un disegno di ampio respiro.

E in questo ambito, una riflessione profonda va fatta sul nostro Mezzogiorno. I dati sulle economie regionali non lasciano spazio a dubbi. Stiamo perdendo un pezzo del paese senza il quale non ci sarà, non ci potrà essere, una ripresa degna di questo nome. Il Sud deve costruire un'offerta turistica suggestiva e attraente e tutti dobbiamo lavorare alla realizzazione di tale visione.

Abbiamo un assoluto, disperato bisogno di un contesto nel quale merci e persone possano spostarsi fruendo di una mobilità coerente con l'efficienza economica e per un vivere gradevole. Troppo tempo è stato perso a non decidere. Troppi costi sono ricaduti su famiglie e imprese. Le scelte strategiche nazionali sui trasporti, sulla logistica, sui porti, vanno ricondotte alla competenza esclusiva dello Stato che definirà un Piano nazionale vincolante per tutti, articolato negli interventi di cui l'Italia ha bisogno.

* * *

E' oggi il tempo di mettere al centro della politica economica l'impresa. Tutte le imprese. Le grandi e le meno grandi, le piccole e le piccolissime. Perchè dobbiamo chiarire a tutti che il problema dell'Italia non sta nella dimensione delle sue aziende. Che certo possono e devono crescere: secondo scelte libere degli imprenditori e non per un disegno imposto.

La realtà è che noi dobbiamo fare i conti con la lentezza della giustizia e gli ostacoli della burocrazia, con i costi eccezionali dell'energia e con una pressione fiscale di quasi quattro punti superiore alla media europea.

La buona politica è quella capace di rimuovere questi ostacoli e annullare questi spread. Allora vedrete che le nostre imprese, grandi e piccole, medie e piccolissime, aumenteranno la propria produttività senza incentivi, premi, favori o regali.

Abbiamo semplicemente bisogno di lavorare in un ambiente almeno buono quanto quello dei nostri partner internazionali: un ambiente amico e non ostile rispetto alla sfida del fare impresa.

E' dall'impresa e solo dall'impresa che si può ripartire.

Per riassorbire la disoccupazione e costruire la crescita che resta la migliore medicina per ridurre la povertà e mitigare le disuguaglianze, per costruire un po' di futuro per le giovani generazioni, sicurezza per gli anziani, benessere per i lavoratori.

L'impresa per la crescita e la crescita attraverso l'impresa: solo questo circuito può provvedere stabilmente alle risorse per la giustizia sociale e la solidarietà.

Per tutto ciò c'è bisogno delle riforme.

E sia ben chiaro che il prezzo delle mancate riforme o delle riforme sbagliate non lo pagherebbe il governo o la politica ma l'intero paese.

Non ce lo possiamo permettere.

Non se lo possono più permettere le nostre imprese.

A loro, a voi, alle nostre imprese, dedichiamo allora tutto il nostro impegno, tutta la nostra responsabilità, tutte le nostre battaglie per le riforme.

A loro, a voi dedichiamo la giornata di oggi e tutte quelle che verranno.

A loro, a voi affidiamo la speranza di un'Italia coraggiosa che riparte da protagonista, in Europa e nel mondo.

La speranza di un Paese che non si arrende e che, ancora una volta, può sorprendere tutti.

Grazie.

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