La Campionaria delle Qualità Italiane

La Campionaria delle Qualità Italiane

Milano, 22 novembre 2007

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22 novembre 2007
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Intervento del Presidente Carlo Sangalli

“La Campionaria delle Qualità Italiane�

 

Cerimonia Inaugurale

Milano, 22 novembre 2007

 

Cari amici,

 

sono particolarmente contento di poter prendere la parola in questa sede. Intanto, per il piacere, da milanese, di giocare un po’ in casa; e poi per la possibilità che mi viene offerta di portare il mio saluto a questa Fiera campionaria dove tanto impegno viene profuso nel celebrare fin dal titolo la qualità italiana.

 

Qualità che è, credo, la vera nota distintiva del nostro Paese. Anche se non ce lo dicessimo da soli, ci sarebbe il mondo a confermarcelo continuamente: noi italiani abbiamo la qualità scritta nel patrimonio genetico della nostra cultura e delle nostre tradizioni. E la nostra economia, il nostro Paese si trovano ormai da qualche anno a giocare una partita decisiva. Sta quindi a noi decidere come impostarla: se in attacco o in difesa. Vogliamo fare quadrato intorno a un vecchio modo di produrre e affrontare Cina, India, gli altri paesi di nuova industrializzazione, su un terreno, in una sfida che già sappiamo essere perdente?

 

Io credo che, se anche volessimo, non potremmo più farlo. In Italia, come nel resto del mondo, crescono i servizi e si riduce il peso degli altri settori. Oggi, un’impresa su due appartiene al settore dei servizi e così oltre il 60% delle nuove imprese. Al terziario, all’economia dei servizi, attualmente fa riferimento nel nostro Paese il 67% dell’occupazione e il 70% del Pil.

 

Sentiamo a volte alzarsi lamenti sulla minore produttività italiana. È vero, produciamo meno ed esportiamo meno. Solo la metà delle scarpe di 10-15 anni fa, tanto per esempio. Già, ma sarà il caso di notare che, nonostante ciò, il fatturato del settore è nettamente aumentato.

 

Il risultato è che siamo sempre i migliori a fare le scarpe agli altri. In senso tutt’altro che metaforico se è vero, come è vero, che nel mondo seguitano ad essere italiane le calzature ai piedi di chi conta.

 

Insomma, è sul terreno della qualità che dobbiamo giocarci la partita se vogliamo vincerla, investendo in ricerca, innovazione e formazione, senza dimenticare identità culturale e creatività, i nostri migliori prodotti. A queste condizioni il nostro Paese ha i numeri per diventare leader in un'economia post industriale.

 

Pensateci solo un attimo: a chi appartiene il marchio che fa vendere di più? Ad una casa automobilistica, ad una marca di computer, a qualche stilista? No, il marchio che seguita ad avere più appeal in ogni parte del mondo è racchiuso tutto in queste tre parole: “made in Italy�.

 

Che si tratti di un brand unico, tanto imitato quanto inimitabile, sono molti elementi a dirlo. A partire dalle cifre riguardanti una grande piaga che affligge l’economia internazionale, cioè la contraffazione.

Ed è proprio la battaglia contro le contraffazioni che ha visto noi della Confcommercio in prima linea per combattere un fenomeno capace di creare danni incalcolabili al sistema Italia, in termini di immagine, fatturato e posti di lavoro.

 

Ma se i dati sui taroccamenti planetari sono sicuramente molto negativi, sono anche la spia di qualcos’altro. Dicono anche una gran, bella verità: se tutti fanno a gara per produrre cose che possano essere prese per italiane, allora significa che il “made in Italy� è apprezzato in ogni parte del pianeta. Insomma, è un marchio di eccellenza.

 

In questo senso le imprese che hanno avuto la forza e il coraggio di puntare sulla qualità e sull’innovazione si sono rafforzate e lo stesso può dirsi per quei territori che, cresciuti sulla valorizzazione delle produzioni tipiche, hanno creato economie ad alto valore aggiunto.

 

Rafforzare il “made in Italy� significa, quindi, attuare una politica fattiva di concertazione tra gli attori della filiera per la valorizzazione della qualità. Di modo che questa denominazione non sia tanto e solo un’indicazione d’origine, quanto il bollino blu di una qualità sicura, certificata, riconoscibile e riconosciuta dal consumatore.

 

A guardare quest’Italia, le sue eccellenze, emerge l'immagine di un Paese che sa essere vivace e vitale, e che partendo dal proprio patrimonio di identità locali, di orgogli imprenditoriali e di qualità territoriali, è capace di misurarsi con le innovazioni culturali, tecniche, amministrative e produttive necessarie per affermarsi nello scenario europeo e globale.

 

Occorre, queste forme di vivacità, non viverle e interpretarle come isolati casi di successo. Non bisogna muoversi secondo traiettorie separate. Bisogna fare sistema, creare una lobby delle qualità italiane: una rete di saperi, di rapporti e di scambi in grado di indicare all’intero Paese un progetto di successo per il futuro.

 

Un progetto per attuare il quale occorrerà tener conto della centralità del capitale umano. È fondamentale investire, investire in modo mirato intendo, sull’istruzione e sulla formazione continua delle risorse umane. Uno snodo nevralgico se è vero, come dicono gli esperti, che questo aspetto ha un impatto sulla produttività totale da 3 a 12 volte in più rispetto al capitale investito in infrastrutture o in ricerca e sviluppo.

 

Tutto ciò si scontra, sarà il caso di sottolinearlo ancora una volta, con la grande fatica per un imprenditore di operare in Italia. È, come abbiamo più volte avuto modo di definirla, “l’impresa di fare l’impresa�.

 

I dati, nella loro crudezza, sono molto chiari. A parte la Grecia, siamo il Paese OCSE in cui è più oneroso avviare una nuova impresa. Siamo i penultimi in Europa (solo il Portogallo sta messo peggio di noi) per i tempi ed i costi necessari a ottenere permessi, autorizzazioni, licenze, concessioni. La Banca Mondiale ha calcolato che il prelievo fiscale e contributivo può arrivare a pesare, in Italia, per il 76% degli utili d’impresa rispetto al 47,8% medio dei Paesi OCSE e al 25,8%, ad esempio, dell’Irlanda. Abbiamo le bollette per l’energia più salate in Europa e la burocrazia costa alle imprese dei servizi più di 8 miliardi di euro all’anno. E si potrebbe continuare, purtroppo.

 

In questi numeri c’è lo straordinario ritardo della politica di interpretare i cambiamenti, di capire dove stanno andando le società economicamente più sviluppate. Un errore doppiamente grave, perché i servizi attraversano tutto il tessuto dell’economia. Sono allo stesso tempo la rete che li connette ed uno dei “propellenti� della crescita.

 

Non abbiamo in realtà molto da scegliere: o pensiamo e costruiamo un’economia all’insegna dell’integrazione tra politica industriale e politica per i servizi, oppure rischiamo di rimanere ancorati ad un mondo che presto, molto presto, non ci sarà più. Se non saremo in grado di riconoscere e fare nostre le nuove forme, che nelle sue contaminazioni inedite tra innovazione organizzativa ed innovazione tecnologica va assumendo il sistema dei servizi, perderemo una grande occasione per la crescita economica, e non solo, dell’intero Paese.

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