"Non c'è lavoro, manca chi dovrebbe crearlo"

"Non c'è lavoro, manca chi dovrebbe crearlo"

Sul "Garantista" intervento a firma dell'Ufficio Studi Confcommercio: "lo spettro di una ripresa a scartamento ridotto è ancora presente e si riverbera sulle prospettive occupazionali". "Non ci sono ricette ma solo una strada in salita. Da percorrere a colpi di riforme generali e di politiche di rilancio degli investimenti, a partire dal Sud".

DateFormat

11 marzo 2015

Tra gennaio 2014 e gennaio 2015 l'occupazione è cresciuta in Germania di 736mila unità (1,7 per cento), nel Regno Unito di 608mila unità (2 per cento), in Spagna (dati trimestrali) di 434mila unità (2,5) mentre in Italia la variazione dei posti di lavoro è davvero esigua (0,6 per cento, pari a 131mila unità). La questione è molto seria e se si passa dalle statistiche alla vita quotidiana vuole dire semplicemente che in Germania e nel Regno Unito lavorano praticamente tutti quelli che vogliono e possono lavorare, in Spagna la situazione va rapidamente migliorando mentre in Italia ciascuno di noi conosce — e talvolta aiuta — un amico, un parente, un figlio disoccupato. Alla fine degli anni Ottanta quelli che entravano nel mercato del lavoro con un buon livello di istruzione ricevevano più di una proposta d'impiego e dovevano scegliere senza badare alle formule contrattuali visto che le offerte erano invariabilmente a tempo indeterminato. Non raccontiamolo ai nostri figli. Anzi, sì, visto che tutti portiamo la responsabilità dell'eredità negativa oggi narrata anche dalle statistiche sul mercato del lavoro: fatta di mancati investimenti infrastrutturali in un periodo di bassi tassi d'interesse, di pigrizia nel ri-orientare le produzioni su mercati e settori ad elevata capacità di crescita, di riluttanza nel cambiare le istituzioni, la giustizia, la burocrazia come se l'efficienza di queste fosse indipendente dal passare del tempo e dai mutamenti di contesto tecnologico e culturale. L'accusa alle classi dirigenti cadrebbe a fagiolo, a questo punto: ma è forse proprio la mancanza di dirigenza (e di visione) che è alla base del nostro declino. Dunque, dal 2008 il lungo ciclo di recessione-stagnazione ci ha inflitto una pesante emorragia occupazionale. Si sono persi oltre un milione di posti di lavoro, metà dei quali nella componente autonoma o indipendente, snaturando anche il ruolo tradizionalmente anticiclico, di posizione-rifugio nel mercato del lavoro, svolto dalla micro imprenditoria alle partite Iva. I difetti strutturali si manifestano nella congiuntura: mentre, come si mostrava in apertura, i nostri partner vivono periodi di malattia, anche grave, e poi si rimettono in sesto, noi usciamo dalla crisi debilitati, psicologicamente proni alla prospettiva di una lunga fase di difficile convalescenza. E vero che ci sono oggi tutti i presupposti interni e internazionali per tornare a crescere. Ma a quale ritmo? Lo spettro di una ripresa a scartamento ridotto è ancora presente e si riverbera sulle prospettive occupazionali. Se si creassero 200mila posti di lavoro l'anno occorrerebbero ancora cinque anni per riprendere i già non brillanti livelli di occupazione di inizio 2008 (oltre 23,2 milioni di lavoratori). Ed è una prospettiva comunque ottimistica. La crisi ha portato a un crollo verticale degli investimenti netti implicando una riduzione dello stock di capitale, dinamica scarsamente compatibile con una robusta crescita del fattore produttivo complementare, cioè il lavoro, che ci sia o meno il Jobs Act (che a noi comunque piace). Inoltre, con il riavvio di un ciclo espansivo, le imprese, in primo luogo, recuperano nel processo produttivo la forza-lavoro temporaneamente inutilizzata, vale a dire l'area della cassa integrazione. Stimiamo che siano 250-300mila i cassintegrati equivalenti a zero ore (cioè soggetti retribuiti integralmente dall'Inps per un intero anno lavorativo) da riassorbire nel processo produttivo. Praticamente, gli occupati persi nel triennio 2011-2013. Poi, in seconda battuta, nel caso la domanda si consolidi, le imprese adeguano l'offerta ricorrendo al lavoro straordinario e solo, infine, in una terza fase, se il ciclo espansivo prosegue, procedono ad assumere nuovo personale (oltre al fatto che il ciclo favorevole stimola anche la nascita di nuove imprese che creano, a loro volta, nuova occupazione). Un percorso piuttosto accidentato, reso più aspro dall'eterogeneità territoriale del tessuto produttivo (e del rendimento delle istituzioni pubbliche locali). Gli ipotizzati 200mila posti di lavoro dove verrebbero creati? Il Sud ha perso il 60 per cento di tutti i posti di lavoro distrutti nel periodo 2008-2013. Se durante la crisi il Pil italiano è caduto dell'8,5 per cento, la Calabria ha patito una riduzione del 13,3 per cento, Basilicata e Molise di oltre il 16 per cento, la Sicilia di quasi il 15 per cento (dati Svimez), giusto per ricordare di cosa parliamo quando diciamo "Italia". Non solo: in prospettiva futura, attorno a una crescita del Pil italiano tra mezzo punto e un punto percentuale, si collocano il Nord più dinamico rispetto a un Mezzogiorno in stagnazione. Allora la creazione di nuovi posti di lavoro diventa più difficoltosa per ragioni meccaniche: probabilmente il Nord non riuscirà da solo, a meno di un boom economico, a riassorbire tutta la disoccupazione in eccesso e, in ogni caso, per farlo dovrebbe attirare ancora più risorse dal Sud, accentuando disparità territoriali che frenano il tasso di variazione del Pil quando viene misurato sull'intero Paese. Non ci sono ricette ma solo una strada in salita. Da percorrere a colpi di riforme generali e di politiche di rilancio degli investimenti (non solo pubblici), a partire dal Sud. 

Mariano Bella e  Luciano Mauro

Banner grande colonna destra interna

Aggregatore Risorse

ScriptAnalytics

Cerca