Nota sugli esiti della possibile manovra fiscale "da Irpef a Iva"

Nota sugli esiti della possibile manovra fiscale "da Irpef a Iva"

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24 agosto 2011

Risultati preliminari (sintesi)

INTRODUZIONE

Lo spostamento del carico fiscale da un’imposta a un’altra di per sé non dovrebbe provocare eccessivi entusiasmi. “Spostamento” implica infatti quella condizione di “parità di gettito” tale da escludere un qualsiasi beneficio per i contribuenti. Che sia gettito proveniente da reddito prodotto, consumato o risparmiato, sempre del medesimo peso fiscale si tratta.

A meno che l’intento della manovra non sia distributivo: cioè a parità di gettito, settori produttivi – la manifattura o il commercio all’ingrosso, per esempio – oppure settori istituzionali – come imprese o famiglie – vengono più o meno penalizzati o avvantaggiati. Non si ravvisa, tuttavia, nell’attuale dibattito politico e mediatico un esplicito forte intento in tale direzione.

Un altro aspetto distributivo di grande rilevanza è quello che si potrebbe perseguire con una manovra di ricomposizione del gettito per diverse tipologie d’imposta: spostare il carico tra differenti tipologie di redditi – da capitale o da lavoro – oppure tra differenti tipologie di percettori – ad alto reddito oppure a basso reddito. Ma anche questo obiettivo, suggerito, tra gli altri, da alcuni sindacati, non sembra tra le priorità della ventilata manovra “più Iva e meno Irpef”. Tra l’altro, non si vede con chiarezza come si possa ottenere, immaginando un obiettivo redistributivo sul piano dei redditi personali, un efficace risultato lavorando su imposte che incidono sostanzialmente tutti i contribuenti.

Sembra invece che le ragioni di questa possibile manovra si inquadrino all’interno di una riforma fiscale orientata ad accrescere il tasso di sviluppo del Pil effettivo, auspicabilmente attraverso una crescita di quello potenziale.

Ora, mentre accorpamenti di deduzioni e detrazioni e vaste operazioni di semplificazione degli adempimenti tributari e contributivi possono certamente migliorare la compliance spontanea e quindi rendere disponibili maggiori risorse per la crescita, non si comprende come la riduzione dell’imposta personale sui redditi compensata totalmente con maggiore gettito derivante da Iva possa migliorare il livello e la dinamica del prodotto potenziale e quindi del Pil.

Dal punto di vista della scienza delle finanze, rispetto all’obiettivo della crescita di medio-lungo termine, non sembra esserci una teoria che stabilisca definitivamente la superiorità di un tipo d’imposta rispetto a un altro. Caso mai, trattando degli effetti delle imposte indirette, per tradizione se ne sottolinea sia il riflesso distorsivo in termini di perdita secca sul mercato – una frazione di surplus si perde nel creare prezzi diversi per la domanda e per l’offerta del bene colpito dall’imposta – sia sotto il profilo del benessere personale rispetto a un’imposta diretta che prelevi lo stesso ammontare di gettito.

Un elemento che ha verosimilmente generato un po’ di confusione, alterando la natura delle ragioni pro e contro una riforma in tal senso, si rinviene nella diversa composizione del gettito per tipo d’imposta nel caso italiano rispetto ai casi dei nostri più prossimi partner europei. Si è immaginato, essendo il peso del gettito Iva inferiore in Italia rispetto ai partner, che questa anomalia sia una concausa della bassa crescita strutturale italiana da cui l’esigenza di riequilibrare la composizione del gettito tributario. Ma come è facile dimostrare attraverso un’analisi attenta[1], il livello delle aliquote legali Iva in Italia non è più basso rispetto agli altri Paesi né appare particolarmente diverso il regime di esenzione/riduzione che si applica all’imposta nel nostro Paese.

In altre parole, la carenza di gettito Iva in Italia, in comparazione con gli altri Paesi europei, non è dovuta a deficienze nella struttura o nel livello delle aliquote ma al diverso e maggiore tasso di evasione.

Pertanto, se ne dovrebbe concludere che se il problema è l’evasione Iva questo è il problema che va affrontato e risolto, non essendo efficace la (purtroppo diffusa) strategia di creare un altro problema, in aggiunta al primo che, evidentemente, non si riesce a risolvere.

Resta la suggestione della manovra sulle imposte indirette come svalutazione competitiva. L’idea è che aumentare i prezzi interni attraverso maggiori aliquote Iva scoraggerebbe le importazioni, mentre la correlata riduzione di gettito Irpef ridurrebbe il carico fiscale sui fattori di produzione (il lavoro) riducendo altresì il cuneo fiscale che renderebbe più competitive le nostre esportazioni.

Questa pietanza sembra, anche a prima vista, troppo appetitosa e facile da cucinare per essere realmente disponibile.

Intanto, è oscuro il supposto vantaggio in termini di cuneo fiscale, minore costo del lavoro e maggiore competitività. Questo vantaggio si otterrebbe soltanto se una parte del maggiore reddito da lavoro, causato dalla riduzione delle aliquote Irpef, fosse trattenuto dall’azienda in qualche modo, magari concordato con i sindacati dei lavoratori (ma questa è materia diversa e nuova rispetto ai contenuti dell’attuale dibattito politico e mediatico). Viceversa, se tutto il maggiore reddito è restituito ai lavoratori non si capisce quale vantaggio si realizza per le aziende (puri sostituti d’imposta) in termini di minore costo del lavoro.

Per quanto riguarda il minore carico tributario sul lavoro, la questione è incerta. Ciò che conta è il salario reale, valutato cioè in termini di potere d’acquisto. Poiché, per ovvie ragioni, la manovra è a parità di gettito, non vi sarebbe una sostanziale crescita dei salari reali, perché i maggiori salari monetari si confronterebbero con prezzi più elevati e resterebbero sostanzialmente costanti in termini di potere d’acquisto. In questa nota sono effettuati i conteggi analitici che mettono in relazione la variazione delle aliquote Iva (secondo alcune ipotesi molto generali), i prezzi al consumo e il maggiore reddito derivante da riduzione delle aliquote Irpef. Non emergono vantaggi per i lavoratori-consumatori.

Inoltre, una manovra del genere renderebbe i viaggi e gli acquisti degli stranieri in Italia meno convenienti a parità di altre condizioni. I prezzi interni sarebbero più elevati e penalizzerebbero uno dei settori che più contribuiscono alle poste attive della bilancia dei pagamenti (alla voce viaggi): i consumi turistici. Dunque, per il turismo non ci sarebbe alcuna svalutazione competitiva. D’altra parte, la suddetta manovra colpirebbe la convenienza degli italiani nel fare le vacanze in Italia, perché i prezzi relativi si sarebbero deteriorati (sempre a causa dei più alti prezzi interni) in costanza di quelli esteri. Ciò aumenterebbe le importazioni di servizi, ancora alla voce viaggi (degli italiani all’estero) nella bilancia dei pagamenti.

Taluni potrebbero, poi, immaginare una manovra che implichi traslazione solo parziale della maggiore imposta sui consumatori[2], cioè che la manovra sia in tutto o in parte pagata dalla filiera produttiva, specialmente dal commercio. Quest’ipotesi, nell’attuale contesto di stagnazione dei consumi, di riduzione dei margini del commercio, di nati-mortalità già da tempo fortemente negativa, ancora e soprattutto per le imprese della distribuzione, è del tutto irrealistica (e non è stata presa in considerazione).

In questa nota si trascura qualsiasi potenziale effetto di tipo distributivo, cioè il presupposto dell’equità della manovra. Naturalmente ci sono effetti socialmente rilevanti. L’incremento dei prezzi per i circa dieci milioni di contribuenti Irpef incapienti, in mancanza di qualche forma di compensazione, creerebbe loro problemi di potere d’acquisto piuttosto gravi.

Il focus riguarda il rapporto tra gli effetti della manovra e la dinamica dei consumi delle famiglie, senza valutazioni sulle altre componenti del gettito Iva, quelle connesse, cioè, con operazioni che non riguardano i consumi sul territorio economico.

Le valutazioni riguardano gli effetti di breve-medio periodo. Se a seguito della variazione della composizione del carico fiscale per tipo d’imposta gli operatori economici dovessero mutare i propri comportamenti, potrebbero darsi effetti che non sono qui considerati.

Non sono state effettuate valutazioni della manovra in termini di percezione dell’inflazione, aspetto estremamente rilevante nel contesto italiano. Se si dovesse ipotizzare che la propensione al consumo possa seguire l’inflazione percepita piuttosto che quella effettiva, i riflessi recessivi della manovra sarebbero superiori a quelli indicati nella presente nota.

Attraverso l’utilizzo di semplici equazioni che legano variabili di ricchezza e reddito ai consumi aggregati e questi ultimi ai consumi per singola categoria di spesa, si suggeriscono alcune possibili implicazioni della ventilata manovra fiscale di spostamento di gettito da Irpef a Iva: la manovra appare depressiva per i consumi e quindi per il Pil. Le maggiori riduzioni dei consumi si osserverebbero sulle spese direttamente e indirettamente legate al settore del turismo in senso lato.

Per una più ampia discussione della materia si può fare riferimento alla sintesi del rapporto Cer (2010)[3].

SINTESI DEI RISULTATI[4]

Un qualsiasi spostamento di prelievo dall’Irpef all’Iva, a parità di gettito ex ante, fornisce, nel breve periodo effetti negativi sul livello dei consumi aggregati. Ceteris paribus, uno spostamento di prelievo, a parità di gettito ex-ante, pari a 6,6 miliardi (al netto dell’evasione Iva; tab. A), cioè nell’ipotesi di aumento di un punto percentuale assoluto delle tre aliquote IVA (dal 4 al 5, dal 10 all’11 e dal 20 al 21%), accompagnato da una riduzione di un punto percentuale assoluto di tutte le aliquote Irpef, riduce i consumi delle famiglie residenti di circa lo 0,9% in termini reali. Se vi si aggiungono gli effetti depressivi della spesa degli italiani in Italia per motivi turistici e la riduzione della spesa degli stranieri in Italia, sempre per motivi turistici, la riduzione dei consumi sul territorio raggiunge l’1,0%. Traducendo direttamente queste variazioni in termini di Pil, si osserverebbe una riduzione del prodotto lordo di 6 decimi di punto percentuale (tab. B).

Un esercizio di più cospicua movimentazione di gettito, pari a circa un punto di Pil, cioè 15 miliardi da Irpef a IVA, ottenuta lasciando invariata l’aliquota al 4% e aumentando quella del 10 al 12% e quella del 20 al 23%, compensata da una riduzione generalizzata di due punti percentuali assoluti di tutte le aliquote Irpef (tab. A), fornisce risultati leggermente peggiori della prima ipotesi (tab. B e fig. A).

Le due ipotesi non hanno effetti molto diversi in termini aggregati proprio perché sono condizionate al vincolo della parità di gettito. Questo conferma qualcosa che dovrebbe risultare intuitivo.

Dal punto di vista dei cittadini-contribuenti non c’è una vera ragione per essere particolarmente soddisfatti se il gettito si sposta dal reddito prodotto al reddito consumato, a prescindere dall’ammontare dello spostamento. Se non c’è vantaggio di reddito difficilmente ci può essere vantaggio nel consumo (e quindi nella soddisfazione personale).

 

La ragione fondamentale di questo risultato risiede nel fatto che l’incremento dei prezzi dovuto all’incremento dell’Iva, nell’ipotesi di pieno trasferimento ai consumatori, non solo neutralizza gli effetti reali dell’incremento di reddito monetario dovuto alla riduzione delle aliquote Irpef ma riduce il potere d’acquisto dello stock di ricchezza detenuto dalle famiglie italiane, soprattutto delle attività nette di tipo finanziario (scorte liquide, azioni, obbligazioni, depositi in conto corrente). Poiché il consumo strutturalmente dipende tanto dal reddito corrente quanto dall’ammontare di risparmio accumulato nei periodi precedenti, producendosi l’effetto dell’incremento dei prezzi tanto sui flussi (redditi) quanto sugli stock (risparmi accumulati in precedenza) si comprende il risultato negativo in termini di consumi.

Per essere espliciti si può fare un esempio. Immaginiamo una famiglia che sta risparmiando per acquistare un’automobile o per iscrivere un figlio a un corso di specializzazione in Italia. Dopo la manovra che aumenta il reddito disponibile e i prezzi, questi ultimi in misura tale da non modificare il potere d’acquisto del reddito (la parità di gettito, insomma), la famiglia può consumare più o meno quello che consumava prima con il flusso di reddito di cui dispone. Ma poiché l’automobile o il corso costeranno di più, il risparmio accumulato non consentirà più di poterli comprare e quindi sarà necessario maggiore risparmio corrente per ripristinare il valore reale della ricchezza al fine di potere effettuare gli acquisti programmati. Risultato: il consumo corrente reale scende (oppure, che è la stessa cosa nel medio termine, non si effettueranno più gli acquisti programmati).

Vanno sottolineati gli effetti negativi della manovra nell’ambito delle spese legate direttamente e indirettamente al turismo. Da una parte gli italiani avranno più convenienza – a parità di condizioni – a recarsi all’estero, visto che colà non vi è stato alcun aumento di prezzo (aggiuntivo rispetto allo scenario tendenziale). D’altra parte gli stranieri avranno meno convenienza a recarsi e a spendere in Italia visto che non hanno avuto riduzioni di aliquote Irpef (rispetto allo scenario tendenziale) e invece patirebbero i maggiori prezzi a causa della manovra sull’Iva. In altre parole, la manovra è probabilmente una svalutazione competitiva per alcuni settori ma è sicuramente anti-competitiva per altri.

Come detto, e tenendo conto anche di questi effetti, la riduzione dei consumi reali sul nostro territorio nazionale sarebbe, a causa della manovra Iva-Irpef, di circa un punto percentuale nell’ipotesi A di 1,1 punti percentuali nell’ipotesi B. Dedotte direttamente dal Pil le corrispondenti quantità, la manovra avrebbe effetti recessivi (riduzione del Pil) per 6 e 7 decimi di punto percentuale, rispettivamente nell’ipotesi A e nell’ipotesi B.

Vale la pena ricordare che l’effetto stimato dal CER (2010) di uno spostamento di gettito pari all’1% del Pil (quantità analoga a quella spostata nell’ipotesi B), riduce lo stesso Pil dello 0,3% (al quinto anno di simulazione, presumibilmente quando il sistema economico ha assorbito tutti gli effetti). Poiché gli strumenti utilizzati dall’Ufficio Studi Confcommercio sono sostanzialmente statici – cioè l’aggiustamento si compie subito in un periodo – i risultati sono più o meno comparabili. La dimensione degli effetti recessivi della manovra appare del medesimo ordine di grandezza. L’implicazione recessiva della manovra è evidente.

In termini di singole categorie di consumo, le due ipotesi hanno impatti piuttosto differenziati (tab. C). La rimodulazione dei diversi prezzi creerebbe scompensi nella dinamica della spesa di alcune voci di consumo piuttosto che di altre. Ne risulterebbero penalizzati soprattutto i comparti dell’abbigliamento e delle calzature, dell’informatica domestica e delle telecomunicazioni, della mobilità e, soprattutto, l’area dei consumi legati al direttamente o indirettamente al turismo.

Pochi comparti ne uscirebbero indenni: praticamente l’area della sanità, dei medicinali (dentro la cura del sé in tab. C) e dell’istruzione (dentro il tempo libero), per i quali, non essendo soggetti a imposizione Iva, nessuna variazione di prezzo è stata ipotizzata.

Questi risultati dipendono dall’operare dei rapporti di sostituzione tra beni. L’incremento delle aliquote Iva fornisce variazioni differenziate dei prezzi al consumo, che amplificano o riducono, a seconda dei casi, la convenienza ad acquistare o meno quei beni e quei servizi.

Il fatto che la manovra riduce i consumi implica poi che si debba tenere conto della differenza di gettito tra valutazioni ex ante ed ex post. Come è stata qui immaginata, la manovra parte dalla valutazione del maggiore gettito in risposta a variazioni dell’Iva secondo alcune ipotesi di modifica; poi questo gettito viene restituito ai cittadini-consumatori attraverso un’adeguata riduzione delle aliquote Irpef (adeguata nel senso di restituire tanto reddito quanto è il maggiore gettito Iva ex ante). Ma poiché dopo la manovra i consumi si riducono di circa un punto percentuale, il maggiore gettito ex post da Iva sarà inferiore a quello ex ante, quest’ultimo distribuito in termini di maggiore reddito grazie alla riduzione dell’Irpef. Il risultato possibile è un extra-deficit pari a circa 1,1 e 1,6 miliardi di euro correnti, rispettivamente nelle ipotesi A e B (ultime righe di tab. C).

Per i suoi impatti negativi sui consumi e sul Pil e per altre ragioni qui soltanto accennate, la manovra “più Iva e meno Irpef” non sembra consigliabile.

 

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[1] L. Violetti, 2010, Legislazione, aliquote Iva e livello del prelievo in Francia, Italia, Regno Unito e Spagna, Nens.
[2]
Forse molti lo pensano ma pochi lo dicono, per comprensibili ragioni di consenso sociale e politico. Bisogna dare atto ai Professori E. Felli e G. Tria di avere esplicitamente ipotizzato una tale “soluzione” (il Foglio, 17 giungo 2011).
[3]
Cer (2010), Le prospettive di medio termine dell’economia italiana, Rapporto di Consenso elaborato per il Cnel, n. 2.
[4]
Tutte le elaborazioni sono state curate dall’ufficio studi Confcommercio su dati Istat, se non altrimenti indicato.

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