Note economiche: storia e congiuntura
Note economiche: storia e congiuntura
Convegno "La bilateralità efficace"
Vorrei sinteticamente verificare in quali condizioni siamo giunti a questa crisi finanziaria internazionale, sostenendo che il Paese ha sì elementi differenziali di forza ma che essi sono controbilanciati da debolezze strutturali; in questo ambito la fiducia delle famiglie, almeno fino a febbraio non era drammaticamente deteriorata mentre c’è stato un crollo della fiducia delle imprese, innescato dalla restrizione creditizia; pertanto, è dalle famiglie che bisognerebbe ripartire; fornirò qualche indicazione anche sul fatto che da questa crisi nessuno uscirà indenne e che, quindi, anche i nostri settori ne stanno gravemente soffrendo in termini di chiusure nette di imprese e di incremento della disoccupazione. Così, anche la bilateralità può effettivamente essere una risposta utile per mitigare gli effetti più perniciosi della crisi: in particolar modo evitando effetti irreversibili sulla struttura micro-produttiva e sul tessuto commerciale delle nostre migliaia di amate città.
Affrontiamo, oggi, una crisi doppia, con caratteristiche, in parte, tutte italiane. La crisi importata si sovrappone alle debolezze strutturali del Paese, che conosce già da molti anni una riduzione della dinamica della produttività totale dei fattori e, addirittura, una sua contrazione assoluta.
Di fronte alla crisi mondiale, è facile e molto pericoloso dimenticare i nostri problemi strutturali. La fine della nostra crescita risale all’inizio degli anni 2000, datando alla seconda parte degli anni ’80 l’ultimo ciclo fortemente espansivo. Oggi la variazione del Pil pro capite potenziale – che è quanto, in media, ciascuno di noi può ragionevolmente attendersi in termini di miglioramento del reddito personale – è addirittura negativa. I rilevanti sprechi di cui soffriamo riducono il frutto del lavoro immesso nel processo produttivo, data l’attuale quantità e qualità del capitale privato e pubblico. E i consumi, conseguentemente, si contraggono. Di più. La figura indica come potremmo trovarci alla fine di questa specifica crisi finanziaria: esattamente come ci siamo entrati, cioè con incrementi della ricchezza pro capite assolutamente insoddisfacenti.
Ammesso che la parte eminentemente finanziaria della recessione sia meno grave in Italia, il resto della peggiore performance complessiva è dato, in ogni caso, dall’insufficiente dinamica del prodotto pro capite. Stiamo meglio sul circuito banche, stiamo peggio sul circuito della ricchezza prodotta: la somma di queste due condizioni è però a noi sfavorevole.
In sintesi, sta semplicemente accadendo, durante questa crisi, quello che è già successo almeno dal 2001 al 2007: quando l’economia mondiale cresceva molto, l’Italia cresceva poco; quando l’economia mondiale rallentava, la crescita economica dell’Italia si azzerava. Tale differenziale permane anche oggi.
E si vede subito. Posto a 100, per ogni Paese, il livello di prodotto pro capite nel 1992, nel 2008 l’Italia registra una crescita largamente inferiore a quella degli altri partner. È un discorso che oggi si tende a rimuovere. Il peso della recessione è ben diverso per chi è cresciuto molto in passato. Questa malattia da bassa crescita non solo non è risolta ma rischia di acuirsi. Infatti, nonostante si dica che gli altri stiano peggio di noi, il rapporto del Pil pro capite nel 2010 (forse anno di fine crisi) rispetto al Pil pro capite del 2007 (anno pre-crisi) in Italia non è diverso da quello dei nostri partner e in molti casi è anche peggiore (secondo previsioni della Commissione Europea).
Medesimo risultato si ottiene in termini di consumi. Certo, consumi o Pil non danno la felicità, ma, come si suole dire, aiutano. La crescita lenta dell’Italia nel passato e la crisi estesa a tutti i sistemi economici maturi fa sì che il nostro Paese perderà qualcosa come 10 anni di progresso economico, in termini di prodotto e di consumi per abitante. Mentre i nostri partner faranno un passo indietro molto più accettabile e probabilmente molto meno doloroso (intorno al 2005-2006).
Guardiamo alle famiglie più da vicino. Il loro atteggiamento appare solido e razionale. Considerato il periodo 2001-2007, le famiglie italiane, con quanto risparmiato, oltre ad acquistare gli immobili residenziali effettivamente comprati, avrebbero potuto comprare tutto il nuovo debito pubblico. Non così per Spagnoli o Inglesi.
In Italia, la questione consumi non costituisce, almeno per adesso, il problema strategico dei nostri giorni. Rispetto alle dinamiche del reddito disponibile reale (stagnante), della ricchezza finanziaria (in forte e prolungata riduzione) e immobiliare (in moderata riduzione), i consumi, e soprattutto i consumatori, stanno reagendo molto bene. In altre parole, se ci fosse stata e ci fosse attualmente una vera e propria crisi di fiducia delle famiglie, avremmo assistito, nel corso del 2008, a una riduzione della spesa per consumi privati ben più marcata di quella effettivamente osservata (diciamo una riduzione di 1,5-2 punti percentuali rispetto al -0,9% che ha certificato l’ISTAT). Insomma, la crisi strutturale è di produttività e quindi di reddito, ma non dei consumi delle famiglie. Queste ultime, oggi come durante tutti gli anni ’90, quando subirono l’incremento della pressione fiscale per permettere al Paese di partecipare al sistema della moneta unica, stanno mostrando una buona capacità di reazione.
Dei due cavalli, le imprese e le famiglie, solo quest’ultimo aveva e ha voglia di bene e avrebbe bevuto se ad esso fosse stata fornita la poca e preziosa acqua di cui si disponeva (per esempio al tempo dell’ipotesi di detassazione delle tredicesime). Sgravi fiscali alle famiglie farebbero poi bene anche alle imprese: infatti i comportamenti dei due cavalli sono correlati: se le famiglie spendono comincia a bere anche il cavallo-imprese.
Conferma di queste riflessioni si ha dalle risultanze di alcune indagini di fonte ufficiale pubblica o privata. Il clima di fiducia delle famiglie, misurato dall’ISAE, è in risalita a gennaio e a febbraio 2009. Anche l’indagine Censis-Confcommercio (febbraio 2009) chiarisce che a fronte di lucide e spassionate previsioni di ulteriori riduzioni dei consumi, le famiglie, in maggioranza (53%), si dichiarano ottimiste e fiduciose per i prossimi mesi.
Dunque, per adesso, la crisi dei redditi ha implicato minori consumi ma non una depressione del sentiment rispetto al futuro.
La tenuta della fiducia delle famiglie dovrebbe trovare ulteriore rafforzamento nella generale tendenza dei prezzi a contrarsi nell’attuale frangente e, soprattutto, nelle prospettive di riduzione di quella parte delle spese obbligate legate all’andamento dei corsi delle materie prime energetiche ed ai tassi d’interesse (tra risparmi sul costo dei carburanti, dell’energia elettrica e del gas, stimiamo un risparmio nel 2009 rispetto alla media del 2008 pari a 280 euro per nucleo familiare).
Il problema congiunturale oggi di maggior rilievo è il crollo della fiducia delle imprese da correlarsi inequivocabilmente alla progressiva restrizione sul fronte del credito (vedete la correlazione negativa e palese tra contrazione della fiducia nella manifattura e indice di restrizione al credito, ottenuto aggregando dichiarazioni dei banchieri!). Possiamo ipotizzare, sulla base di queste evidenze empiriche, che l’impulso negativo sul sistema delle imprese sia partito dal sistema bancario il quale, naturalmente, aveva maggiore contezza dei problemi sui crediti inesigibili. Trasmesso al settore produttivo, esso ha fatto rapidamente crollare la fiducia delle imprese che hanno ridotto gli investimenti in modo rilevante.
Una recentissima indagine Confcommercio fornisce, sulla restrizione creditizia, risultati preoccupanti: un’azienda su tre, tra le PMI dei servizi non riesce ad ottenere oggi credito o se ci riesce deve sottostare a condizioni molto più vincolanti che in passato; ad analoghi risultati perviene ISAE. Anche Unioncamere ha attestato la restrizione al credito (non è in figura perché avevo finito lo spazio).
Non si tratta di fare polemica o di chiedere al sistema bancario di fare cattivo credito: dare, cioè, soldi indiscriminatamente a tutti. Bensì di prendere atto di una situazione reale, gravida di conseguenze negative. È necessario sia ripristinare l’agibilità dei circuiti creditizi per le imprese, tutte le imprese e, al contempo, evitare che questi impulsi depressivi si trasmettano completamente anche alle famiglie consumatrici.
La sintesi macroeconomica, che ci permettiamo di effettuare in termini ancora ottimistici, dice che il profilo di contrazione dei consumi potrebbe non eccedere l’1% in termini reali, con una modestissima crescita alla fine del 2010, a condizione che la disoccupazione non ecceda l’8-8,5% nel 2009 (cioè che non si superino i 2,1-2,2 milioni di persone in cerca di occupazione). Il profilo del Pil si palesa flettente nell’anno in corso per almeno il 2,3% e sostanzialmente piatto nel 2010 (qui devo dire che non ho capito se i previsori delle istituzioni internazionali calcolano qualche effetto delle manovre messe in campo dal Governo: secondo noi dovrebbero avere effetti positivi per qualche decimo di punto di Pil: cioè senza di esse la contrazione del prodotto nel 2009 sarebbe superiore).
La caduta degli investimenti si avvicina al 10%, correlata a una caduta della fiducia degli imprenditori, come visto, del 34% circa a partire dal picco ciclico del terzo trimestre 2007. Quella che è oggi una recessione potrebbe trasformarsi in depressione (Pil a -4% nell’anno in corso) se a causa di un crollo della fiducia dei consumatori dovesse venire a mancare il contributo dei consumi delle famiglie (a questo punto vedete che è una questione aritmetica).
Si può ipotizzare che una riduzione di mezzo punto degli interessi sul debito pubblico che andasse a finanziarie riduzioni della pressione fiscale sul lavoro, potrebbe generare maggiori consumi e redditi tali da contenere la caduta del Pil nel 2009 nei limiti dell’1,5%.
In ogni caso, appare necessario valutare con attenzione la possibilità che la crisi comporti alcuni gravi effetti irreversibili sul tessuto produttivo e su quello commerciale. Sostanzialmente, cambierebbero i connotati della nostra bella Italia, non solo le sue potenzialità di crescita.
Possiamo facilmente apprezzare l’impressionante sviluppo del saldo negativo delle imprese in alcuni particolari settori. Questo è il problema della potenziale desertificazione dei centri storici e delle prime periferie (con possibile effetto banlieue, cioè un sistema urbano il cui primo segnale di degrado oggettivo è fornito dalla scomparsa del tessuto commerciale che di solito innerva le città sane e costituisce la prima infrastruttura per le relazioni economiche dei cittadini).
In prospettiva questo trend potrebbe risultare enfatizzato. A nostro avviso le evidenze empiriche non raccontano più di una competizione virtuosa che seleziona i migliori: esiste oggi una dimensione patologica legata all’insufficiente crescita economica.
Larga parte di questi saldi negativi tra aziende nate e cessate è dovuta alla stagnazione dei consumi e alla compressione delle spese commercializzabili a causa di costi fissi che per le famiglie sono crescenti.
Coloro che sono convinti che sia un semplice effetto della competizione, non si accorgono delle implicazioni pericolose del fenomeno sui livelli occupazionali (oltre che sulla fisionomia delle nostre città); mentre in passato la grande distribuzione era in grado di assorbire quote crescenti di occupazione – fenomeno che riscontriamo nello sviluppo della quota di lavoratori dipendenti nel commercio – oggi la compressione dei margini che essa ha subito (per diverse ragioni tra le quali la prima è la riduzione dei consumi commercializzabili) non glielo consente più. Questo per lo specifico settore del commercio al dettaglio. Ma, più estesamente, potrebbe palesarsi oggi un problema prima soltanto immaginato: l’espulsione di competenze e professionalità dal mondo della distribuzione, dell’accoglienza, della ristorazione, della delivery logistica e dei servizi in generale, senza possibilità di re-impiego.
Sarebbe una perdita secca che l’Italia, per come è fatta, non credo possa permettersi.
Una prima risposta, immediata ed efficace, può giungere, appunto, dagli enti bilaterali, oggi investiti di nuove competenze e, naturalmente, di maggiori responsabilità.