Note per evitare la depressione (economica): meno fisco per le famiglie, più credito alle imprese

Note per evitare la depressione (economica): meno fisco per le famiglie, più credito alle imprese

Conferenza stampa di apertura del Forum Confcommercio 2009

DateFormat

13 marzo 2009

Quando nel marzo del 2008, nel Forum Confcommercio di Cernobbio, aprimmo la conferenza stampa con l’eloquente titolo “un’assenza imbarazzante: la crescita economica (la recessione alle porte?)” alcuni osservatori parvero scettici. Troppo pessimistici sembravano i riferimenti che facevamo alla possibilità di un’evoluzione recessiva dell’economia italiana e, soprattutto, nella ‘forchetta’ previsionale appariva arduo immaginare una variazione negativa del Pil dell’Italia per il 2008. In quel periodo le previsioni più accreditate indicavano una crescita tra il mezzo punto e il punto percentuale. Quella previsione derivava dalla constatazione che la dinamica dei consumi era molto, troppo debole, in una parola incompatibile, con uno stato di robusta salute del sistema. Poi sono intervenuti alcuni problemi che hanno fatto rapidamente invecchiare quelle valutazioni: eventi scollegati dalle debolezze strutturali della nostra economia. Così che quelle previsioni, prima considerate pessimistiche, si sono rivelate troppo ottimistiche[1].

Cresce oggi la probabilità che la recessione si trasformi in depressione. In ogni caso, la crisi in atto è più profonda e duratura di quanto immaginato soltanto un paio di mesi fa. I circuiti del credito sono poco agibili su scala planetaria; le esportazioni, e quindi il commercio mondiale, sono in grave e prolungato arretramento senza eccezioni significative.

Per l’Italia, la sensazione iniziale che il sistema economico-finanziario fosse meglio attrezzato a sopportare la crisi, si sta indebolendo. Affrontiamo, oggi, una crisi doppia, con caratteristiche, in parte, tutte italiane. La crisi importata si sovrappone alle debolezze strutturali del Paese, che conosce già da molti anni una riduzione della dinamica della produttività totale dei fattori e, addirittura, una sua contrazione assoluta.

Di fronte alla crisi economico-finanziaria mondiale, è facile e molto pericoloso dimenticare i nostri problemi strutturali. La fine della crescita risale all’inizio degli anni 2000. Oggi la variazione del Pil pro capite potenziale - che è quanto in media ciascuno di noi può ragionevolmente attendersi in termini di miglioramento del reddito personale - è addirittura negativa. I rilevanti sprechi di cui soffriamo fanno sì che immissioni nel processo produttivo di input di lavoro, data l’attuale quantità e qualità del capitale privato e pubblico, ne riducano il frutto. E i consumi si contraggono. Di più. La fig. 1 indica come potremmo uscire da questa specifica crisi finanziaria: esattamente come ci siamo entrati, cioè con incrementi della ricchezza pro capite assolutamente insoddisfacenti.

Fig. 1 - Pil potenziale e spesa delle famiglie residenti pro capite- var. m.a. reale

Fonte: elaborazioni Ufficio Studi Confcommercio

 

I dati recenti e le previsioni di tutte le istituzioni internazionali e dei centri di ricerca italiani, segnalano che la caduta cumulata del Pil in Italia, nel biennio 2008-2009 potrebbe essere maggiore che in altri Paesi, teoricamente più esposti al processo di drastica e repentina contrazione delle aperture di credito a famiglie e imprese. E’ eloquente, a tal proposito, anche il confronto tra dinamica degli indici borsistici in America e in Italia: dal maggio 2007, massimo locale delle quotazioni, lo Standard&Poor’s per l’Italia si è ridotto del 59,4%, ben oltre il -44,4% del Dow Jones. I mercati dicono sempre qualcosa di cui tenere conto.

Ammesso, tuttavia, che la parte eminentemente finanziaria della recessione sia ipoteticamente meno grave in Italia, il resto della peggiore performance complessiva è dato, in ogni caso, dall’insufficiente dinamica del prodotto pro capite. In sintesi, sta accadendo, durante questa crisi, quello che è già successo almeno dal 2001 al 2007: quando l’economia mondiale cresceva molto, l’Italia cresceva poco; quando l’economia mondiale rallentava, la crescita economica dell’Italia si azzerava. Tale differenziale permane anche oggi (figg. 2-4).

Posto a 100, per ogni Paese, il livello di prodotto pro capite nel 1992, nel 2008 ci troviamo con l’Italia - assieme al Giappone, un caso che dovrebbe fare riflettere sulla questione della possibilità di lunga deflazione - che registra una crescita largamente inferiore a quella degli altri partner.

Fig. 2 - Indici del Pil pro capite reale per alcuni Paesi 

Fonte: elaborazioni Ufficio Studi Confcommercio

 

La crisi attuale porterà, oltre ad una generalizzata riduzione di prodotto pro capite reale, a una contrazione dei consumi.

 

Fig. 3 - Indici dei consumi delle famiglie in termini reali - 1999=100 

Fonte: elaborazioni Ufficio Studi Confcommercio

 

Ponendo a confronto i valori del 2010, anno previsto per la lenta uscita dalla recessione, in rapporto a quelli del 2007, i consumi reali pro capite arretreranno in misura più sensibile rispetto ad altri partner europei.

 

Fig. 4 - Indici e var. % dei consumi delle famiglie reali pro capite in alcuni Paesi

 Fonte: elaborazioni Ufficio Studi Confcommercio

 

La combinazione di questi due fenomeni - la crescita lenta dell’Italia nel passato e la crisi estesa a tutti i sistemi economici maturi - fa sì che il nostro Paese perderà qualcosa come 10 anni di progresso economico, in termini di prodotto per abitante e, soprattutto, quello che più conta, in termini di consumi, mentre i nostri partner faranno un passo indietro molto più accettabile e probabilmente molto meno doloroso.

A ben guardare è possibile che vi siano effettivamente dei fattori di forza relativa nel nostro sistema bancario, meno inquinato, e nella minore propensione delle famiglie a indebitarsi. Ma, come detto, ciò è più che controbilanciato, negativamente, dalla ridotta crescita della produttività dei fattori e, in particolare, della produttività multifattoriale, che risente di un contesto caratterizzato da inadeguate infrastrutture materiali e immateriali (in primis carenza di adeguati e continui processi formativi del capitale umano, ostacolato dalla insensibilità dell’establishment a riconoscere e premiare il merito). Questa è la nostra malattia grave.

La valutazione della crescita storica e prevista del prodotto nelle grandi ripartizioni geografiche enfatizza le caratteristiche del fenomeno. Non soltanto negli ultimi anni il divario di crescita Nord-Sud si è ampliato (fig. 5), ma ciò potrebbe proseguire nel prossimo futuro.

Il processo è aggravato da elementi che i dati aggregati non riescono a testimoniare. Ad esempio, la ripresa dei flussi migratori dal Mezzogiorno verso le altre aree del Paese (tra 80mila e 100mila soggetti come saldo di iscrizioni alle anagrafi comunali) riduce le potenzialità del Sud, selezionando negativamente il capitale umano.

La durezza della crisi sconvolge anche le tradizionali letture industria-servizi: e’ difficile identificare tessuti territoriali produttivi candidati ad affrontare meglio la prolungata recessione.

 

Fig. 5 - Indicatori economici territoriali - var. % reali 

 Fonte: elaborazioni Ufficio Studi Confcommercio

 

Fig. 6 - Capitale produttivo per ULA e crescita della PTF nelle province italiane 

 Fonte: elaborazioni Ufficio Studi Confcommercio

 

Le regioni in maggiore difficoltà sembrano il Piemonte e la Basilicata per il ruolo del settore dell’auto. La Puglia risentirà del peggioramento dei saldi turistici. La Calabria, del crollo della produttività dei fattori e dell’intensificarsi dei flussi di capitale umano verso il Nord. In generale, la crisi rende più complesso l’equilibrio richiesto dal federalismo efficiente e solidaristico: crescono le necessità delle regioni più svantaggiate e si riducono le possibilità delle regioni più ricche di contribuire al fondo perequativo. In ogni caso, o si rilancia la PTF o all’uscita della crisi la crescita italiana sarà ancora più lenta di come l’abbiamo immaginata.

Le elaborazioni effettuate evidenziano una correlazione significativa su base provinciale tra capitale produttivo installato per ULA e conseguente crescita nel tempo della Produttività Totale dei Fattori (fig. 6).

Non suggeriamo certo di proseguire nei finanziamenti a pioggia che non hanno prodotto risultati. Ma l’incentivazione di investimenti in capitale produttivo nelle aree più disagiate appare uno strumento da valutare - ripensandolo - con grande attenzione e urgenza. Maggiori investimenti (mediante defiscalizzazione o altre agevolazioni tributarie) vogliono dire più capitale, che implica, dunque, più produttività. Questo circuito virtuoso genera, poi, una domanda di capitale umano più qualificato, più produttivo e meglio remunerato. Sono ipotesi di crescita di medio periodo che devono prendere corpo già adesso, con una cura particolare per le regioni del Mezzogiorno.

Il probabile acuirsi del disagio sociale potrebbe, infatti, sviluppare tensioni soprattutto nelle aree meno dinamiche e produttive dell’Italia. Ciò aggiungerebbe un ulteriore ostacolo al già difficile - ma irrinunciabile - percorso verso un compiuto stato federato. E’ forse la principale questione che le istituzioni dovrebbero seguire in questo momento.

L’attuale “doppia” crisi potrebbe produrre una quantità di effetti negativi tra i quali alcuni potenzialmente irreversibili, come, per esempio, la desertificazione dei centri storici rispetto alla presenza del piccolo commercio relazionale o lo smantellamento del tessuto produttivo delle PMI dei servizi, con conseguente riduzione del livello medio del benessere fruito dai cittadini-consumatori appartenenti ai relativi bacini d’utenza.

 

Fig. 7 - Terziarizzazione dell’economia e crescita provinciale 

Fonte: elaborazioni Ufficio Studi Confcommercio

 

L’economia dei servizi ha un potenziale territoriale inespresso. Il problema resta quello della produttività dei servizi in generale e del commercio in particolare. A fronte di una maggiore dinamicità della produttività nei servizi, si contrappone un più basso livello del prodotto medio per addetto dei servizi di mercato non finanziari. La questione è rilevante in quanto, come si vede dalla fig. 7, c’è una correlazione positiva tra quota dei servizi e crescita complessiva del valore aggiunto provinciale calcolato sulle unità di lavoro (standardizzate). In altri termini, la crescita è maggiore dove l’economia è più terziarizzata. Inoltre, la produttività del lavoro nel commercio è crescente o, almeno, meno decrescente rispetto alla media dei settori produttivi.

E qui si deve ricordare che una parte di questa migliore performance è dovuta al doloroso processo di selezione che ha investito le PMI dei servizi in generale e il commercio in particolare. Fenomeno che negli anni più recenti sembra stia passando dalla dimensione naturale del processo di selezione a una dimensione patologica, con il rischio che più che di cambiamento del commercio attraverso l’innovazione si debba parlare di una modifica dei connotati del Paese - mutandone sembianze mediate dalla cultura e dalla tradizione delle nostre città plurisecolari, grandi e piccole.

Pur considerando alcune variazioni gestionali intervenute nella tenuta dei registri camerali - le cosiddette cancellazioni d’ufficio – i dati dicono che siamo in presenza di una grave recrudescenza del fenomeno delle cessazioni d’impresa le quali, da qualche anno ormai, sopravanzano le nuove iscrizioni. Il saldo negativo, nei servizi nel complesso, nel commercio in generale e nel dettaglio in particolare, nonché nell’area degli alberghi e dei ristoranti, cresce rapidamente nel corso degli anni (fig. 8).

 

Fig. 8 - Saldi tra iscrizioni e cancellazioni - 1999-2008 al lordo delle cancellazioni d’ufficio

 

COMMERCIO

Dettaglio

ALBERGHI E PUBBLICI ESERCIZI

SERVIZI

1999

-9.762

-10.528

-332

10.690

2000

1.734

3.187

-2.261

9.506

2001

344

2.886

-2.036

9.535

2002

-3.541

29

-1.786

-818

2003

-1.908

-141

-1.191

860

2004

-999

1.659

-2.699

-861

2005

-9.735

-3.336

-3.401

-5.297

2006

-20.350

-11.456

-4.489

-10.225

2007

-35.819

-20.157

-6.793

-20.872

2008

-38.860

-22.343

-6.794

-24.731

1999-2008

-118.896

-60.200

-31.782

-32.213

Fonte: elaborazioni Ufficio Studi Confcommercio

 

Al lordo delle cessazioni d’ufficio, il saldo per il commercio nel complesso è pari a quasi 120mila unità nel periodo 1999-2008, di cui quasi 40mila nel solo anno 2008 (oltre 23mila al netto della pulizia di ordine amministrativo, che comunque rispecchia un fenomeno reale di contrazione dello stock di imprese effettivamente operanti).

Nel corso dell’anno 2009, nel contesto economico sommariamente descritto, è facile prevedere un ulteriore ampliamento del saldo negativo tra iscrizioni e cessazioni, diciamo dell’ordine di quello osservato nel corso del 2008 (7mila tra alberghi e ristoranti, qualcosa all’interno dell’intervallo 30mila-50mila per le imprese del commercio nel complesso).

Le strade per uscirne sono di competenza dei manager e degli imprenditori, ma non si può non richiamare il ruolo dell’operatore pubblico. E’ ormai indispensabile e urgente una politica d’incentivo all’imprenditorialità nel settore dei servizi e del commercio. Formazione di nuovi imprenditori, percorsi educativi nuovi e moderni, finanziamenti responsabilizzanti - non denari a pioggia senza accountability - per il design e l’innovazione di formula, di processo, di organizzazione, devono diventare, sulla base dei fondi europei e delle risorse regionali e statali, lo strumento per governare il cambiamento della distribuzione commerciale nella direzione di offrire servizi, valore aggiunto e appaganti esperienze d’acquisto per le famiglie consumatrici.

Infine, una questione mai troppo sottolineata resta, purtroppo, attuale perché irrisolta: la riduzione dei costi fissi per il commercio e le imprese dei servizi in generale passa per un’effettiva e completa liberalizzazione dei servizi bancari, assicurativi e di pubblica utilità. La distribuzione commerciale ne trarrebbe beneficio anche indirettamente attraverso un miglioramento del profilo evolutivo delle spese al netto dei consumi obbligati da parte delle famiglie consumatrici.

Posta la questione, cruciale e irrisolta, della produttività, estesa, seppure con diverse gradazioni d’intensità, a tutti i settori, è necessario individuare qualche spunto per contrastare l’attuale recessione.

Intanto è rilevante notare che per quanto riguarda le famiglie, il loro atteggiamento nel passato e nella presente congiuntura appare particolarmente solido. Considerato il periodo 2001-2007, la differenza tra risparmio privato cumulato, al netto degli acquisti di case da parte delle famiglie, e variazione nominale del debito pubblico è pari a ben 167 miliardi di euro. In altre parole, le famiglie, con quanto risparmiato, oltre ad acquistare gli immobili residenziali effettivamente comprati, avrebbero potuto comprare tutto il nuovo debito pubblico. L’analogo conteggio per gli spagnoli, per esempio, porta a un valore negativo di 52 miliardi di euro che diventano 384 miliardi di sterline per gli inglesi. Nel Regno Unito, nel corso del 2007 i consumi delle famiglie hanno superato il loro reddito disponibile corrente di quasi 20 miliardi di sterline, un fenomeno sconosciuto nel nostro Paese. Non emergono tra i consumatori italiani indizi di squilibri patologici nell’allocazione del reddito e questo è un punto di forza da mettere a frutto nell’attuale congiuntura. Ripartire dunque dalle famiglie. Quanto appena evidenziato non implica affatto che eventuali redditi distribuiti andrebbero a rafforzare il risparmio deludendo le aspettative di maggiore domanda interna. Tutt’altro.

Infatti, a ben guardare, la questione consumi, se correttamente analizzata, non costituisce il problema strategico dei nostri giorni. Rispetto alle dinamiche del reddito disponibile reale (stagnante), della ricchezza finanziaria (in forte e prolungata riduzione) e immobiliare (in moderata riduzione), i consumi, e soprattutto i consumatori, stanno reagendo molto bene. In altre parole, se ci fosse stata e ci fosse attualmente una vera e propria crisi di fiducia, avremmo assistito, nel corso del 2008, a una riduzione della spesa delle famiglie ben più marcata di quella effettivamente osservata. Di più: in termini previsionali, la composizione della domanda dovrebbe essere sbilanciata nel senso di una riduzione più forte dei consumi, cosa che non emerge da alcun esercizio predittivo, né di fonte istituzionale né realizzato da centri di ricerca privati. Insomma, la crisi strutturale non è dei consumi quanto della produttività dei fattori, della capacità complessiva di generare ricchezza e, quindi, dei redditi distribuiti al settore delle famiglie consumatrici. Le quali, oggi, come durante tutti gli anni ’90, quando subirono l’incremento della pressione fiscale per permettere al Paese di partecipare al sistema della moneta unica, stanno mostrando una grande capacità di reazione.

Allora, appare sbagliata l’idea che proprio grazie a questa ‘tenuta’ non ci sia stato bisogno di un sostegno maggiore alle famiglie attraverso una generalizzata e significativa riduzione delle aliquote tributarie, oppure non sia stato necessario un più contenuto provvedimento di detassazione delle tredicesime. E’ verosimile esattamente il contrario. Dei due cavalli, le imprese e le famiglie, solo quest’ultimo aveva voglia di bere e avrebbe bevuto se ad esso fosse stata fornita la poca e preziosa acqua di cui si disponeva (risorse pubbliche in coerenza con gli obiettivi di contenimento del deficit). Tra l’altro, i comportamenti dei due cavalli sono correlati: se le famiglie spendono comincia a bere anche il cavallo-imprese.

Conferma di questa tesi si ha dalle risultanze di alcune indagini di fonte ufficiale pubblica o privata. Il clima di fiducia delle famiglie, misurato dall’Isae, è in risalita a gennaio e a febbraio 2009. Anche l’indagine Censis-Confcommercio (febbraio 2009) chiarisce che a fronte di lucide e spassionate previsioni di ulteriori riduzioni dei consumi, le famiglie, in maggioranza (53%), si dichiarano ottimiste e fiduciose per i prossimi mesi.

Dunque, per adesso, la crisi dei redditi ha implicato minori consumi ma non una depressione del sentiment rispetto al futuro.

La tenuta della fiducia delle famiglie trova rafforzamento nella generale tendenza dei prezzi a contrarsi nell’attuale frangente e, soprattutto, nelle prospettive di riduzione di quella parte delle spese obbligate legate all’andamento dei corsi delle materie prime energetiche ed ai tassi d’interesse.

Nell’ipotesi del permanere delle quotazioni del petrolio sui valori registrati a inizio anno e di un tasso di cambio euro dollaro pari a 1,25, per le famiglie italiane il vantaggio in termini di minori spese per carburanti, energia elettrica e gas metano, dovrebbe attestarsi ad oltre 6,7 miliardi di euro, pari a circa 280 euro a famiglia.

I riflessi della riduzione delle quotazioni internazionali sono stimati di un certo rilievo anche per le imprese. Tuttavia, il problema del crollo della fiducia delle imprese del settore manifatturiero è da correlarsi inequivocabilmente alla progressiva restrizione sul fronte del credito (fig. 9).

 

Fig. 9 - Fiducia delle imprese manifatturiere e restrizione creditizia 

Fonte: elaborazioni Ufficio Studi Confcommercio

 

Si ipotizza, sulla base di queste evidenze empiriche, che l’impulso negativo sul sistema delle imprese sia partito dal sistema bancario il quale, naturalmente, aveva maggiore contezza dei problemi sui crediti inesigibili. Trasmesso al settore produttivo, esso ha fatto rapidamente crollare la fiducia delle imprese che hanno ridotto gli investimenti in modo rilevante. E’ necessario evitare che questi impulsi si trasmettano completamente anche alle famiglie consumatrici.

Il capitale fiduciario, tuttora presente presso le famiglie consumatrici, appare, infatti, molto fragile; è una disponibilità temporanea, un’apertura di credito verso se stessi e il futuro che può essere senz’altro ritirata se la crisi dovesse peggiorare, in assenza di più incisivi provvedimenti da parte delle autorità di Governo.

Se la disoccupazione, non dovesse superare l’8,5% nella media del 2009, il profilo di contrazione dei consumi potrebbe non eccedere l’1% in termini reali, con una modestissima crescita alla fine del 2010 (fig. 10).

Tutto dipenderà dal sapere sfruttare questa propensione alla reazione, anche in termini di spesa potenziale, che i cittadini-consumatori ancora palesano.

Da qui si potrà ricominciare quando il picco recessivo sarà superato.

 

Fig. 10 - Previsioni per le principali variabili e per le determinanti economiche dei consumi

Fonte: elaborazioni Ufficio Studi Confcommercio

 

In assenza di ulteriori interventi di politica economica o fiscale, anche incorporando un certo ‘ottimismo’ nell’esercizio previsionale, il profilo del prodotto lordo si palesa flettente nell’anno in corso per almeno il 2,3% e sostanzialmente piatto nel 2010. Se si considera che il primo quarto congiunturale negativo per il Pil italiano risale all’ultimo trimestre del 2007, si ha una visione efficace della durata di quella che senz’altro definiamo recessione acuta e che potrebbe trasformarsi in depressione (Pil a -4% nell’anno in corso) se dovesse venire a mancare il contributo dei consumi delle famiglie. La caduta degli investimenti si avvicina al 10% nell’anno in corso, correlata a una caduta della fiducia degli imprenditori manifatturieri del 34% circa a partire dal picco ciclico del terzo trimestre 2007. Se la fiducia delle famiglie dovesse contrarsi, ciò potrebbe comportare una riduzione dei consumi di ben oltre l’1% da noi indicato, con riflessi profondi sulle performance del Pil. La trasformazione della recessione in depressione, dovrebbe ormai essere chiaro, dipende dalla tenuta o meno dei consumi delle famiglie.

Ed è proprio da queste riflessioni che nasce la proposta di Confcommercio per contrastare i pericoli di depressione economica. Pur sottolineando, infatti, che non è il tempo delle critiche bensì della fattiva e fiduciosa cooperazione tra istituzioni e forze sociali, va evidenziata l’esigenza di un’azione di Governo che assuma la forza necessaria per trasmettere una visione strategica nella quale le famiglie e gli imprenditori possano confidare.

Gli interventi in deficit non vengono presi in considerazione, anche se avrebbe qualche senso immaginare uno sviluppo degli investimenti in infrastrutture - soprattutto su quelle cantierabili nel giro di 4-8 mesi - finanziato, d’accordo con l’Unione Europea, con l’emissione di ulteriore debito pubblico. La spesa per investimenti accrescerebbe la PTF, ma in un primo periodo, forse lungo, ne soffrirebbe quella virtù essenziale che è l’equilibrio nei saldi di finanza pubblica.

Appare invece irrinunciabile la detassazione dei redditi da lavoro. La proposta va nella direzione di una significativa riduzione della pressione fiscale con beneficio esteso agli incapienti, completata da un rafforzamento del sostegno al reddito dei soggetti privi di occupazione (fig. 11). L’intervento non genera deficit incrementale in quanto sarebbe finanziato largamente da due punti percentuali di risparmi sulla spesa pubblica non inclusiva della componente sociale né degli interessi passivi sul debito (fig. 12). A complemento o in alternativa alla strategia della riduzione della spesa inefficiente, si potrebbe ipotizzare un conteggio di risparmi realizzabili da una correzione ai parametri di eleggibilità per l’accesso alle pensioni di anzianità e vecchiaia.

 

Fig. 11 - La riduzione della pressione tributaria 

Fonte: elaborazioni Ufficio Studi Confcommercio

 

Sfruttando calcoli molto approssimati, si suggerisce, per i redditi 2009, una riduzione della prima aliquota dell’Irpef dal 23% al 22%. Il costo ammonterebbe a 4,3 miliardi di euro. Per gli incapienti - coloro che con l’attuale regime di detrazioni e deduzioni, dati i loro redditi, presentano a maggio 2009 per i redditi del 2008 un’imposta nulla - oltre alla nuova curva di aliquote per il 2009, si aggiungerebbe il beneficio dell’imposta negativa pari all’ammontare di detrazioni di cui usufruirebbero se l’azzeramento dell’imposta non facesse perderne il diritto. Ad esempio, se per un certo contribuente l’imposta prima delle detrazioni fosse 800 euro e avesse diritto a detrazioni, per vari motivi, pari complessivamente a 1.000 euro, con il regime attuale l’imposta dovuta sarebbe zero, con una perdita teorica di beneficio di euro 200. L’imposta negativa proposta renderebbe invece pienamente fruibile tale beneficio.

 

Fig. 12 - Conteggi di massima per la possibile copertura della manovra di riduzione della pressione fiscale

RISPARMI SPESA PUBBLICA

 

LE USCITE PUBBLICHE TOTALI NEL 2008 AMMONTANO A 776 MLD. EURO

(CIRCA 50% DEL PIL):

AL NETTO DELLA SPESA SOCIALE E DEGLI INTERESSI LA SPESA VALE 416 MLD., DI CUI 59 IN CONTO CAPITALE.

 

PER LA COPERTURA DELLA STRATEGIA DI RILANCIO DELL’ECONOMIA ATTRAVERSO LA RIDUZIONE DELLA PRESSIONE TRIBUTARIA OCCORREREBBE EFFETTUARE UN RISPARMIO DI CIRCA 2 PUNTI PERCENTUALI

 Fonte: elaborazioni Ufficio Studi Confcommercio

 

Poiché il 99% degli incapienti oggi è concentrato nello scaglione d’imposta fino a 15mila euro, i conteggi effettuati portano a un ulteriore beneficio fiscale per i contribuenti meno ricchi di altri 4,9 miliardi di euro, pari alla somma delle detrazioni che oggi si perdono per incapienza (perché rendono nulla l’imposta dovuta prima di essere completamente sfruttate secondo il diritto maturato). La manovra fin qui descritta, attivabile da maggio 2009 attraverso i sostituti d’imposta per chi presenta dichiarazioni o attraverso l’Inps per la quota di pensionati aventi diritto, costerebbe su base annuale circa 8,9 miliardi di euro, tenuto conto della proposta di incrementare l’ultima aliquota di un punto (da 43% a 44%) che porterebbe maggiore gettito per circa 300 milioni di euro. Quest’ultima indicazione avrebbe il senso di neutralizzare il beneficio per i contribuenti più ricchi derivante dallo sgravio per la riduzione della prima aliquota. In realtà, la neutralizzazione della maggiore imposta netta si avrebbe fino a 105mila euro di reddito lordo, mentre, ad esempio, un contribuente con reddito pari a 150mila euro pagherebbe 450 euro di imposte in più in ragione d’anno. Poco meno di 11 milioni di contribuenti incapienti fino a 15mila euro di reddito complessivo avrebbero un vantaggio pro capite di circa 500 euro, essendo il resto del vantaggio spalmato, come detto, sui contribuenti fino a 75mila euro di reddito lordo. 

Il complesso della manovra abbozzata andrebbe completato con un sostegno al reddito di coloro che risultano privi di lavoro, non presentano dichiarazione dei redditi e non hanno né la possibilità di usufruire dell’imposta negativa né di altre forme di sostegno. Un conteggio approssimato che prevede di raddoppiare l’attuale contributo provvisorio pari al 10% dell’ultima retribuzione per i parasubordinati che sottostanno ad alcuni stringenti requisiti (per circa 100mila aventi diritto si passerebbe da un contributo una tantum di 1.000 euro a uno di 2.000 euro) e l’estensione ai precari potenzialmente a rischio e privi dei requisiti indicati dal Governo (circa 400mila che beneficerebbero di un bonus di 2.000 euro una tantum) per accedere al sostegno assistenziale, costerebbe circa 900 milioni di euro in ragione d’anno (salvo poi gli effetti dell’auspicato miglioramento del tenore dell’economia dopo il 2010).

Il costo totale della manovra fiscale comprensiva del sostegno al reddito di tipo assistenziale, sarebbe di circa 9,8 mld. di euro (fig. 11).

La copertura andrebbe prevalentemente sviluppata dal lato dei risparmi di spesa pubblica improduttiva. Le risorse necessarie corrisponderebbero a poco più del 2% della spesa pubblica attuale al netto della spesa sociale e degli interessi. Una frazione che non può essere ritenuta inverosimile.

E’ necessario ipotizzare, sempre con grande cautela, che il resto del disavanzo temporaneo verrà poi coperto dalle maggiori entrate connesse al maggiore livello di attività economica, conseguibile con la manovra di riduzione della pressione tributaria.

Infatti, come descritto nella fig. 13, poiché le risorse aggiuntive per le famiglie, derivanti dalla rimodulazione delle aliquote e dall’introduzione dell’imposta negativa, sarebbero considerate permanenti, esse si tradurrebbero in maggiori consumi per circa i tre quarti (per la metà, invece, rispetto ai 900 milioni di sostegno temporaneo ai redditi dei disoccupati senza altri strumenti di sostegno).

Dai maggiori conseguenti consumi, al fine di ipotizzare un impatto sul prodotto interno lordo della manovra, è poi  necessario togliere una parte che, attraverso vari canali, andrebbe a generare valore aggiunto all’estero (attraverso le importazioni, per esempio).

 

Fig. 13 - Effetti economici della manovra di riduzione della pressione tributaria 

Fonte: elaborazioni Ufficio Studi Confcommercio

 

Alla fine del processo possiamo ipotizzare un Pil aggiuntivo pari all’1,4% rispetto allo scenario tendenziale (con maggiori consumi dei residenti pari allo 0,8%). Ciò implicherebbe che l’anno 2009 potrebbe risultare non peggiore del precedente, limitandosi la contrazione del Prodotto lordo allo 0,9%. Si aprirebbero spazi per una concreta e meno debole ripresa nel 2010.

Le ipotesi su cui si basano i risultati dei semplici calcoli descritti sono molto semplicistiche. Non solo è necessario il consenso politico sull’articolazione della manovra, ma si avrebbe anche bisogno di una burocrazia efficiente che trasformasse rapidamente la decisione politica in strumenti operativi per imprese (credito) e famiglie (riduzione della pressione tributaria).

La profondità della recessione dovrebbe stimolare presso i cittadini e le istituzioni, nell’amministrazione e nelle parti sociali, il massimo spirito cooperativo al fine di realizzare un’efficace azione di contrasto ai più gravi effetti dell’attuale crisi economico-finanziaria mondiale.


[1] Tutti dati e le previsioni contenute sono elaborazioni dell’Ufficio Studi Confcommercio su varie fonti (Commissione Europea, Istat, indagini private).

Banner grande colonna destra interna

Aggregatore Risorse

ScriptAnalytics

Cerca