Perché la relazione tra evasione e uso del contante è assurda

Perché la relazione tra evasione e uso del contante è assurda

Su "Il Foglio", l'analisi del direttore dell'Ufficio Studi di Confcommercio, Mariano Bella: "Se si vuole combattere l'evasione, una patologia sociale, si attacchino le cause (come la pressione fiscale) e non gli effetti".

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21 ottobre 2015

 

Si è scoperto che l'innalzamento del limite all'uso del contante, da mille a tremila euro, avrebbe i seguenti effetti: incremento del riciclaggio, della corruzione, dell'evasione, del sommerso economico, dell'infedeltà coniugale (maschile: potendo spendere in contanti i fedifraghi comprano più gioielli, argomentazione leggermente offensiva perché presuppone, nel rapporto, qualche sinallagma). Per quanto strampalato, l'ultimo effetto è molto più verosimile degli altri. Gli oppositori del provvedimento, che assegnano la patente di evasori a tutti gli italiani, lasciando loro limitate facoltà di prova contraria, citano correlazioni per lo più spurie: più contante vuole dire più evasione, secondo loro, mentre la relazione corretta va dalla maggiore evasione alla maggiore circolazione di contante. Allora se si vuole combattere l'evasione si attacchino le cause e non gli effetti. L'evasione è una patologia sociale e per capirla bisogna analizzare i comportamenti individuali. Il grado di evasione dipende, innanzitutto, dal livello della pretesa fiscale: maggiore è la pressione fiscale maggiore è l'incentivo a nascondere imponibile. Non è bello, ma è razionale e, in ogni caso, è. Da qui bisogna partire trovando strumenti per raccordare quello che conviene con quello che è giusto. Il professor Visco dice che sarà d'accordo con il maggior uso del contante quando l'evasione italiana sarà a un livello fisiologico. Io rilancio, e propongo addirittura l'abolizione del contante se portiamo la pressione fiscale ai livelli inglesi (dal nostro 43,6 per cento al 34,9). L'evasione dipende poi dal costo dell'adempimento dell'obbligazione fiscale: secondo studi internazionali in Italia si impiegano 269 ore-uomo per gli obblighi fiscali in azienda, contro 218 ore della Germania. Tagliamo questo gap e si ridurrà anche il gap tra i livelli di evasione fiscale. Se devo pagare 100 di imposte e per farlo vado incontro a oneri burocratici aggiuntivi pari a 20 proverò a nascondere base imponibile in modo tale che il costo complessivo dell'adempimento si avvicini all'imposta dovuta che avrei pagato per intero in assenza di costi accessori. Non è bello, ma è razionale. Non è giustificabile, ma comprensibile. Ancora. Il grado di evasione dipende dall'efficacia dei controlli: meno spettacolo, più controlli mirati. Non si capisce se le famigerate banche dati ci siano davvero. Che ci siano e non si parlino tra loro è un refrain non più sopportabile. Anche la stessa teoria del- l'aumento delle pene per gli evasori non mi convince del tutto: se la probabilità di essere scoperti è bassa o nulla, anche la pena di morte sortirà effetti modesti. Anzi, più urlata è una minaccia poco credibile, più si diffonderà la patologia. Citare gli Stati Uniti, dove se prendono un evasore lo mettono dentro e buttano la chiave, è un insulto: la pressione fiscale in America è 16 punti inferiore alla nostra. Altro mondo, altre regole (tra loro coerenti). Infine, il grado di correttezza fiscale, e quindi di evasione, dipende dalla percezione dei servizi pubblici. I talebani della lotta all'evasore (non all'evasione) fanno finta di non capire o non capiscono davvero: non sostengo che chi non riceve servizi pubblici adeguati sia legittimato a evadere; dico semplicemente che, come testimoniato da diversi studi empirci, a parità di altre condizioni, peggiore è la percezione dell'output pubblico, minore è la propensione a un comportamento fiscale corretto. Può non piacere, ma è un fatto conseguente a un comportamento ragionevole, visto che la correttezza è una caratteristica che vale per entrambe le controparti. Aggiustiamo questi deficit e il livello di evasione si ridurrà considerevolmente.

 

tratto da "Il Foglio" del 17/10/2015 di Mariano Bella, direttore Ufficio Studi Confcommercio

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