Rapporto Confcommercio-Legambiente sull'"Italia del disagio insediativo"

Rapporto Confcommercio-Legambiente sull'"Italia del disagio insediativo"

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7 marzo 2007

Perché, insieme agli amici di Legambiente, analizziamo, da qualche anno, tendenze economiche e sociali del territorio italiano, cercando di leggere più in profondità ciò che avviene in un'Italia che ha oltre 22.000 centri abitati e in cui il 98% dei Comuni conta meno di 10.000 abitanti?

La risposta è molto semplice. Perché Confcommercio rappresenta larghissima parte di quel tessuto dell'impresa diffusa – fatto, per quel che ci riguarda, di piccole, medie e grandi imprese del commercio, del turismo, dei servizi, dei trasporti – che costituisce il perno dei processi di sviluppo territoriale.

Sono, insomma, le imprese tipiche di quel modello di sviluppo italiano che però è entrato in difficoltà quando è stato chiamato a confrontarsi con lo scenario della competizione globale, senza più lo schermo difensivo delle svalutazioni pro-competitive della lira.

Abbiamo così conosciuto, in particolare tra il 2000 e il 2005, anni di crescita molto lenta, nel quadro congiunturale mondiale ed europeo determinatosi dopo l'11 settembre del 2001.

Oggi, per fortuna, il Paese ha ripreso a crescere, sulla scorta di qualche buona riforma – come quella del mercato del lavoro – e, ancora una volta, sulla scorta di quanto le imprese hanno saputo autonomamente fare per accrescere il valore di prodotti e servizi.

Il PIL è cresciuto del 2% nel 2006 e tutti speriamo che il 2007 si possa anch'esso chiudere con un analogo tasso di crescita.

Il buon senso dice, dunque, che dovremmo cogliere questo momento – il momento di quel tanto di ripresa che c'è – per consolidare ed irrobustire crescita e sviluppo.

Mettendo al centro di un possibile "patto per la crescita" l'agenda delle liberalizzazioni strategiche, la riforma della pubblica amministrazione e gli investimenti in infrastrutture ed innovazione e tecnologia.

Insomma, sto provando ad offrire una chiave di lettura, attuale e politica, delle analisi e delle conclusioni del Rapporto.

Quel che abbiamo visto è, infatti, la fotografia degli ultimi dieci anni di un Paese che si muove e si trasforma. Ma lo fa con forti diversificazioni territoriali, con un'espansione del benessere a macchia d'olio e trainata dalle aree metropolitane e, comunque, con la persistenza di forti disagi strutturali.

È l'Italia a diverse velocità.

Velocità diverse che rendono più articolata la visione tradizionale ed esclusiva del divario di crescita tra il Mezzogiorno e le altre aree del Paese.

Ci sono, dunque, passi diversi, che risentono, in particolare, del trend demografico di un'Italia che invecchia e che fa pochi figli.

Il che – sia detto non per inciso – dovrebbe far riflettere sul paradosso di una spesa sociale italiana assorbita al 70% dalla spesa previdenziale e in cui, invece, davvero poco resta per le famiglie e per la risposta al disagio.

Ci sono – dicevo – passi diversi. Ma, in generale, quel che conta, nel determinare la diversa velocità del passo, è la qualità del capitale umano, è il livello di scolarizzazione della popolazione.

Il che ci dovrebbe far riflettere – anche qui non per inciso – sulla centralità degli investimenti per la scuola e per l'università, per la ricerca, lo sviluppo e l'innovazione.

Chi, poi, ha un passo più veloce può generalmente far conto su una maggiore capacità di valorizzare il territorio ai fini dell'offerta turistica e su una buona dotazione di servizi, a partire da quelli commerciali.

E qui vorrei lasciare spazio ad una proposta, visto che l'analisi è stata fatta in lungo e in largo.

L'Italia deve puntare, ad esempio, alla leadership del cosiddetto "capitalismo culturale". Quello, cioè, capace di valorizzare il patrimonio della nostra identità. Identità culturale, storica ed ambientale, ma anche frutto di un modo tipicamente italiano di vivere e di consumare. Un'identità, tra l'altro, non delocalizzabile.

L'amico Ermete Realacci – che ringrazio per essere oggi con noi, così come ringrazio il Presidente di Legambiente Roberto Della Seta – è tra i protagonisti della riflessione su questa possibilità.

Sulla possibilità, cioè, di mettere al centro delle prospettive di crescita e sviluppo del Paese i concetti dell'identità territoriale e della qualità. Legati tra loro sotto l'insegna della soft economy.

Queste scelte non possono più essere definite di nicchia perchè già rappresentano un buon 20% della formazione del PIL.

Ma il punto è che sarebbe necessario investire su queste scelte di nicchia.

Investire non in termini di incentivi a carico della finanza pubblica, ma piuttosto in termini di attenzione politica.

Mettendo in campo una rete di relazioni tra iniziativa privata e funzione pubblica capace di fare sistema.

Se così sarà – e noi lo speriamo – magari scopriremmo, alla prossima edizione del Rapporto Confcommercio-Legambiente, che i territori lepre sarebbero cresciuti e che le tartarughe, le cicale e le formiche si sarebbero ridotte.

Magari scopriremmo che più talenti si starebbero confrontando con la competizione globale e che, nel complesso, il Paese avrebbe imboccato, con maggiore determinazione, la cosiddetta via alta alla competitività.

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