SERGIO BILLE' AL CONVEGNO "CORPORATE SOCIAL RESPONSIBILITY: ETICA ED IMPRESE"

SERGIO BILLE' AL CONVEGNO "CORPORATE SOCIAL RESPONSIBILITY: ETICA ED IMPRESE"

Roma, 22 novembre 2002

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22 novembre 2002
Un saluto a tutti i partecipanti e un ringraziamento alla Festival Crociere per avermi offerto l’opportunità di intervenire su di un tema che mi sta particolarmente a cuore

Un saluto a tutti i partecipanti e un ringraziamento alla Festival Crociere per avermi offerto l’opportunità di intervenire su di un tema che mi sta particolarmente a cuore.

Ritengo, infatti, che l’iniziativa di affrontare e invitare a riflettere, come oggi abbiamo occasione di fare, su un tema come quello della responsabilità sociale delle imprese, meriti un plauso non solo da parte mia, ma da tutta la società italiana.

E’ ormai da qualche anno che, sotto lo stimolo di varie componenti della società civile e del mondo intellettuale ed economico, ci si interroga e ci si preoccupa degli aspetti e delle responsabilità etiche correlate al “fare impresa”.

Tutti noi abbiamo presenti le indagini, i rapporti e i volumi scritti sui temi della responsabilità dell’impresa nelle condizioni di lavoro e di vita degli addetti alla produzione nei posti più lontani del mondo, le azioni intraprese a livello mondiale per indurre le aziende responsabili a mutare condotta e i risultati ottenuti, che provano come il discorso etico possa realmente aggregare consenso e condizionare i comportamenti aziendali.

Mentre negli Stati Uniti e in altri paesi europei queste riflessioni, portate avanti dalla stampa e dall’opinione pubblica in un dialogo con le imprese, sono sfociate in azioni di comunicazione e nella creazione dei codici etici d’impresa ormai molto diffusi, l’Italia ha soltanto da poco tempo iniziato ad affrontare seriamente il tema della responsabilità sociale.

Non che prima, quando non se ne parlava pubblicamente, il problema non fosse presente agli imprenditori e ai dirigenti: adesso però, dal tribunale privato della coscienza del singolo individuo (il responsabile delle scelte aziendali), gli interrogativi e le questioni di portata etica si sono ampliate e coinvolgono la platea dei consumatori.

Consumatori i quali si considerano – giustamente, tengo a precisare – essi stessi responsabilizzati e coinvolti, se il comportamento dell’azienda di cui sono clienti non rispetta – o non fa rispettare - alcune norme fondamentali di un codice etico che almeno a parole tutti condividiamo, e che riguardano i più elementari diritti umani di chi lavora, non importa dove egli si trovi nel mondo.

Esempio eclatante dell’atteggiamento dei consumatori italiani è lo sviluppo dei negozi di commercio “Equo e solidale”, che attestano come una quota consistente del pubblico (e mi domando, se i negozi di questo tipo fossero più diffusi, quanta clientela attirerebbero in più) si senta chiamata a esprimere concretamente il proprio appoggio ai paesi in via di sviluppo, o, meglio, ai contadini che vi lavorano.

Possiamo forse annoverare questa presa di coscienza tra i tanti effetti della globalizzazione.

Adesso, è facile non solo affidare le produzioni di componenti del prodotto finito a subfornitori in paesi lontani, ma è facile anche la comunicazione, lo scambio di notizie sulla realtà del lavoro presso quei subfornitori, e la diffusione a livello planetario delle informazioni acquisite.

Il “villaggio globale” è una realtà, e il controllo sociale - elemento culturale tipico della comunità di villaggio che preserva il rispetto delle norme e sanziona il membro che non le accetta - non può esserne separato.

Ormai, non si tratta solo di riconoscere questo dato di fatto, ma, soprattutto, di prendere le misure più appropriate per fondare il proprio business su basi corrette e sicure e, infine, di poter attestare la propria correttezza, in modo da meritare la fiducia dei consumatori, un gruppo che, come abbiamo visto, ha imparato ad essere sempre più consapevole e rigoroso. Ma questo processo, se vogliamo ragionare tenendo i piedi per terra, e guardare al tessuto imprenditoriale che in Italia può venirne coinvolto, non potrà che essere lento e, se mancheranno gli opportuni stimoli, avanzerà non senza resistenze e incertezze. Se, quindi, da una parte mi è tanto più gradito congratularmi oggi con chi ha il merito di intraprendere un percorso che comprende non solo la certificazione etica e quella della qualità del prodotto, ma l’elaborazione di un bilancio sociale e di uno ambientale, l’elaborazione di una carta etica per il crocerista e un codice etico della responsabilità sociale - ponendosi come esempio per tanti imprenditori del terziario - dall’altra, invece, voglio sottolineare che non può essere tralasciata una riflessione che aiuti a individuare le misure più adeguate a colmare le distanze che ci separano da un’adesione diffusa ai modelli della responsabilità sociale.

Innanzitutto, intendo rivendicare al terziario la capacità di diventare motore di questa evoluzione nel modo di fare impresa.

Ritengo infatti che il nostro settore, per la sua stessa posizione di intermediario tra produttore e consumatore finale, abbia un ruolo particolare da giocare nel processo di avvicinamento a un comportamento etico e alla certificazione di responsabilità sociale da parte dell’intero sistema economico italiano.

Se, infatti, forme di controllo e verifica sull’etica dei produttori saranno richieste, evidenziate, valorizzate dai rivenditori di prodotti e servizi, se il terziario di mercato sceglierà di avvalersi di una forma di certificazione di responsabilità sociale, allora tutto il processo avanzerà più rapidamente.

Gli stessi consumatori – tramite il quotidiano contatto con i distributori - saranno sempre più sensibilizzati su questi temi, e impareranno a indirizzare le proprie scelte abbandonando la ristretta prospettiva della convenienza personale e immediata (risultato spesso solo di disinformazione e isolamento culturale), per dare invece all’espressione “convenienza” il significato più ampio, e tutto sommato più appropriato, di maggiore valore in termini di rapporto costi/benefici per il futuro, quello proprio e quello collettivo.

I produttori, dal canto loro, verranno sollecitati a conseguire la certificazione di responsabilità sociale sia dall’atteggiamento dei rivenditori che dalle scelte dei consumatori e, in tal modo, si attiverà un circolo virtuoso di stimoli e risposte positive che non si verificherebbe se si lasciasse tutto all’iniziativa delle sole imprese produttrici, le quali si avvicinerebbero alla certificazione solo al fine di entrare, alla pari con i competitori, nei mercati esteri.

Rivolgiamo ora la nostra attenzione al problema degli strumenti attraverso i quali incentivare, nel mondo della distribuzione e in quello della produzione, l’adesione a sistemi di certificazione della responsabilità sociale.

Abbiamo già convenuto che tale adesione è non solo auspicabile, né rappresenta solo un vantaggio competitivo in più per l’azienda.

Sappiamo, infatti, che economisti di fama, come il premio Nobel Amartya Sen, sostengono che lo sviluppo non può essere separato dal rispetto dei diritti umani e dalla libertà in tutto il pianeta, e sappiamo che solo così inteso, lo sviluppo costituisce uno dei valori che caratterizzano la nostra cultura e per i quali possiamo dirci orgogliosi di essere europei e occidentali.

Sono quindi convinto che, data l’attuale situazione, sia necessario che lo Stato italiano debba imprimere un segnale forte e positivo di avvio e di stimolo al processo virtuoso di cui ho appena parlato.

Non è il momento di stare fermi, di “aspettare e vedere” dove si indirizzerà la scelta degli imprenditori se lasciati a sé stessi in un campo così delicato e di estrema importanza per tutti noi, e per la credibilità del nostro Paese nel mondo.

E’ quindi necessario sostenere, con aiuti concreti, gli imprenditori che decidono di affrontare il percorso di una certificazione etica che, lo sappiamo bene, comporta un consistente impegno economico per l’azienda, anche per gli obblighi a cui si sottopone.

Riterrei quindi necessario che venga riconosciuto il merito di chi si vuole certificare nell’ambito della responsabilità sociale e che, sulla falsariga di quanto è stato fatto con il protocollo di aiuti alle imprese per  la certificazione ambientale (ma con un diverso grado di lungimiranza, dato che in quel caso il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio ha limitato le sovvenzioni a un solo settore dell’economia, quello industriale), il Governo voglia avviare una politica seria e strutturata di sostegno a quelle imprese che vorranno intraprendere il percorso della certificazione secondo il sistema SA 8000, affinché questo importante strumento di gestione sia visto non come un vincolo, ma come un fattore di successo da sfruttare per rispondere alle sfide poste dalla competizione globale.

Solo in tal modo, credo, sarà possibile affrontare, con possibilità di successo, sia la lotta per accrescere la qualità, la trasparenza e la correttezza delle prestazioni professionali, sia quella per la competitività delle nostre imprese sul mercato europeo e mondiale.

La competitività è, infatti, la frontiera che segna, con chiarezza, il confine tra chi sta dentro e chi sta fuori dalle dinamiche e dalle accelerazioni dello sviluppo economico e sociale.

Una competitività che non è un dato assoluto o astratto, ma che si misura in termini di differenziale con le aree più forti.

Le nostre aziende saranno competitive solamente se potranno operare all’interno di un sistema economico, territoriale e istituzionale altrettanto competitivo.

E’ un obiettivo arduo e difficile perché lo scenario dei mercati contendibili è aspro e selettivo: chi opera su questo terreno sa bene che le imprese o vincono la sfida o muoiono.

E se muoiono le imprese, muore il Paese.

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