SERGIO BILLE' AL CONVEGNO DI FEDERAICPA

SERGIO BILLE' AL CONVEGNO DI FEDERAICPA

Motorshow di Bologna, 6 dicembre 2001 (testo integrale)

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6 dicembre 2001

Per motivi di chiarezza vorrei dividere il mio intervento in tre parti distinte che però, come potrete vedere, hanno tra loro non solo punti di contatto, anzi di incrocio ma sono da considerarsi anelli della stessa catena: basta che uno di questi anelli sia debole perché anche gli altri lo divengano.

 

Quindi partirò da un’analisi dello scenario macroeconomico per poi parlare dell’evoluzione dei consumi e arrivare, infine, al problema che più vi tocca da vicino e cioè le prospettive di sviluppo del parco automobilistico.

 

Lo scenario, purtroppo, è quello che è: i fenomeni recessivi maturati negli Stati Uniti e che avevano assunto una certa consistenza, anche a causa del crollo dell’economia giapponese, già prima dei tragici fatti dell’11 settembre, stanno provocando anche in Europa fenomeni analoghi chiaramente percepibili soprattutto in Germania ma anche, sia pure per ora in minor misura, negli altri paesi dell’Ue, Italia compresa.

 

Le incertezze sulla durata della guerra in Afghanistan e di un suo possibile allargamento o dislocamento in altre aree accentuano le preoccupazioni degli analisti.

 

Tutto ciò, in Italia, si sta traducendo, da un lato, in un sensibile rallentamento dell’attività economica - brusca frenata produttiva delle aziende manifatturiere a causa del calo degli ordini sia interni che esteri e di quelle che operano nel settore dei servizi - e, dall’altro, un peggioramento del clima di fiducia dei consumatori i quali, in attesa di un domani che si spera possa essere migliore, sono portati a tirare i remi in barca.

 

Bastano alcuni dati per esemplificare questa situazione che, se non è ancora di vera e propria crisi, poco ci manca. Primo, la caduta del Pil che, dal +2,9% del 2000, è scivolato, nel 2001, ad un +1,8% che corre il rischio di essere ulteriormente ridimensionato se i dati dell’ultimo trimestre confermeranno lo stesso trend negativo. E il 2002, a meno di fatti che portino ad una sostanziale revisione dei parametri attuali (fine della guerra, ridecollo dell’economia americana in tempi assai brevi), appare ancora più grigio con un +1,5- 1,3 di Pil cioè un aumento fatto solo di briciole con le conseguenze che potete immaginare. Nel 2003 la risalita – che dovrebbe aggirarsi da un +2,3 ad un più ottimistico +2,7%- dovrebbe essere un dato certo, ma ci sono pur sempre, di mezzo, 12 mesi di autentico stress per i mercati che non vanno sottovalutati. Anche perché un Pil confinato all’1,3 significherà minori risorse anche per lo Stato che quindi vedrebbe ridotte o addirittura negate le sue capacità di intervento sul fronte fiscale per un recupero del potere di acquisto delle famiglie e per una maggiore competitività delle nostre imprese sui mercati.

 

Con prospettive di crescita del Pil così ridotte anche le previsioni, per il 2002, dei consumi e delle spese delle famiglie si riducono purtroppo a "sottilette": un risicato +1,1% che parla da solo.

 

Per gli investimenti il quadro appare lievemente meno negativo in quanto questa componente, nonostante in contesto di riferimento presenti molti elementi di criticità, potrebbe beneficiare sia del basso costo del denaro sia degli sgravi fiscali previsti dalla Tremonti bis.

 

Ovviamente tutti sperano che accada qualcosa che consenta all’economia di riprendere il suo ciclo virtuoso prima del tempo ma questo "qualcosa" è, per il momento, difficile da ipotizzare: un recupero "a salti" dell’economia americana? Una revisione del patto di stabilità che consenta ai paesi dell’Ue di operare con maggiore elasticità sul fronte degli investimenti? Diverse strategie finanziarie da parte del fondo monetario internazionale e della BCE che consentano veri e propri salti di corsia dell’economia globale?

 

Ce lo auguriamo tutti ma i numeri sono una cosa, i semplici auspici un’altra. Tutta diversa.

 

E’ impensabile però- questo già lo si può dire- che le strutture dell’Ue non facciano qualcosa per supportare, in modo significativo, una moneta unica che, proprio perché in fase di decollo, ha bisogno, per raggiungere la sua giusta orbita, del propellente necessario. E speriamo che questo "propellente" venga trovato al più presto e sia quello giusto.

 

Ma vi avevo promesso anche qualche dato sull’evoluzione dei consumi e anche sui mutamenti che stanno intervenendo nelle abitudini dei consumatori.

 

Perché l’analisi sia corretta bisogna partire da un dato: oggi il 25% dei nuclei familiari risulta composto, in Italia, da ultrasessantacinquenni. Nel 2025 questa quota salirà al 31% per raggiungere, nel 2050, il 34,5%. Il tutto a natalità costante perché se improvvisamente gli italiani ricominciassero a fare bambini a schiera, il quadro ovviamente cambierebbe.

 

E quanto spende la famiglia italiana? La media mensile si aggira, in media, sui 4 milioni e 200 mila lire destinata per il 20% ai prodotti alimentari e per il restante 80% ai prodotti non alimentari.

 

Ma c’è anche da notare che per una famiglia composta da persone di oltre 65 anni, la spesa media mensile è, invece, di 2 milioni e 667 mila lire cioè- ed è un dato su cui riflettere- quasi il 37% in meno di quanto spenda la famiglia media.

 

Ma questi dati, per essere maggiormente comprensibili, vanno disaggregati ancora di più. Primo, non bisogna dimenticare che da molti decenni l’Italia detiene il non brillante primato del più basso indice di natalità dei paesi industriali: ogni famiglia si articola su 2,7 componenti, cioè minifamiglie. Secondo, le famiglie composte da over 65 sono poco meno di 5 milioni e 300 mila, il 56% delle quali costituito da famiglie per modo di dire perché hanno un solo componente. Il restante 44% è composto, invece, da coppie senza figli. Questi nuclei familiari insomma hanno un numero di componenti largamente inferiore alla media nazionale.

 

Tutto ciò si riflette anche sul livelli dei consumi. Difatti la spesa media mensile familiare degli anziani è inferiore alla media nazionale del 58% per l’abbigliamento, del 70% per gli elettrodomestici bruni, l’Hi-Fi ed altri beni di elevato contenuto tecnologico (personal computer e cellulari), dell’80% per i servizi ricreativi, del 67% per alberghi e viaggi, per il 76% per la spesa di pasti e consumazioni fuori casa.

 

Gli ultrasessantacinquenni, inoltre, usano meno l’auto tanto è vero che il consumo di benzina risulta inferiore di circa il 70% alla media nazionale. Ma questo va considerato come un dato provvisorio e probabilmente rivedibile nel tempo per due motivi. Primo, per l’allungamento dell’età media. Oggi i parametri stanno rapidamente cambiando e non si può certo dire che chi ha superato i 65 anni ma vive in buona salute debba considerarsi "anziano" a tutti gli effetti. Quindi anche la sua "mobilità" è destinata a crescere. Secondo, perché le più moderne tecnologie hanno, da un lato, aumentato il livello di sicurezza delle auto e, dall’altro, la loro manovrabilità e il loro possibile utilizzo.

 

E affronto, infine, il problema che tocca più da vicino chi oggi mi sta ascoltando e cioè l’uso dell’auto privata. Alla fine del 2001 il parco autovetture italiane dovrebbe aver superato i 34 milioni di unità e, difatti, il nostro paese, fra tutte le economie del G7 e all’interno dell’Unione Europea, mantiene saldamente il primato del più elevato numero di autovetture circolanti in rapporto alla popolazione. Sono dati che probabilmente conoscete ma che forse vale la pena di ricordare: in Italia circolano quasi 580 auto private per mille abitanti, contro le 520 degli Stati Uniti, le 500 della Germania, le 480 della Francia e le 360 del Giappone.

 

Al di là degli aspetti che potrebbero essere spiegati in termini di "sociologica dei consumi", identificando l’auto come una sorta di "status symbol", esistono motivazioni strettamente connesse alla vita pratica e alle esigenze di mobilità. Difatti, ogni giorno oltre il 70% dei 21 milioni di persone che devono raggiungere il luogo di lavoro lo fanno utilizzando la propria auto. Nelle maggiori aree metropolitane, dotate di maggiori trasporti pubblici, questa percentuale scende al 61%.

 

Ciò, in termini macroeconomici, ha naturalmente un enorme impatto. Non mi riferisco soltanto alle variazioni dei prezzi dei prodotti petroliferi, fenomeni che spesso hanno provocato, nei bilanci familiari, veri e propri choc, ma anche ai problemi di adeguamento alle normative europee per quanto riguarda l’eliminazione, nell’arco dei prossimi due anni, della benzina super.

 

Stante il fatto che l’Italia è tra i paesi che hanno un’età media dei veicoli circolanti tra le più elevate, è evidente che il rinnovo di buona parte del parco automobilistico diverrà un elemento di stimolo e di sviluppo del mercato.

 

Secondo stime di settore, con l’abolizione dell’Imposta provinciale di Trascrizione (Ipt) e la relativa addizionale sui passaggi di proprietà delle vetture usate, potrebbe mettersi in moto un circolo virtuoso capace di accelerare la sostituzione delle auto non catalizzate, senza costi per lo Stato e con vantaggi concreti sia per il consumatore che per il mercato. In un arco di cinque anni, dal 2002 al 2006, si accelererebbe la sostituzione dei circa 10 milioni di veicoli più inquinanti e meno sicuri con altrettanti veicoli di seconda mano ma catalizzati e muniti delle dotazioni di sicurezza come airbag e spesso anche Abs. In parallelo, si creerebbe un’ulteriore domanda di 200 mila vetture nuove l’anno che non solo andrebbe a sostenere un mercato che si prevede in flessione ma garantirebbe anche allo Stato un maggiore gettito.

 

Basta farsi un po’ di conti. Se, da un lato, l’abolizione dell’Ipt sui passaggi di proprietà dell’usato toglierebbe allo Stato, nell’arco del periodo indicato, risorse - secondo stime di settore - per 5.163 miliardi di lire, i maggiori introiti dell’Iva e dell’Ipt su 200 mila immatricolazioni aggiuntive gli restituirebbero 5.350. Insomma un’operazione che, negli Stati Uniti, verrebbe definita "win-win-win": vincerebbe lo Stato che, a costo zero, realizzerebbe risultati certi contro l’inquinamento, vincerebbe il mercato che, in questo modo, sarebbe in grado di mantenere la tonicità di questi ultimi due anni con almeno 2,4 milioni di vetture immatricolate, vincerebbe, infine, il consumatore che non dovrebbe più sostenere spese che, nel loro insieme, sono già al di là della soglia di sopportabilità.

 

Ma lo Stato ha anche altre, ormai indifferibili responsabilità. Non può, infatti, continuare ad incassare, fra tasse dirette ed indirette, qualcosa come 134 mila miliardi di lire, il 6% del Pil e destinare agli investimenti per infrastrutture solo lo 0,2% del prodotto interno lordo. Questa è una politica da terzo mondo che va assolutamente cambiata. Se il traffico passeggeri, dal ’70 ad oggi, è aumentato del 300% e quello del trasporto merci su gomma del 350%, non si possono continuare ad investire nell’ammodernamento del sistema viario e nelle sue infrastrutture soltanto delle briciole.

 

Un’annotazione, infine, sul famoso sportello unico che avrebbe dovuto - ma mi pare che siamo ancora assai lontani da questo risultato - snellire la nostra burocrazia. Certamente lo sportello unico, per questo settore di così largo impiego, avrebbe avuto una maggiore efficacia se fosse stata prevista anche la partecipazione dei concessionari.

 

Ma, sportello a parte, è ora che lo Stato la smetta di considerare l’auto una mucca da mungere in ogni modo, da qualsiasi parte. Questo problema va riconsiderato perché non è giusto che l’automobilista debba dare così tanto allo Stato e ricevere così poco in cambio.

 

Un’ultima chiosa sulla ridotta deducibilità dei costi relativi alle auto aziendali. Il limite dei 35 milioni ai fini dell’ammortamento è nettamente inferiore a quanto applicato in altri paesi dell’Ue dove, invece, la deducibilità è praticamente illimitata, dove non vi è la riduzione al 50% di tale limite come costo di utilizzo del bene e dove non vi à l’indetraibilità dell’Iva.

 

Non è possibile essere europei solo quando al nostro Stato fa comodo che essi lo siano. Lo devono diventare a tutti gli effetti. E al più presto possibile.

 

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