Sergio Billè al convegno di Magistratura Indipendente "Giustizia e Società: quali riforme per l'ordinamento giudiziario?

Sergio Billè al convegno di Magistratura Indipendente "Giustizia e Società: quali riforme per l'ordinamento giudiziario?

Verona, 29 novembre 2003

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29 novembre 2003
Intervento di Sergio Billè

Intervento di Sergio Billè

Verona, 29 novembre 2003

 

Io direi: bando alle ipocrisie. Perché se c’è una parte della amministrazione pubblica che continua a mostrare, più di altre, una granitica impermeabilità nei confronti delle sempre nuove e più pressanti esigenze della società, questa è oggi la giustizia civile.

Sarà certamente colpa di norme e procedure antiquate- e, difatti, una riforma del codice di procedura civile è cosa ormai più che urgente- ma c’è anche, nel fondo, un problema forse ancor più strutturale: l’assenza, nel nostro sistema giudiziario, di un tipo di cultura che tenga sufficientemente conto delle conseguenze che l’eccessivo e spesso non giustificato prolungamento dei processi comporta, anche sotto il profilo economico, per le parti chiamate in giudizio.

E’ un problema che riemerge ogni qual volta si fa il rendiconto del numero di condanne che, a questo riguardo, vengono sanzionate al nostro sistema dalla Corte di Strasburgo.

Per qualche giorno si grida allo scandalo, ma poi si parla d’altro e questo ramo della giustizia torna alla sua solita routine.

E poco importa che, a causa di questa esasperante lentezza del processo civile, milioni di cause giacciano per anni sepolte negli scaffali.

E poco importa che alla Corte di Strasburgo i fascicoli riguardanti l’Italia siano di gran lunga più numerosi di quelli di tutti gli altri paesi del nostro continente: l’unico paese che oggi insidia questo nostro triste primato è la Turchia ed è questo un dato che si commenta da solo.

Ma nemmeno le sempre più frequenti sentenze di condanna della Corte di Strasburgo servono, a quanto pare, a risvegliare quella specie di dinosauro che è ormai diventato il nostro processo civile.

La durata media, in Italia, di un processo di cognizione civile è, difatti, a dir poco, impressionante: 116 mesi, quasi dieci anni contro i 69 della media europea, i 34 dell’Austria, i 50 della Germania, i 78 della Spagna e gli 89 della Francia.

Tutto ciò comporta per il sistema costi che stanno diventando davvero insopportabili.

E perché questo interminabile itinerario? I motivi sono molti: Primo. L’enorme numero delle cause per il cui disbrigo i Tribunali non possiedono strutture adeguate. Ciò fa sì che i lunghi intervalli di tempo che intercorrono tra un’udienza e l’altra non consentono a nessuno, né ai giudizi né agli avvocati, di tenere a mente quanto si è venuto progressivamente a costruire sul singolo caso. Di conseguenza, nonostante che la struttura codicistica vada in tutt’altra direzione, la prassi è ormai diventata quella del processo scritto in assenza delle parti e quindi gestito, in toto, dagli avvocati. Secondo. Nonostante che queste cause abbiano le più varie origini e le più divaricate valenze, esse finiscono nell’imbuto di norme procedurali che, nella configurazione delle udienze e degli eventi, sono eguali per tutte anche quando è notevolmente diversa la domanda di giustizia e completamente diverso il ruolo che il giudice è chiamato ad assolvere. Terzo. Ai tempi tecnici e giuridici si sommano poi tempi lunghissimi nei quali il processo “dorme” e anche questi ingiustificati tempi morti contribuiscono ad aggravare non solo i costi del processo ma, in molti casi, anche a vanificarne le risultanze.

Una sconcertante “stravaganza”- non saprei definirla in altro modo- che il sistema paga assai caro.

Stravaganza per non dire di peggio perché almeno il 95% di questi processi hanno, in realtà, un carattere assolutamente routinario tanto che già alla prima udienza il giudice potrebbe assumere un preciso orientamento. Ma la cultura dei diritti e soprattutto la pedissequa osservanza dei codici trasferiscono la disputa fra le parti su un piano che prescinde completamente dal valore intrinseco cioè di carattere economico, del processo. E così, per le parti in causa, arrivano anche cumuli di parcelle da parte dei loro avvocati perché ogni atto di questa interminabile trafila ha un suo costo.

E questo sistema produce effetti perversi perché sempre di più contrasta con la velocità che, invece, caratterizza il processo di evoluzione, a tutti i livelli, delle istanze di tipo economico: come si può pretendere, ad esempio, che un operatore proceda rapidamente in un suo piano di investimenti se, per aver ragione di un contenzioso che si è aperto in sede giudiziale, deve aspettare dieci anni?

E bisogna aggiungere che le forme alternative di risoluzione delle controversie- arbitrato e conciliazione in primo luogo- soprattutto per motivi di carattere logistico e ordinamentale non hanno fino ad ora avuto la diffusione sperata: gli arbitrati, infatti, riguardano esclusivamente una tipologia assai ridotta di problemi e di attori coinvolti, senza considerare poi gli alti costi che essi comportano; mentre le pratiche di conciliazione pre-giudizio hanno spesso assunto un carattere del tutto rituale e non risolutivo e il ruolo assegnato ai giudici di pace appare di portata assai limitata.

Ben venga quindi una riscrittura- e non solo nelle virgole- del Codice di procedura civile. Il 24 ottobre scorso il Consiglio dei ministri ha varato, in questo senso, un disegno di legge che prevede una delega al governo per la riforma di questo Codice. Speriamo tutti che questa iniziativa prenda al più presto corpo perché se, invece, finisse, come già è accaduto in passato, nelle sabbie mobili di una discussione infinita, le conseguenze sarebbero devastanti.

Qualche riflessione finale sulla cosiddetta giustizia alternativa che non deve essere letta come un processo di rottura dell’esclusività della giurisdizione dello Stato. Essa, invece, potrebbe non solo alleggerire sensibilmente l’attività dei Tribunali, ma avviare un processo di produttiva e oggi più che legittima forma di autoregolamentazione della società e di tutti i suoi protagonisti. Lo sviluppo e il potenziamento delle procedure arbitrali vanno in questa direzione. L’arbitrato, infatti, non può essere utilizzato solo come un mero strumento deflativo della giustizia civile ma come un istituto che deve trovare un coordinamento con le scelte complessive di riforma del sistema delle giustizie in Italia.

Come è importante che la legge di riforma delle Camere di Commercio abbia attribuito agli enti camerali nuove e fondamentali funzioni di regolazione del mercato tra cui, in particolare, “la costituzione di commissioni arbitrali e conciliative per la risoluzione delle controversie tra imprese e tra imprese e consumatori e utenti”.

E’ senza dubbio un passo avanti e nella giusta direzione ma il problema è quello ora di strutturare questi istituti in modo che possano diventare non solo operativi ma anche che possano venire considerati, da imprese e utenti, sufficientemente affidabili per l’acquisizione dei loro diritti.

Difficilmente questo nostro paese potrà acquisire lo status di paese europeo dai larghi orizzonti fino a quando non si metterà mano alla riforma della giustizia. E bisogna fare presto perché il tempo lavora contro di noi.

 

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