SERGIO BILLE' AL CONVEGNO ECOL

SERGIO BILLE' AL CONVEGNO ECOL

ROMA, 6 DICEMBRE 2000 (testo integrale)

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7 dicembre 2000
La crisi d’impresa rappresenta un tema centrale nell’evoluzione dei rapporti, da un lato tra sistema industriale e commerciale

 

La crisi d’impresa rappresenta un tema centrale nell’evoluzione dei rapporti, da un lato tra sistema industriale e commerciale, dall’altro tra banche e mercati finanziari.

 

Individuare le regole del gioco che un Paese sì dà per affrontare un evento incerto e patologico quale la crisi d’impresa è importante per un duplice motivo: perché esse influiscono sul livello e sulla distribuzione dei cosiddetti costi irrecuperabili e perché condizionano con certezza lo svolgimento quotidiano e fisiologico della vita aziendale (ad es. le modalità con cui l’azienda riesce a reperire capitale di rischio e di credito e fattori produttivi, lavoro incluso).

 

Nella vita di ogni impresa esiste come evento probabile quello della morte economica; tale evento provoca costi irrecuperabili, che possono toccare diritti e interessi di tutti coloro che, a vario titolo e con varia intensità, sono a contatto con l’impresa stessa: azionisti, manager, banche, fornitori, lavoratori, tutori del bene pubblico. Tali costi sono provocati dal fatto che la liquidazione di un’azienda previene future distruzioni di reddito, ma è essa stessa cancellazione di ricchezza, esistendo investimenti che non potranno essere recuperati.

 

Quando un’impresa muore, vi sono diritti che non potranno più essere esercitati, interessi che necessariamente confliggono, responsabilità che vanno attribuite. Tutti questi aspetti richiedono di essere definiti, tenendo conto che essi influenzano sensibilmente le modalità con cui ciascun attore entra in contatto e interagisce con l’azienda.

 

Ugualmente importante è individuare le condizioni economiche, finanziarie e giuridiche che rendono possibile — e quindi auspicabile dal punto di vista del benessere sociale — un efficiente risanamento. Il rapporto tra regole del gioco per le crisi e soluzioni di risanamento è infatti assai stretto, non foss’altro perché gli incentivi dei diversi attori coinvolti nelle ipotesi di risanamento sono fortemente condizionati dai pay off ottenibili nella situazione alternativa, vale a dire di crisi.

 

Se mi si passa la provocazione, in Italia l’analisi delle regole del gioco per le crisi d’impresa deve partire dalla constatazione di un sostanziale “fallimento” del diritto fallimentare, a prescindere dalle specifiche figure tecniche utilizzate (amministrazione straordinaria, amministrazione controllata, concordato preventivo, fallimento).

 

Tale giudizio negativo emerge dalla constatazione della generale insoddisfazione di tutti gli attori in gioco — per ragioni diverse — per il livello e la distribuzione dei costi irrecuperabili.

 

Dal punto di vista degli azionisti di maggioranza, le procedure di crisi giudiziale appaiono creare forti barriere all’uscita, che rendono sovente impossibile la riconversione dell’imprenditore. Da qui forti incentivi alla opacità fiscale e contabile, allo sbilanciamento verso il capitale di credito, all’occultamento dei sintomi di crisi.

 

Dal punto di vista dei fornitori di materie prime, e in primis di credito, ma anche da quello degli azionisti di minoranza, le procedure giudiziali appaiono insufficienti a garantire la tutela dei propri diritti e la relativa conservazione dei valori patrimoniali. Appaiono paralizzanti i tempi richiesti: due anni per le procedure esecutive mobiliari, cinque per le immobiliari, sei per le fallimentari. Per quanto concerne i tempi e le percentuali dei valori di recupero dei crediti nelle diverse soluzioni concorsuali: per i concordati 50 mesi con il 35%; per le procedure esecutive 64 mesi con il 55%; per i fallimenti 72 mesi con meno del 30%. Inoltre sono alti i rischi di liquidazioni inefficienti, di esproprio dei creditori delle facoltà di controllo e monitoraggio, di eccessiva discrezionalità applicativa.

 

Il cattivo funzionamento delle soluzioni concorsuali ha provocato distorsioni non solo nella classe imprenditoriale, ma anche in quella dei creditori. Le banche hanno sempre più maturato la convinzione che, in caso di crisi d’impresa gestita con soluzioni giudiziarie, il recupero dei crediti sia di ammontare e durata massimamente incerta, addirittura aleatoria in alcune zone del Paese.

 

Allora emerge naturalmente un incentivo per le banche a preferire forme tecniche di credito “a fuga rapida”, garantiti da cespiti il cui solo valore contabile — non certo quello atteso di realizzo — appare sproporzionato. L’incentivo a una condotta in qualche misura “deresponsabilizzante” nei confronti delle possibilità di uscire dalle crisi d’impresa è massimo —per le ragioni che abbiamo già esposto — quando il debitore è piccolo, ovvero quando si opera in aree ad alto rischio come quelle meridionali.

È evidente, allora, che è di tutto interesse per le banche operare al meglio per perseguire l’obiettivo del risanamento delle imprese e la tutela delle proprie ragioni di credito.

 

Da questo punto di vista, l’esplorazione di forme di autoregolamentazione tra banche che aumentino le probabilità di successo delle soluzioni stragiudiziali è particolarmente innovativa e stimolante.

I problemi sin qui esposti non sono appannaggio esclusivo dell’Italia. Tutti i Paesi industrializzati, pur con tempi e modalità diverse, hanno dovuto fare i conti con gli effetti provocati dalla prolungata fase congiunturale negativa, da shock relativi a specifici settori, dall'intensificarsi della concorrenza.

 

Un tratto comune delle esperienze straniere è rappresentato, in un quadro di carenze delle soluzioni giudiziali, dal recepimento nelle riforme dei tratti positivi sviluppati nelle esperienze extragiudiziali, inserendo cioè un approccio elastico in un contesto di certezze e garanzie, tipico delle procedure formali.

 

Da questo punto di vista è interessante il caso della Germania: la a legge fallimentare tedesca separa con chiarezza la procedura concorsuale volta alla liquidazione (piano di liquidazione) da quella volta al risanamento (piano di risanamento). Ciò vale soprattutto per quest’ultimo: il sistema deve poter consentire di intervenire con tempestività prima che la crisi diventi irreversibile. Nell’esperienza tedesca la tempestività viene assicurata consentendo all’imprenditore, che nelle società è per eccellenza dotato di insider information, di chiedere l’apertura della procedura.

 

L’opzione del risanamento va considerata con molta attenzione, in quanto il proseguimento dell’attività di impresa deve avvenire solo in presenza di solide garanzie circa l’efficacia della strada intrapresa. Si ricordino, ad esempio, i dubbi effetti della legislazione italiana di fine anni Settanta, volta formalmente a far superare momentanee crisi industriali da squilibrio finanziario, ma utilizzata in realtà anche in assenza di prospettive di reali risanamenti, con il risultato di far diffondere il principio della “pubblicizzazione delle perdite”.

 

Se, infatti, un sistema tutela troppo determinate categorie di stakeholder (siano pure i lavoratori) a discapito di altre (ad esempio i creditori) si rischia indirettamente di abbassare sotto la soglia di guardia il livello dei costi irrecuperabili attesi per shareholder e amministratori.

 

Chiarezza e certezza devono connotare il ruolo e i poteri del giudice, le cui decisioni influenzano sensibilmente l’evolversi della situazione aziendale, il soddisfacimento dei diversi diritti, il dirimersi dei conflitti di interesse; in definitiva il livello e la distribuzione dei costi irrecuperabili delle crisi d’impresa.

 

In alcuni Paesi (USA), (Francia) e (Spagna), la posizione del giudice assume rilievo particolarmente forte nell’ambito della definizione dei piani di risanamento.

 

L’equità della distribuzione dei costi irrecuperabili implica un’attenta analisi delle caratteristiche dei soggetti coinvolti. L’esperienza anglosassone mostra i vantaggi di suddividere in classi il più possibile omogenee i creditori, in relazione alla diversità degli interessi coinvolti nella crisi.

 

Occorre inoltre definire il grado desiderabile di consenso tra i creditori, in presenza di soluzioni alternative alla liquidazione. Da questo punto di vista vi sono alcune legislazioni (americana e francese) che danno un peso non decisivo all’eventuale dissenso, aumentando il peso del giudice; il contrario può dirsi per l’attuale legislazione italiana. Un punto intermedio è rappresentato dal caso tedesco, in cui si richiede l’approvazione di tutte le classi di creditori, ciascuna delle quali, però, decide a maggioranza.

 

Un discorso a parte meritano le banche; di particolare rilevanza è l’esperienza inglese nel London Approach che rappresenta un esempio di autoregolamentazione, in forza del quale le banche si impegnano ad affrontare in modo cooperativo le situazioni rilevanti di crisi aziendale. In tal modo si cercano di massimizzare i vantaggi degli accordi stragiudiziali (rapidità ed efficienza) con quelli della garanzia di regole accettate e credibili, soprattutto per la presenza della Bank of England come deus ex machina di tutta la procedura.

 

L’esperienza inglese di soluzioni extragiudiziali incentrate sull’autoregolazione delle banche trova la sua chiave di successo proprio nell’aver individuato una autorità garante dei patti.

 

Le soluzioni extragiudiziali, in quanto accordo cooperativo tra soggetti non perfettamente omogenei, hanno il loro punto debole in quel fenomeno che la teoria economica ha battezzato incoerenza (o incompatibilità) temporale di condotte prestabilite. In altri termini: per una o più banche, o creditore, a cui è proposto un piano di risanamento può essere ottimale, anche per ragioni strategiche, accettarlo ex ante, per poi ricusarlo, o tentare di rinegoziarlo, ex post. Questo rende gli accordi intrinsecamente instabili, o addirittura improponibili. La presenza di un’autorità indipendente può rendere gli accordi temporalmente sostenibili e realizzabili.

 

Al di là della discussione sull’esportabilità di un tale modello, il caso inglese mostra che aumentano le probabilità di successo dei patti stragiudiziali in presenza di un’autorità:

-         volontariamente accettata da tutti i contraenti del patto;

-         assolutamente indipendente;

-         autorevole in quanto competente;

-               in grado potenzialmente di esercitare, seppur in modo implicito e/o indiretto, forme di pressione e di censura.

 

Non è certamente un identikit facile da soddisfare.

 

La logica — tipica della legislazione italiana — che pare destinare al piccolo e medio imprenditore la sola scelta tra insolvenza e non insolvenza è assente negli altri ordinamenti. Le procedure giudiziali devono lasciare aperta anche ai piccoli la possibilità di risanamento.

 

La posizione del debitore è particolarmente importante nella legislazione statunitense Al debitore si riconoscono, in virtù del suo patrimonio informativo privilegiato, le maggiori probabilità di successo nel definire un piano di risanamento della propria azienda. Il debitore, “congelata” la sua posizione, viene messo nelle migliori condizioni per non interrompere l’attività ordinaria e tentare di superare la crisi, sotto il continuo monitoraggio dei rappresentanti dei crediti, dell’Office of the United States Trustee, del tribunale.

 

In generale, l’esperienza dei Paesi anglosassoni può essere di qualche stimolo: il debitore esente da colpe viene messo in condizione di riprovare l’intrapresa, anche se occorre evitare il rischio di far sorgere la figura del “fallito professionale”, vigilando sul fatto che i costi irrecuperabili a carico dell’imprenditore non vadano sotto la soglia di guardia.

 

La crisi d’impresa implica distruzione di valore, il cui livello e distribuzione dipende, dunque, dalle regole del gioco che in ogni sistema-Paese governano le procedure di gestione e uscita dalle crisi; a tali regole si chiede di creare una cornice che governi in modo efficiente ed equo la tutela dei diritti contrapposti e i relativi conflitti di interesse. Se ciò avviene, ne trae beneficio tutto il sistema che regola i rapporti dell’impresa con i suoi principali interlocutori, rappresentati dai fornitori degli input produttivi: il capitale di credito, il capitale lavoro, gli altri input.

L’analisi puntuale delle carenze sul piano delle finalità e degli strumenti, dimostrate nel tempo non solo dal fallimento ma anche delle procedure concorsuali alternative, dimostra l’esigenza di conferire alle soluzioni giudiziarie una caratteristica di elasticità, conservando però un contesto di certezze e di garanzie, in linea con i modelli di altri ordinamenti europei e cercando di favorire in questo modo il pur lento e faticoso processo di convergenza verso regole uniformi.

 

Dopo anni di dibattiti e di sollecitazioni, il legislatore ha finalmente posto mano alla riforma del diritto fallimentare la cui disciplina originaria risale al 1942.

 

Il disegno di legge di riforma delle procedure concorsuali, presentato recentemente dal Governo (27 ottobre), costituisce per il mondo imprenditoriale una innovazione di rilevante importanza, non soltanto come soluzione all’inadeguatezza delle norme del 1942, ma anche perché, determinando un cambiamento complessivo del sistema, dovrebbe porre fine alle fuorvianti valutazioni per cui l’imprenditore fallito rimane colpito a vita da una sorta di marchio infamante che ne compromette ogni successiva iniziativa economica.

 

Occorre dunque porre al centro del sistema normativo l’impresa, per conservarne il valore aziendale e per tutelare gli interessi della collettività, in particolare dei creditori e delle persone che lavorano nell’impresa.

 

Questa sembra essere la strada seguita dal progetto di riforma, all’interno del quale perde rilevanza la finalità semplicemente liquidatoria, mentre diventa un obiettivo prioritario il recupero dell’impresa in crisi.

 

Il tentativo è quello di operare una scissione tra la procedura di gestione dell’insolvenza in senso tecnico e la fase preliminare a tale stadio, nella quale, pur manifestandosi i segni premonitori della crisi d’impresa, lo stato di insolvenza non si presenta ancora in modo conclamato.

 

Lo stesso rapporto del giudice con una materia così magmatica dovrebbe pertanto ispirarsi a una saggia armonizzazione di giurisdizione e di autonomia privata, e cioè all’utilizzo della procedura verso scopi di riorganizzazione dell’impresa, gestendo i singoli casi nella duplice consapevolezza che risanare l’impresa è un compito a lui estraneo, ma che egli può gestire le forme e i ritmi delle procedure, consentendo alle forze che agiscono nel mercato di decidere sulla irreversibilità o meno della crisi di una data azienda.

 

Capisaldi di tale decisione sono il concorso delle volontà di proprietà, management, banche e altri creditori con azioni trasparenti e tempestive.

Strumenti indispensabili: definizione del piano di intervento con l’utilizzo di idonee competenze, sia finanziarie che industriali; predisposizione di un piano di ristrutturazione secondo criteri di equità sostanziale; cooperazione tra le diverse categorie di creditori; corretta gestione della comunicazione nell’attuazione del piano.

 

Capisaldi e strumenti verranno discussi, con un approccio comparativo alle esperienze europee e statunitensi, dagli autorevoli relatori, che ringrazio fin d'ora per il contributo portato a questo odierno convegno dell'Ecol, la cui ambizione è, in definitiva, quella di potere concorrere - con questa occasione di discussione ed approfondimento - ad una fase di confronto decisiva per la maturazione, anche nel nostro paese, di un nuovo approccio culturale e normativo alle questioni del rischio d'impresa e del fallimento.

 

Grazie e buon lavoro.

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