Sergio Billè al Convegno " Erga omnes dei Contratti Collettivi di Lavoro"

Sergio Billè al Convegno " Erga omnes dei Contratti Collettivi di Lavoro"

Roma, 9 marzo 2004

DateFormat

9 marzo 2004
Intervento di Sergio Billè

Quando, andando  sotto pelle, cerchiamo di analizzare le vere cause che possono aver prodotto, al di là dei fenomeni di pura congiuntura, questa prolungata fase di stallo della nostra economia che qualcuno già vorrebbe chiamare - ma io non sono ancora di questa partita - irreversibile declino, ecco che tornano finalmente in superficie  questioni sulle quali, forse perché troppo ingombranti ed impegnative, il dibattito politico preferisce quasi sempre glissare.

Meglio limitarsi a dibattere, e molto  sommariamente su quel che si intravede in una semplice ecografia perché fare una vera  risonanza magnetica del sistema e indagare sui motivi di fondo che hanno portato all’attuale crisi potrebbe risultare imbarazzante per tutti, anche per chi oggi sta all’opposizione.

E, invece, questo tipo di esame bisogna cominciare a farlo, se non vogliamo, una volta superata questa crisi di carattere congiunturale, ritrovarci al capezzale di un malato che, una ricaduta dopo l’altra, finirà col non poter scendere più dal letto.

E tra le questioni di fondo da affrontare quello dell’erga omnes dei contratti collettivi di lavoro è certamente uno dei più rilevanti e più urgenti.

Perché, se non lo si affronterà nei suoi giusti termini e dando ad esso idonee soluzioni, noi continueremo a vivere all’interno di  una specie di acquario che non ci permetterà di utilizzare tutte le energie necessarie per far ritornare ad essere competitivo il nostro sistema.

La verità è che, nel nostro Paese, la democrazia economica continua ad essere un puro eufemismo.

Una democrazia imbellita nella facciata ma incompiuta nelle sue strutture.

E il caso più vistoso di questa incompiutezza del sistema sta nella contraddizione in cui continuiamo purtroppo a crogiolarci:  policy-makers che, mentre cercano, anche se sempre più in affanno,  soluzioni che consentano di superare la crisi che ha colpito il nostro modello di sviluppo industriale, non si adoperano in alcun modo per mettere in cantiere seri progetti e per agevolare i piani di sviluppo per quella impresa diffusa e per quel mercato del terziario che ormai, anche in prospettiva, rappresentano i veri fattori di sviluppo della nostra economia.

Ciechi e sordi forse per convenienza forse per inettitudine.

Per cercare di ricomporre questa vistosa contraddizione basterebbe guardare i numeri. Ad esempio quelli registrati in questi ultimi anni sul fronte dell’occupazione e della produzione di ricchezza.

Ma evidentemente non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.

E, invece, bisognerebbe davvero cambiare spartito e cominciare a rispondere alla domanda “chi rappresenta che cosa” in questo Paese e da dove bisogna trarre energie e risorse per evitare il declassamento, in termini di ricchezza e di produttività, del nostro sistema.

Cominciando finalmente a ragionare anche sul terreno degli assetti contrattuali.

Credo che dovrebbe essere chiaro ormai a tutti che l’obiettivo di un modello di democrazia economica non si realizza senza affrontare prima di tutto la questione del confronto paritario con il mercato tra tutte le imprese.

Senza discriminazioni né di tipo dimensionale né di tipo settoriale, senza vecchi e ormai logori canali preferenziali che  non solo non hanno più motivo di esistere  ma che ormai non portano più la nostra economia da nessuna parte.

E vengo al punto dicendo che proprio il valore e il rispetto della contrattazione collettiva costituiscono una risposta efficace anche a quei processi di elusione e di dumping sociale che continuano ad esistere in parti significative dei nostri sistemi produttivi territoriali e dei mercati del lavoro ad essi connessi.

E’ insomma su questo terreno - quello della tenuta e del rispetto prima di tutto degli assetti e di significative azioni volte al riallineamento contrattuale - che ci giochiamo buona parte del nostro futuro.

E il ruolo che verrà svolto dai soggetti sociali è, per questo fine, assai importante.

E’ giusto riaffermare la centralità della politica dei redditi come strumento per combattere le sempre riaffioranti tendenze inflazionistiche.

Come è giusto anche interrogarsi sulla necessità dell’architettura tradizionale degli assetti contrattuali e sul rapporto che deve esistere tra contrattazione nazionale, di secondo livello, aziendale e territoriale.

Credo anche però che occorra una sorta di manutenzione straordinaria, duttile, intelligente e proiettata al futuro, degli accordi del luglio 1993.

Ed è proprio quello che Marco Biagi usava definire “derogabilità presidiata” quando affidava alle parti sociali chiamate a gestire la contrattazione nazionale il compito di definire i percorsi e quindi le procedure necessarie per dare concreta efficacia e diffusione alle intese contrattuali anche attraverso una più puntuale adesione alle condizioni, talvolta profondamente differenziate sul territorio, del mercato del lavoro.

E mi sembra che lo strumento della bilateralità può e deve avere un ruolo importante in questa partita anche in riferimento all’articolo 10 della legge 30 che subordina, come è noto, l’accesso delle imprese ai benefici contributivi e normativi all’integrale rispetto dei contratti collettivi di lavoro.

E può e deve farlo non tanto sulla base di automatismi normativi - che pure ci vogliono - quanto agendo sul territorio come canale attraverso il quale monitorare punti di tenuta o di crisi dei sistemi contrattuali e come strumento che proprio le parti sociali possono utilizzare per individuare correttivi e strumenti di sostegno.

E’ insomma una concezione non censoria, ma piuttosto sussidiaria  della bilateralità che punta, con realismo e gradualità, al riconoscimento del valore erga omnes della contrattazione collettiva.

Solo utilizzando il ruolo politico svolto dai soggetti stipulanti e la loro capacità di agire nel quadro di una corretta, ma anche funzionale democrazia economica che coniughi insieme rappresentanza e rappresentatività, è possibile l’individuazione di regole certe e la costruzione di una flessibilità che, proprio perché governata e contrattata, non si trasformi in precarietà.

Mi sembra che oggi si parli troppo d’altro e assai poco di queste esigenze che, per un ordinato, ma anche congruo sviluppo del nostro mercato del lavoro, sono insopprimibili.

E anche la politica farebbe bene a mettere da parte discussioni che sempre più tendono spesso a somigliare, per la loro incongruità, a vaghe stelle dell’Orsa, e ad affrontare, per la parte che le compete, questi problemi.

E noi, fin da ora e nel modo più concreto e costruttivo possibile, faremo sicuramente la nostra parte. 

 

Banner grande colonna destra interna

Aggregatore Risorse

ScriptAnalytics

Cerca