Sergio Billè al convegno "Giovani imprenditori e rinnovamento energetico"

Sergio Billè al convegno "Giovani imprenditori e rinnovamento energetico"

Roma, 4 marzo 2004

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4 marzo 2004
Intervento di Sergio Billè

 

Ci si chiede spesso perché molti giovani preferiscano oggi - e oggi più di ieri - girare l’angolo e andare a lavorare in qualche altro paese.

Tende a girare l’angolo il ricercatore laureato che teme, continuando a lavorare in Italia, di restare su uno strapuntino per 20 anni. Per giunta sottopagato e senza speranze di far carriera.

E tende, quando può, a girare l’angolo anche il giovane che, volendo fare l’imprenditore, teme che, farlo in questo paese, possa voler dire gettare dalla finestra sogni, risorse ed energie.

Pensiamo, ad esempio, alle smisurate prospettive che, almeno sulla carta, potrebbe aprire l’allargamento ad Est dell’Europa, una nuova frontiera di interessi e di possibilità per chi intenda fare impresa.

Ma conviene fare affari con la Polonia o la Slovenia o l’Ungheria tenendo ancora i piedi in Italia? O non è forse meglio farlo trasferendo, ad esempio, armi e bagagli in Germania o in Francia o addirittura nella piccola ma iperattiva Irlanda?

Questo è il punto, questo è il vero nodo da sciogliere, questo l’interrogativo a cui dare una risposta.

E la cosa preoccupante, a mio parere, è che si continua a discutere di questo problema ,che è vitale per l’Italia di domani, facendo solo accademia: molte parole, poche risposte, nessuna convincente soluzione.

Perché delle due l’una: o, in questo paese, si creano finalmente le condizioni di base che consentono ad una struttura imprenditoriale di essere competitiva nel nuovo contesto dell’economia europea e mondiale o non si può chiedere ai nostri giovani imprenditori di trasformarsi, solo per amore dello stellone, in altrettanti agnelli sacrificali.

La verità è che il nostro sistema non potrà tornare ad essere competitivo, aggressivo e vincente fino a quando non abbatteremo tutti i costi di base di un’impresa soprattutto quando essa è impegnata nell’area dei servizi di mercato.

Costi che, per grave carenza di infrastrutture, per il persistere di illogiche e ormai superate normative e per una troppo elevata e sempre più vischiosa pressione fiscale, pesano sull’impresa come macigni.

E uno di questi macigni - e così vengo al focus di questo convegno - è proprio il costo dell’energia.

Siccome credo che tutti ormai siamo francamente stanchi, parlando di questo problema, di rincorrere i soliti giri di parole, vale la pena di parlare solo per numeri, cifre e percentuali.

Primo. Nonostante che le imprese italiane siano costrette oggi a pagare ogni singolo chilowattora assai di più di quelle che operano in tutti gli altri paesi europei, gli impianti esistenti non sono sufficienti a soddisfare il nostro fabbisogno energetico.

Il che vuol dire che si incassano con le bollette molti più soldi della media europea ma questi soldi non vengono investiti né per ammodernare le nostre centrali elettriche, molte delle quali, avendo più di trent’anni sulle spalle, hanno ormai un indice di produttività assai basso, né per costruirne delle nuove e per programmare una diversificazione delle fonti di energia.

E poi, quando il sistema va in tilt e c’è il black out energetico, non si trova di meglio che prendersela con la Francia o la Svizzera. Come se il problema, invece, non fosse proprio nel nostro sistema.

Quel che accade nel settore dei rifiuti urbani è un esempio lampante di quanto sia stata fino ad oggi miope la nostra politica energetica.

Infatti, mentre in paesi come la Germania e la Francia più del 60% dei rifiuti viene avviato in apposite centrali che provvedono a convertirli in energia a basso costo, in Italia più del 70% di questi rifiuti o finisce in discariche a cielo aperto, con conseguenze disastrose anche sotto il profilo ambientale, o viene esportato, con costi rilevanti, in paesi che dispongono di attrezzature adeguate per la loro conversione.

Insomma i tanti, troppi soldi che si sono incassati con le bollette saranno serviti a molte cose - e ci piacerebbe sapere quali - ma non certo a risolvere il nostro problema energetico. 

Mi vi avevo promesso dei numeri e quelli che vi sto per dare fanno veramente il botto.

Non mi dilungo sul fin troppo vistoso differenziale di costo energetico – almeno il 27% - che tra piccola e grande impresa vi è oggi, a vantaggio della seconda, nel nostro sistema.

E’ questa una “anomalia”, per non chiamarla in altro modo, del sistema italiano talmente esorbitante che veramente non la lava l’oceano.

Ma parliamo, invece, del differenziale di costo energetico che c’è fra l’Italia e l’Europa.

Questo differenziale è mediamente, a nostro danno, del 40%, dico quaranta per cento, insomma davvero esorbitante.

Ma andiamo a vedere, nel dettaglio, il differenziale con i singoli paesi.

Rispetto alla Spagna, le bollette di energia elettrica delle nostre imprese sono più care del 61%, rispetto alla Francia del 39%, rispetto alla Germania dell’11%, rispetto alla Grecia, ultimo anello della catena europea per strutture, infrastrutture e competitività del sistema, del 44%.

Ho qui la tabella completa di questi differenziali ed è tutta vostra.

Evidentemente qualcosa nel nostro paese, per l’attuazione della direttiva europea emanata nel lontano 1996, è andato storto, molto, troppo storto. E per vari motivi.

Primo, perché il processo di liberalizzazione del mercato è stato assai più lento del previsto, talmente lento da avanzare solo di pochi metri se non centimetri.

Secondo, perché anche il programma a suo tempo varato per la costruzione di nuove centrali, sia per mancanza di risorse sia per ostacoli derivanti dai conflitti di competenza tra le varie autorità locali sia ancora per l’impossibilità o l’incapacità di individuare i siti idonei per la localizzazione dei nuovi impianti, è andato avanti con il passo di una vecchia e ancor più lenta tartaruga.

Terzo, perché il riassetto del settore - problema sicuramente complesso ma che è stato affrontato nel peggiore dei modi - ha finito col generare costi di transizione assai più elevati del previsto.

Inoltre - ed è questa la ciliegina sulla torta - non si è ancora riusciti ad unificare in un unico soggetto la proprietà e la gestione della rete nazionale di trasmissione dell’elettricità mentre stenta a partire, a differenza di quel che accade negli altri paesi, la borsa elettrica, uno strumento che sicuramente potrebbe favorire una maggiore trasparenza del mercato.

Infine, l’eccessiva dipendenza del sistema elettrico da un mix di fonti assai costose ed eccessivamente esposte all’andamento delle quotazioni internazionali dei combustibili fossili e, come ho già detto, un parco di centrali ormai da Jurassic Park, estendono e allargano pericolosamente la nostra soglia di rischio.

E le lancette dell’orologio della nostra economia continuano a girare rapidamente ma, purtroppo per noi, al contrario.

E a questo bisogna al più presto cercare di porre rimedio.

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