Sergio Billè al convegno ''La legge Biagi ed il nuovo mercato del lavoro''

Sergio Billè al convegno ''La legge Biagi ed il nuovo mercato del lavoro''

Arezzo, 28 gennaio 2004

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28 gennaio 2004
Intervento di Sergio Billè

Vorrei arrivare subito al nocciolo che mi pare il seguente: la riforma Biagi, varata dopo anni di inutili, tortuose e spesso ingiustificate polemiche, è sicuramente un modello di riforma che, come prototipo, sembra aver superato le prove di collaudo raccogliendo per questo anche, da parte di chi opera sul mercato, sostanziali consensi. Il problema - e non mi sembra certo una questione da poco - è ora quello della sua attuazione, insomma - se mi concedete il paragone - della sua “commercializzazione” cioè di quanto e come essa, cambiando, sia pure solo in parte, le regole che presiedono all’organizzazione dei rapporti e del mercato del lavoro, possa, da un lato, soddisfare realmente le nuove e diverse esigenze delle imprese e dei lavoratori e, dall’altro, contribuire allo sviluppo della nostra economia creando anche maggiori opportunità di occupazione.

Perché non è detto che un prototipo, anche se messo a punto sul banco di prova e con tutti i necessari collaudi, risulti poi un prodotto sempre realmente vendibile e su larga scala.

La verità è che la riforma Biagi potrà funzionare e raggiungere i suoi obiettivi, che poi sono quelli del governo di una maggiore ma anche più strutturata flessibilità del mercato del lavoro se, nel contempo, verranno sciolti, con l’individuazione di soluzioni adeguate, i molti nodi che oggi ancora stringono come un cappio la nostra economia frenando di fatto le potenzialità di sviluppo di un vero, libero e moderno mercato.

E siamo purtroppo ancora ai blocchi di partenza per quanto riguarda problemi che si chiamano riassetto degli ammortizzatori sociali, riaffermazione della centralità della politica dei redditi, federalismo, riforma fiscale e soprattutto individuazione di un metodo di confronto tra governo e parti sociali che, diventando più costruttivo e strutturale, possa finalmente sottrarsi a forme di ritualità che oggi, per come vengono gestite dal governo e per il loro carattere di assoluta episodicità, lasciano spesso il tempo che trovano.

Insomma, o la riforma Biagi matura nell’alveo di un disegno che sia ampiamente riformatore degli assetti della nostra economia e delle sue politiche di sviluppo o rischia di restare un prodotto che, sul mercato, non riuscirà ad avere quella diffusione e penetrazione che noi oggi certamente tutti auspichiamo.

La flessibilità governata, per poter essere davvero realizzata, deve far leva, anche ai fini di una maggiore competitività del sistema, su un grado di crescente coesione sociale.

E la domanda è: stiamo davvero lavorando per raggiungere questo obiettivo? Temo di no anche perché la stagione elettorale che si è aperta in questi giorni e che, viste le scadenze di quest’anno ma anche degli anni prossimi, durerà molto a lungo, rischia di rendere ancora più accidentato e difficile questo percorso.

Ed è questo, per i lavoratori come per chi fa impresa, un guaio serio perché un’ulteriore decantazione di questi problemi, la mancata adozione di ormai indispensabili correttivi per un migliore funzionamento del sistema, annebbia i propositi e i programmi degli investitori, alimenta il disorientamento dei risparmiatori e minaccia di lasciare il nostro paese ai margini di quella ripresa economica che, stando almeno ai segnali che arrivano dal mercato mondiale, potrebbe essere ormai prossima.

Bene la riforma Biagi e quanto essa potrà produrre, in termini di maggiore flessibilità, un più strutturato mercato del lavoro, ma non è con questo solo ingrediente che si può pensare di rigenerare quel clima di fiducia che oggi si è perso per strada e che resta l’indispensabile corollario per attuare una politica di vero e programmato sviluppo.

Fiducia che potrà crescere solo se finalmente si adotteranno norme che possano restituire al sistema maggiore trasparenza, maggiore equità fiscale ed anche maggiore rispetto dei diritti di chiunque voglia fare impresa. Regole che, dopo le note vicende di cui sono piene in questi giorni le cronache dei giornali, dovrebbero meglio e diversamente presidiare il rapporto tra banca ed impresa, tra banca e risparmiatori, tra controllori e controllati, superando anche quella logica delle relazioni privilegiate che, in questi anni - e ora sappiamo con quali risultati - ha, da un lato, fortemente penalizzato l’impresa diffusa mentre, dall’altro, ha finito col favorire l’impresa sommersa e tutto il mondo del lavoro nero.

Cambierà finalmente qualcosa e nella giusta direzione? Il caso Parmalat e i suoi assai scabrosi contorni e risvolti ci serviranno davvero da lezione?

Io sinceramente mi auguro di sì, ma permettetemi, come avrebbe fatto San Tommaso, di non fare, a priori, atti di fede.

Rientro nel seminato del convegno di oggi perché le novità previste dalla riforma Biagi non vanno comunque sottovalutate.

E’ sicuramente importante la riforma del collocamento perché essa non comporta soltanto - ed era ora - un’apertura al privato delle funzioni di intermediazione ma prevede anche una gestione sussidiaria da parte di soggetti sociali - anche attraverso il sistema della bilateralità - di funzioni amministrative ed informatiche che sicuramente possono, se ben utilizzate, dare maggiore efficienza al mercato del lavoro.

La nuova normativa è in linea con l’evoluzione del nostro sistema imprenditoriale nel quale il mondo dei servizi e le attività terziarie sono caratterizzati da forme atipiche di lavoro rispetto alle quali una cornice di incertezza interpretativa rischia di tradursi in un freno allo sviluppo dell’occupazione. Per questo va riconosciuto il valore positivo di una funzione certificatoria tendente a prevenire il contenzioso in materia di qualificazione dei rapporti di lavoro.

Ciò soprattutto in relazione ai nuovi lavori (intermittente, ripartito, occasionale, accessorio, ecc.) dai quali ci attendiamo, anche attraverso gli ampi margini lasciati alla contrattazione collettiva, l’adozione di formule che, nel rispetto dei diritti dei lavoratori, si adattino anche il più possibile alle esigenze di ogni comparto di azienda.

Ciò non vuol dire che il confronto tra le parti per tradurre in accordi i nuovi istituti possa essere semplice, ma, da parte nostra, c’è la massima disponibilità a perfezionare accordi che, nel quadro di questa normativa, possano dare al lavoratore adeguate garanzie.

Ma bisogna anche dire che, in questa riforma, esistono anche punti di debolezza che, nella messa a regime del nuovo sistema, ci auguriamo possano essere trasformati, invece, in opportunità per il lavoratore.

Mi riferisco all’istituto del lavoro a progetto che dovrà sostituire le vecchie collaborazioni coordinate e continuative.

Piuttosto che fare di ogni erba un fascio presupponendo come irregolari tutte le co.co.co. esistenti, ci saremmo attesi qualche cosa di più verso l’enucleazione di quella nuova tipologia di rapporti che sono stati classificati come “lavoro parasubordinato” senza cioè che fossero inquadrati a tutti i costi nell’ambito delle tutele previste per il lavoro subordinato ma neppure negli schemi aperti del lavoro autonomo.

Anche alcune attenuazioni alle rigidità contenute nel testo della riforma e che sono state apportate dalle recenti interpretazioni ministeriali, non cambiano il tenore dell’impostazione che è stata adottata per cui continua ad esserci il rischio di tipi di rapporto che, essendo difficilmente riconducibili al lavoro a progetto, finiscano per riproporre fenomeni indesiderati di lavoro nero o comunque irregolare.

La nostra volontà di chiarire, in corso d’opera, tutti questi problemi è fuori discussione e mi auguro che anche da parte sindacale ci si muova con lo stesso spirito.

Da ultimo vorrei soffermarmi sull’articolo 10 della riforma che è stato oggetto di un’interpretazione ministeriale che, invece, non ci sentiamo assolutamente di condividere.

Tale interpretazione in sostanza afferma che l’espressione “contratti stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale” potrebbe indebitamente favorire un’unica organizzazione datoriale.

Per questo motivo, l’articolo 10 non dovrebbe essere riferibile alla parte obbligatoria dei contratti.

Noi siamo invece convinti che l’articolo 10 è stato formulato in questo e non in altro modo proprio per fornire uno strumento di garanzia e di supporto per il corretto utilizzo dei contenuti della riforma. Né ci pare che questa impostazione sia in alcun modo lesiva del diritto del pluralismo garantito dall’articolo 39 della Costituzione.

Al contrario ciò si potrebbe verificare se si volessero privilegiare talune organizzazioni sindacali al fine di legittimarle alla contrattazione.

E non ha senso porre un problema del genere anche perché l’applicazione di un contratto collettivo, comparativamente più rappresentativo, non ha comunque valore “erga omnes” ma rappresenta solo la condizione per ottenere benefici economici e normativi.

Mentre nulla poi impedisce la disapplicazione del contratto o l’applicazione di un altro testo contrattuale.

Insomma il tentativo di depotenziare l’asse della bilateralità non solo non aumenta le garanzie per il lavoratore ma rischia di trasformare, di fatto, questa riforma in una giungla normativa di difficile se non addirittura impossibile applicazione.

Meglio dunque restare sul tracciato iniziale di questa riforma evitando di cambiare le carte in tavola proprio nella fase più delicata che è quella della sua prima e delicatissima fase di sperimentazione.

Altre riforme, proprio perché gestite ed interpretate in malo modo, sono rimaste al palo cioè largamente o del tutto disapplicate. Evitiamo che anche la riforma Biagi corra lo stesso rischio.

Vorrei concludere con tre riflessioni di carattere generale ma che rappresentano altrettanti importanti crocevia da superare per l’attuazione anche di questa riforma del mercato del lavoro.

La prima riguarda l’inderogabile necessità di ricostituire un clima sociale che consenta a questo paese di utilizzare, in modo più coeso, tutte le energie e le potenzialità di cui dispone per ricominciare a produrre ricchezza e sviluppo. Oggi, da questo punto di vista, il termometro è sotto zero e non è con le gelate che si può pensare di produrre, in economia, buoni raccolti. Si eviti dunque, per quanto è possibile, che le liturgie che si celebrano in ogni periodo elettorale, facciano dimenticare che questo problema esiste, è assai ingombrante ed è oggi indistintamente percepito da tutti.

La seconda riguarda il programma delle riforme. La riforma Biagi potrà avere successo solo se potrà operare in un contesto di più generali riforme di sistema ed è su di esse che governo e Parlamento devono ancora dare significative e convincenti risposte. Non si è ancora compreso, ad esempio, quale reale indirizzo e quale portata avrà la riforma federalista e quali potranno essere i suoi tempi di attuazione. Ma anche la riforma fiscale è nel porto delle nebbie mentre non si sa ancora nulla su come e con quali mezzi e terapie si intenda fronteggiare la grave crisi sopravvenuta in una parte importante del nostro sistema industriale. E’ chiaro che la nostra politica economica debba, alla luce di questi fatti, riprogrammarsi in altro modo e con altri orientamenti ed altri obiettivi e sarebbe proprio il caso che il governo cominciasse a dirci qualcosa di concreto. O tutto resterà come prima come se il caso Parmalat non fosse esploso?

La terza. Su redditi, salari, prezzi, risparmi continua da ormai due anni una guerra guerreggiata che non ha portato fino ad ora a nulla di costruttivo. Solo macerie, disaffezione, crollo dei consumi e quindi della ricchezza di questo paese. Sarebbe opportuno ricominciare a parlarsi invece di continuare in una caccia alle streghe che non porta a nulla anche perché è ormai provato che le streghe operano su più fronti. E, difatti, appare per lo meno paradossale che per mesi e mesi ci si sia occupati esclusivamente del prezzo delle zucchine e non si sia detto nulla, anzi meno di nulla, sulle ingombranti zucche vuote, anzi piene di debiti che stavano frodando e distruggendo il mercato e i capitali dei poveri risparmiatori.

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