Sergio Billè al convegno "Sicurezza andiamo cercando"

Sergio Billè al convegno "Sicurezza andiamo cercando"

Bergamo, 14 gennaio 2005

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14 gennaio 2005
Intervento di Sergio Billè

Affrontando un problema reale, vistoso e sempre più ingombrante come è oggi quello della sicurezza del cittadino e della sua protezione da ogni forma di criminalità e di violenza, penso che sia indispensabile discuterne evitando due eccessi: da un lato, quello di piangersi sempre addosso invocando magari misure eccezionali di cui il nostro Paese – anche in Europa, c'è chi sta peggio di noi - non ha ancora, per fortuna, alcun bisogno e, dall'altro, quello, invece, di tentare di "derubricare", in qualche modo, questo problema pensando che, per risolverlo, basti mettere un poliziotto ad ogni angolo di strada.

Quando una discussione si inchioda su questi eccessi rischia, di fatto, di diventare del tutto sterile e inutilmente ripetitiva. E' così che molti dibattiti su questo tema purtroppo finiscono prima ancora di cominciare: vuoto a perdere e basta.

Dietro agli episodi di criminalità – da quelli perpetrati con grande larghezza di mezzi dalle organizzazioni criminali al più rudimentale dei tentativi di rapina - esistono una serie di problemi di carattere strutturale che da molto tempo si cerca di risolvere ma che, di fatto, o non sono stati risolti o hanno trovato soluzioni solo parziali, spesso abborracciate e, in definitiva, di scarsa efficacia.

Di questi problemi non risolti ne vorrei mettere sul tavolo almeno tre, che poi sono quelli che hanno, in qualche modo, consentito alla criminalità di ogni conio di ingrandirsi e di svilupparsi oltre misura.

Il primo è quello del precario, lentissimo e farraginoso funzionamento dell'apparato della giustizia. Sono anni, ormai decenni che, in ogni sede, istituzionale e non, andiamo ripetendo all'unisono sempre lo stesso refrain: processi penali estremamente lunghi, nessuna certezza di esecuzione delle pene che vengono comminate, scarcerazioni a fiumi consentite da cavilli procedurali di ogni genere, gente che rapina, ammazza, entra in carcere e poi esce, rapina e magari ammazza di nuovo. Ma mi sapete dire voi che tipo di deterrente può essere questa giustizia per chi compie atti criminali di qualsiasi genere? Basta un cavillo procedurale per tornare in libertà. Certo, non bisogna generalizzare ed io non intendo farlo perché è vero che molti mafiosi di rango restano chiusi nei carceri di massima sicurezza per molti anni. Ma perché, invece, la porta del carcere resta, per molti altri, una specie di porta girevole neanche fosse quella di un albergo ad una o due stelle? Lontana da me l'idea di fare, su questi problemi, un facile qualunquismo, ma, proprio perché vogliamo difendere, in tutti i modi, lo stato di diritto, occorrerebbe avere una gestione della giustizia in grado di garantire, da ogni lato, questo stato di diritto. Oggi questo ancora non accade perché abbiamo un apparato della giustizia che funziona come un pendolo che va un po' di qua, un po' di là senza riuscire a dare al cittadino quelle certezze di cui ha oggi assoluto bisogno.

Il secondo problema è quello delle forze di polizia impegnate nella lotta alla criminalità. In questo campo, passi avanti ne sono stati indubbiamente fatti sia per quanto riguarda la logistica e la gestione degli apparati sia per quanto riguarda gli strumenti di intervento. C'è, come ho detto, chi, da questo punto di vista, si trova oggi in una situazione peggiore della nostra. E' anche vero però che il coordinamento fra le attività svolte dalle strutture della Polizia di Stato, dell'Arma dei Carabinieri e della Guardia di Finanza non ha ancora raggiunto un livello che si possa considerare soddisfacente.

Vi sono ancora troppe duplicazioni e troppe differenti linee di comando. Eliminare le une come le altre in favore di un'unica struttura centralizzata significherebbe, da un lato, sicuramente diminuire i costi di gestione della macchina e, dall'altro, rendere ancora più efficaci e funzionali le strategie di intervento. Resta il problema, per nulla marginale, di strategie che consentano una maggiore prevenzione dei reati. Anche su questo versante sono stati fatti passi avanti - l'istituzione del poliziotto di quartiere è uno di questi - ma ancora molto resta da fare per quanto riguarda il settore dell'intelligence cioè di quel ramo delle forze di polizia che, vivendo all'interno delle aree che possono essere considerate a più alto tasso di criminalità e respirandone ogni giorno clima, abitudini ed assetto, è in grado di individuare per tempo ambienti e situazioni da considerarsi a rischio. Sempre nel rispetto dello stato di diritto, perchè nessuno può essere considerato un rapinatore fino a quando non fa una rapina. Ma non nascondiamoci dietro un dito: in molte aree urbane, in molte periferie ma anche in altre aree esistono "zone d'ombra" che andrebbero in ogni modo maggiormente almeno "esplorate". E a rendere più agevole questo lavoro servirebbe un maggiore e più frequente contatto delle forze dell'ordine con chi, come cittadino o come commerciante, vive ogni giorno la realtà di quel determinato luogo.

Terzo ed ultimo problema, il marais, il grande marais della clandestinità. Qui la discussione va proprio sul filo del rasoio perché considerare come potenziale criminale un clandestino – e , in Italia, di clandestini, come sapete ve ne sono ormai centinaia di migliaia di ogni Paese e di ogni estrazione etnica - è, almeno a mio giudizio, inaccettabile. Ma bisogna pure fare qualcosa per affrontare, come società e come istituzioni, questo marais clandestino che si va ingrossando ogni giorno soprattutto nelle regioni del Nord. Non ci si può limitare ad identificare chi sbarca nell'isola di Lampedusa e a rimandarlo nel suo paese di origine perché altre frontiere, soprattutto quelle verso l'Est europeo, sono ormai a maglie così larghe da non permettere più alcun genere di controlli. E allora? E allora affrontiamo finalmente questo problema per come oggi realmente si pone individuando strategie che siano idonee allo scopo. Ogni tanto qualche dibattito su questo problema si accende, ma poi si spegne di nuovo. E, invece, bisogna tenerlo acceso, discuterne, trovare soluzioni che siano all'altezza di un Paese che si picca di essere civile, democratico e rispettoso dei diritti delle persone. E questo, e concludo, perché centinaia di migliaia di clandestini costretti a vivere alla macchia possono diventare anche un problema per la sicurezza.

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