Sergio Billè al convegno Smau "Operatori dell'ICT: protagonisti e interpreti"

Sergio Billè al convegno Smau "Operatori dell'ICT: protagonisti e interpreti"

Milano, 3 ottobre 2003

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3 ottobre 2003
Intervento di Sergio Billè

 

Quando - e accade sempre più spesso - ci capitano fra le mani le pagelle che i grandi istituti internazionali, con cura certosina, compilano per stabilire quali siano oggi, nel mondo, i paesi più moderni e più tecnologicamente avanzati e quali siano, invece, quelli - e, tra di essi, c’è sempre l’Italia - che non meritano nemmeno un voto di sufficienza, ai nostri operatori - e, credo, anche a quelli presenti oggi in questa sala - cadono davvero le braccia.

Per la competitività diamo dei punti solo alla Grecia e alla Turchia e siamo al 26° posto, secondo la classifica del World Economic Forum, per quanto riguarda il livello di penetrazione delle tecnologie digitali.

Insomma più morti che vivi, operatori da retroguardia, aborigeni della modernizzazione.

A parte il fatto che ho il sospetto che alcune di queste classifiche vengano compilate da persone che usano il binocolo al contrario - perché, se no, non vedo proprio come potremmo ancora essere oggi fra i sette paesi più industrializzati del mondo - mi chiedo quali siano le vere cause che possono aver determinato e continuano a determinare questo nostro ritardo oggettivo.

E’ tutta colpa degli operatori se il motore della nostra economia, per quanto riguarda lo sviluppo delle tecnologie e la modernizzazione del sistema è, in gran parte, ancora costretto ad andare due anziché a quattro o sei cilindri?

Beh, amici, è ora di finirla con panzane del genere.

La verità è che anche da quando è partito a tutta birra il processo di globalizzazione dell’economia e dei mercati, chi ha gestito le Istituzioni e la politica economica di questo paese non ha fatto nulla - uno zero assoluto - per far fare un vero, programmato, risolutivo salto tecnologico alle strutture del nostro sistema di mercato.

Per cercare di tamponare - e con sempre maggiore fatica - la voragine del nostro debito pubblico, non solo lo Stato non ha fornito, in questo senso, alcun tipo di incentivo, di sostegno o di supporto alle imprese - milioni di piccole e medie imprese - che oggi operano nel terziario di mercato, ma, al contrario, per drenare risorse che garantissero, in qualche modo, al bilancio pubblico una minima soglia di sopravvivenza, le ha letteralmente massacrate di tasse.

Vero o falso? Tutto vero purtroppo ma questo nelle classifiche internazionali non appare perché nella compilazione delle pagelle non si tiene mai conto delle responsabilità della politica ma solo dei risultati conseguiti dall’impresa e se non supera l’esame peggio per lei. Del resto, dicono i prestigiosi analisti che compilano queste classifiche, non è certo colpa nostra se le imprese non sanno scegliersi i governanti giusti.

Sono problemi loro, non nostri.

E vorrei fare, al riguardo, un’altra piccola postilla. Lo sapete che oggi, per quanto riguarda la copertura delle spese di funzionamento di tutto l’apparato dell’Unione europea - e si tratta di una cifra astronomica, fra i 15 e i 20 miliardi di euro - l’Italia, come secondo socio fondatore, contribuisce con una somma che è pari ad almeno il 30% della spesa totale?

Difatti, l’Ue dispone, grazie proprio ai nostri soldi, di strutture tecnologicamente assai moderne.

Per l’Ue questi fondi si trovano, per le nostre imprese no. Non vi sembra un assurdo?

Per introdurre, nel nostro sistema - e penso, in particolare, a tutte le filiere del terziario di mercato - moderne tecnologie che consentissero, ad esempio, mettendo a rete le strutture, di ridurre i costi per la fornitura di prodotti e di servizi, lo Stato non ha fatto quasi nulla: qualche briciola di sovvenzione qua e là e niente di più.

Ed è stata, da parte dello Stato, una madornale mancanza, un comportamento non solo miope ma anche insensato.

Lo Stato avrebbe potuto fare alle imprese che intendessero dotarsi di impianti tecnologici moderni un discorso assai semplice: se mi provi di aver fatto questi investimenti e mi documenti di averli portati a regime modificando tutte le strutture necessarie, ti cancello, per un anno, tasse e contributi. Poi, negli anni successivi, quando sarà dimostrata la migliore produttività dei tuoi impianti, me ne pagherai un po’ di più.

E’ appunto quello che si fa da anni negli Stati Uniti e poi in Spagna, in Finlandia e in altri paesi europei.

Ma da noi no perché continuiamo ad essere un paese che ha troppo debito pubblico per fare qualcosa di serio, troppa zavorra politica per poter mettere insieme un programma di modernizzazione del sistema che funzioni.

Il risultato è sotto i nostri occhi: centinaia di migliaia di piccole imprese che non riescono a crescere e ad investire perché non riescono a migliorare il loro fatturato, intere filiere di mercato che, non avendo potuto modernizzare e computerizzare i loro impianti, hanno costi doppi se non tripli a quelli di altri paesi.

L’unica cosa che è stata incoraggiata - e solo per poter effettuare migliori controlli fiscali - è l’introduzione dei registratori di cassa, per il resto ci è stato detto: arrangiatevi perché lo Stato deve impiegare i suoi soldi in altro modo.

E su quale sia stato fino ad oggi quest’altro modo è meglio stendere un velo pietoso perché continuiamo ad avere infrastrutture da terzo mondo, servizi di pubblica utilità costosi ma inefficienti, tasse elevate e una pubblica amministrazione che, per la trasmissione dei documenti, usa ancora stampanti acquistate negli anni sessanta.

Però ogni anno continuiamo a versare alle casse dell’Unione europea un assegno, come contributo spese per il funzionamento e la modernizzazione di impianti e tecnologie, pari a 4-5 miliardi di euro, otto-nove mila miliardi delle vecchie lire.

Ho l’impressione che ci stiano prendendo in giro. E noi siamo davvero stufi di essere presi in giro.

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