SERGIO BILLE' AL CONVEGNO SUI CENTRI STORICI

SERGIO BILLE' AL CONVEGNO SUI CENTRI STORICI

Ascoli, 6 ottobre 2000

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6 ottobre 2000
Intervento di Sergio Billè

Intervento di Sergio Billè - Ascoli Piceno 06/10/2000

Dire che, in Italia, vi siano oggi 2000 centri storici mi sembra che sia una visione assai riduttiva della realtà di questo paese che di attrattive storiche e di beni culturali da utilizzare anche come leva di sviluppo economico, oltre che culturale, ne possiede un numero assai maggiore.

Questa riduttiva quantificazione fa comodo a chi vuol nascondere quella parte d’Italia che, pur possedendo valori inestimabili, sta andando letteralmente a pezzi sia per l’incuria e la miopia della pubblica amministrazione sia per la mancanza di piani urbanistici adeguati al modello di una società moderna che fa leva sulle proprie tradizioni e sulle ricchezze che possiede - e che tutto il mondo ci invidia - non solo per migliorare la propria immagine ma per trasformare questa ricchezza in prodotto interno lordo.

Mi sembra che le responsabilità dello Stato, da questo punto di vista, siano particolarmente pesanti. Si è dato per troppi anni spazio e potere ad una burocrazia che non ha saputo vedere al di là del proprio naso. Si è dato troppo spazio ad una gestione, per così dire, “politica” del nostro patrimonio artistico e culturale, gestione che, invece di programmare il futuro, agiva spesso per meri scopi elettorali.

Con una politica meno miope, con una pubblica amministrazione più attenta al valore che, in prospettiva, avrebbero assunto, dal punto di vista turistico, ambientale, ecc., i nostri centri storici, oggi avremmo di fronte un’Italia sicuramente diversa, culturalmente più legittimata, in grado di convertire anche, perché no, in business questo nostro colossale patrimonio.

Non è stato fatto e oggi ci lecchiamo le ferite.

E’ vero che la burocrazia non è mai stata pagata per pensare, per avere idee, per gestire il futuro.

Ma la nostra, rispetto a quella di altri più moderni paesi, non si è, in molti casi, guadagnata nemmeno lo stipendio perché ha ritenuto che il patrimonio delle nostre città storiche si conservasse e si tutelasse meglio tenendolo chiuso a chiave, qualche volta in uno scantinato.

Chi di voi viaggia per il mondo ha sicuramente visto quale riguardo, quale attenzione, quale intelligente sorveglianza vengono dedicate a tutto ciò che è legato alla storia, alla tradizione, al bene culturale.

Non nego che, in alcuni centri storici italiani, questo sia stato fatto o si stia facendo- qualche risultato lo vediamo - ma è sicuro che siamo ancora anni luce in ritardo. Anni luce spesi in programmi male impostati o lasciati a metà o, peggio ancora, messi al servizio di esigenze che poco avevano a che fare con quello che doveva essere l’obbiettivo primario: fare del centro storico una struttura vitale, pulsante, soggetto di continuo richiamo, leva di sviluppo culturale, immagine di un paese che si rinnova proprio perché rivitalizza il proprio passato e ne va a diventare - esagero ma non troppo - oggetto di culto per tutti quei turisti che vengono da mondi nei quali queste ricchezze non esistono o sono di minima entità.

Il centro storico è, invece, deve essere, invece, un elemento strutturale di sviluppo. A 360 gradi.

Come spiegarlo alla nostra politica che non ha ancora capito, del resto, quali esigenze ma anche quali enormi vantaggi porta con sé il processo di globalizzazione ora in corso?

Per anni la burocrazia e chi tira le fila di essa ha inteso il centro storico come struttura museale passiva, fine a se stessa facendo poco o niente per trasformarla, invece, in una struttura attiva, struttura non isolata ma capace di inserirsi in una rete culturale di ampio respiro e quindi capace di produrre sviluppo, più reddito, più cultura.

Si è affrontato - e vengo ad uno dei temi citati da Ivo Giudici - il tema delle infrastrutture come se esso fosse avulso, estraneo, svincolato dall’obiettivo di un’efficace rivitalizzazione del centro storico ma anche della sua anima pulsante fatta di musei ma anche di negozi, di punti di ritrovo, di parcheggi, di mezzi e reti di trasporto funzionali.

La rete ferroviaria, ad esempio, avrebbe dovuto essere sviluppata e ramificata in modo da consentire collegamenti efficienti, idonei a far scoprire, letteralmente scoprire a visitatori e turisti di ogni paese paesi ricchissimi di cultura e di opere d’arte ma estranei ad ogni forma moderna di collegamento.

Per non parlare del problema dei parcheggi per i quali solo di recente si può dire che sia nata una cultura. Alle sovraintendenze interessava, come è giusto, la tutela del patrimonio e di altro non hanno mai inteso occuparsi. Ma toccava, tocca agli altri poteri amministrativi fare in modo che questi centri di ricchezza non diventino degli atolli irraggiungibili. Qualcosa si sta facendo, ma siamo molto in ritardo.

Programmare lo sviluppo del centro storico significa, da un lato, difenderne sicuramente l’autenticità che è poi la sua vera ricchezza, ma, dall’altro, fare in modo che tutti, anziani compresi, possano abitarvi o raggiungerli senza salire sulle montagne russe.

E se, da queste parti, per fortuna le montagne russe sono esigue, in altre parti d’Italia, mi riferisco al meridione, sono talvolta talmente alte da essere inaccessibili.

Solo il 20-25% dei centri meridionali di vero interesse storico e culturale sono oggi accessibili. E per gli altri cosa si sta facendo?

Mi auguro che molte cose, in questo paese, possano cambiare.

Ma cominceranno a cambiare realmente quando la burocrazia e la politica che spesso si nasconde dietro di essa cederanno il passo a consorzi, strutture private, imprese che, utilizzando anche moderne tecnologie, sapranno intervenire nei centri storici rivitalizzandoli veramente.

Per aumentare il grado di efficienza degli aeroporti, ci si è finalmente decisi a far entrare, nella gestione, i privati.

Lo si faccia, con tutte le salvaguardie del caso, anche per i centri storici e vedrete che qualcosa finalmente accadrà.

Solo che non c’è molto tempo per cambiare, per riformare una buona volta questo sistema-paese.

Nell’era della globalizzazione un giorno vale come un anno e i flussi turistici ci mettono poco, in mancanza di un’adeguata e strutturata offerta, a cambiare direzione.

 

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