SERGIO BILLE' AL CONVEGNO SULLA SANITA'

SERGIO BILLE' AL CONVEGNO SULLA SANITA'

ROMA, 28 GENNAIO 2000 (testo integrale)

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28 gennaio 2000
L'attuale fase storica sta determinando, nella nostra società, una serie di cambiamenti strutturali, dettati da oggettive esigenze di carattere sociale, economico e culturale

 

L'attuale fase storica sta determinando, nella nostra società, una serie di cambiamenti strutturali, dettati da oggettive esigenze di carattere sociale, economico e culturale.

Le riflessioni sul significato e sui contenuti da dare al concetto di Stato sociale impongono, in tutti i Paesi evoluti, l'inevitabile modifica di equilibri e situazioni consolidate.

L'evoluzione del concetto stesso di tutela ha comportato, nel corso degli anni, un mutamento nelle logiche di erogazione dei servizi e nel contesto normativo con il quale ogni giorno aziende, lavoratori e cittadini si misurano.

Inoltre, le scelte adottate a livello nazionale non possono più prescindere dagli orientamenti espressi a livello europeo, né dalle esperienze maturate nel più ampio contesto internazionale.

 

In Italia ed in Europa, il ripensamento delle politiche sociali costituisce la leva prioritaria per il rilancio del sistema economico e sociale.

La revisione della politica sanitaria diviene, quindi, uno dei presupposti fondamentali per realizzare l'auspicato allineamento con gli altri paesi economicamente avanzati.

Rispetto a tali paesi ci troviamo, infatti, di fronte ad una situazione di squilibrio della finanza pubblica cui fanno riscontro crescenti bisogni di tutela della salute e di miglioramento della qualità della vita.

La sanità italiana dovrà confrontarsi nei prossimi anni anche con le conseguenze legate ai profondi e repentini mutamenti demografici.

Le previsioni effettuate evidenziano come fino al 2025 vi sarà una progressiva diminuzione dei giovani con meno di 15 anni mentre gli ultra-sessantacinquenni passeranno dall'attuale 17,7% al 25,7%.

 

Da ciò deriveranno inevitabilmente due conseguenze:

 

- progressiva e costante diminuzione della popolazione in attività che produrrà una ricchezza insufficiente per coprire i costi della sanità pubblica ;

- una sempre più crescente domanda di assistenza sanitaria.

 

A ciò si aggiungano anche le trasformazioni in atto nella società soprattutto nella struttura della famiglia, sempre più frammentata, che hanno prodotto nuove esigenze sociali e stili di vita completamente diversi rispetto al passato.

Questi fenomeni comporteranno, secondo l'Ocse, un aumento della spesa sanitaria pubblica italiana in rapporto al Pil dal 6,3% nel 2000 all'8% nel 2030, a fronte di un ammontare di risorse che, in rapporto a quelle complessivamente prodotte, risulterà proporzionalmente inferiore a quelle attuali.

Attualmente la spesa sanitaria in Italia, nel suo complesso, si attesta al 7,6% del Pil. Si tratta di una quota inferiore sia alla media Ue (8,0%) che alla media Ocse (7,8%). Se guardiamo però alla composizione si vedrà come l'Italia sia il paese in Europa dove la percentuale di spesa privata sul totale della spesa sanitaria è la più elevata.

Questo dato, tuttavia, non rappresenta il risultato di una precisa scelta di politica sanitaria bensì la fotografia di una realtà connotata da una forte insoddisfazione dei cittadini nei confronti dell'assistenza sanitaria pubblica.

Tale constatazione è avvalorata anche dai dati relativi al più elevato grado di soddisfazione registrato nei Paesi europei (Francia e Germania in testa), dove esiste un sistema sanitario che offre la possibilità di scelta tra strutture pubbliche e private.

 

Peraltro, in Italia persistono problemi di carattere strutturale quali ad esempio quelli legati al finanziamento delle ASL.

Da anni cioè vengono sottostimate le risorse effettivamente necessarie alla sanità pubblica a fronte di una previsione delle misure di contenimento della spesa assolutamente ottimistiche.

Con l'approvazione del decreto legislativo n.229/99, il Governo è intervenuto sull'assetto del Servizio Sanitario Nazionale.

La riforma ipotizzata sembra tuttavia ispirata ad un modello che assegna all'assistenza privata un ruolo "residuale" o "strumentale" rispetto al sistema pubblico e, da quest'ultimo, comunque, "governato e vigilato".

 

In realtà, gli indirizzi dell'Unione Europea in materia di politica sanitaria vanno in direzione di uno Stato "leggero" che interviene come regolatore di una molteplicità di centri gestori delle attività produttive di beni e servizi. Il principio può e deve trovare applicazione anche nel nostro Paese, dove lo Stato deve assumere una funzione regolatrice, garantendo al privato (con particolare riguardo al privato sociale di matrice contrattuale) uno spazio operativo accanto al servizio pubblico, dotato di autonomia e pari dignità.

La recente riforma, tuttavia, puntando sulla centralità pubblica nella gestione e nel sistema decisionale, diverge profondamente dai principi di decentramento, di autonomia e di sussidiarietà che stanno investendo i processi di riconversione della Pubblica Amministrazione e che dovrebbero modificare il rapporto fra Stato e cittadini.

C'è il rischio, invece, che si vada nella direzione opposta rispetto alla riforma del '92 che aveva introdotto la possibilità di ricorrere a forme private di copertura dei rischi. Non a caso, nella nuova riforma, vengono penalizzati, anche se gradualmente, i fondi integrativi preesistenti e le mutue integrative, attraverso la riduzione della deducibilità fiscale delle somme destinate ai fondi che non forniscono prestazioni integrative rispetto al Ssn.

La scelta fatta dal Governo conferma l'orientamento di gestire la sanità pubblica con norme e strumenti operativi di tipo amministrativo, precludendo alla radice ogni apertura all'introduzione di regole di mercato. Le strutture sanitarie pubbliche continueranno così ad essere un'emanazione della Pubblica Amministrazione: continueranno quindi a persistere gli ostacoli che attualmente si frappongono al perseguimento di obiettivi come l'efficienza, l'aziendalizzazione, la qualità del servizio.

 

Un serio tentativo di riordino della Sanità italiana dovrebbe invece passare per il rispetto della libertà di scelta del cittadino e per una maggiore responsabilizzazione del singolo nelle scelte riguardanti la propria salute.

Introdurre nel nostro Paese un sistema duale, ma ispirato da una filosofia a senso unico risulterebbe incoerente con quanto avviene negli altri contesti europei dove i lavoratori possono contare su sistemi integrati tra pubblico e privato.

Posta in questi termini, la manovra sui fondi va ad incidere anche sulla materia delle relazioni sindacali. Essa impone, di fatto, vincoli alla contrattazione collettiva e, introducendo potenziali oneri al costo del lavoro, viola il patto di concertazione sottoscritto da Governo e Parti sociali.

Per garantire quindi la più ampia libertà e la sopravvivenza dei Fondi sanitari integrativi preesistenti secondo nuovi schemi di integrazione nel sistema è necessario:

 

a)    mantenere un regime di agevolazione fiscale tale da assicurare per il futuro il finanziamento delle attività senza oneri aggiuntivi;

b)    intervenire nella fase attuativa della disciplina dei Fondi integrativi, in modo da renderla maggiormente compatibile con possibili forme di integrazione.

 

Nel contempo, appare condivisibile una linea di sviluppo che consenta la diffusione dei Fondi integrativi del SSN (Fondi d.o.c.) e che dovrebbe realizzarsi lungo due direttrici:

 

a)    completare gli interventi normativi in modo da assicurare l'unitarietà della disciplina ordinamentale e di quella fiscale;

b)    affermare, quanto meno in sede di elaborazione dei provvedimenti ministeriali di attuazione della nuova disciplina dei Fondi integrativi, un concetto di "integrazione" che abbia come punto di riferimento non solo i livelli uniformi ed essenziali previsti dal Piano sanitario nazionale ma anche e soprattutto gli "standard qualitativi dell'assistenza effettivamente erogata".

 

In concreto se la riforma vuole evitare di confliggere con il sociale deve tener conto che, nel nostro Paese, operano da anni realtà di assistenza sanitaria integrativa che hanno colmato, di fatto, le lacune sofferte dal sistema sanitario pubblico.

Ad esempio fondi nati dalla contrattazione collettiva, come la QUAS e il FASDAC garantiscono ai Quadri e ai Dirigenti del Terziario il rimborso di tutta una serie di prestazioni sanitarie previste da appositi nomenclatori tariffari.

E' innegabile, quindi, che tali fondi, finanziati dalle imprese e dai lavoratori, svolgono una funzione fondamentale in termini di contenimento della spesa dal momento che si fanno carico di una serie di prestazioni, liberando il Servizio Sanitario Nazionale dei relativi oneri.

Il trattamento fiscale agevolato nei confronti delle contribuzioni destinate a tali fondi non può, pertanto, essere considerato un privilegio né un onere per la collettività bensì come il riconoscimento dovuto alla funzione sociale svolta da meccanismi contrattuali collettivi.

 

Per questi motivi non appare condivisibile il recente schema di decreto legislativo sul trattamento fiscale dei fondi sanitari integrativi che non sembra sposare tale tesi.

Viene, infatti, prevista la riduzione graduale dell'esenzione fiscale dei contributi destinati ai fondi predetti, il cui limite passa dagli attuali 7 milioni annui a 3,5 milioni annui nell'anno 2007.

Inoltre, il mantenimento del sistema di esenzione, passa attraverso la contestuale devoluzione di quote di contribuzione ai così detti fondi DOC.

Questi ultimi sono i soli fondi sanitari che il Servizio Sanitario Nazionale riconosce come integrativi in quanto dovrebbero fornire le prestazioni che il sistema non è in grado di fornire.

Questo impianto comporterà in ogni caso un aggravio di costi ed organizzativo per i fondi sanitari esistenti. Questi saranno costretti a rivedere il loro assetto organizzativo e contrattuale attraverso la separazione dei rischi tutelati secondo logiche di compatibilità fiscale.

Tale situazione se non verrà modificata rischia di alterare, già nel breve periodo, equilibri faticosamente raggiunti attraverso la contrattazione collettiva senza, peraltro, offrire alternative valide capaci di far superare al lavoratore ed imprese le riserve e le insoddisfazioni del passato.

Va valutato infine il rischio che un maggior ricorso obbligatorio alle prestazioni erogate dal Servizio Sanitario Nazionale da più ampie fasce di cittadini determini un'enfatizzazione dei disservizi che finora hanno caratterizzato il nostro sistema sanitario.

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