Sergio Billè al convegno "Turismo motore d'Italia"

Sergio Billè al convegno "Turismo motore d'Italia"

Verona, 26 aprile 2004

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26 aprile 2004
Intervento di Sergio Billè

Non  avevamo certo bisogno dei pur autorevoli pareri espressi nel corso dei lavori dell’ultimo vertice del Fondo Monetario Internazionale per sapere quanto fosse preoccupante il livello di stagnazione dell’economia dei Paesi dell’Unione Europea, una stagnazione che ormai dura da tempo e che sentiamo sulla nostra pelle.

Ma ci sembra assai importante che, in questa sede, i Ministri dell’Economia dell’Ue e, primo fra tutti, il Ministro Tremonti abbiano, in qualche modo,  sancito il principio che, per l’Europa, “l’obiettivo della crescita economica  deve considerarsi oggi prioritario rispetto a quello della stabilità finanziaria”. E’, o almeno dovrebbe essere, una buona premessa per voltare pagina, ma ora è evidente che, a questa enunciazione, devono seguire politiche conseguenti. Proprio mettendo sul tavolo a Washington e confrontandoli tra di loro tutti i dati dell’economia mondiale sono saltati agli occhi i gap di cui soffre la vecchia Europa. Mentre, infatti, si sta consolidando  la ripresa negli Stati Uniti, si sta rinvigorendo quella del Giappone e sta raggiungendo livelli di sviluppo fino a qualche tempo fa impensabili quella degli altri paesi del Sud Est asiatico, Cina in testa, l’economia del “vecchio mondo” appare ancora come anchilosata e  ferma sulle gambe. E’ dalla crisi  seguita agli attentati dell’11 settembre del 2001, cioè da quando sono saltati i pennini della vecchia politica di sviluppo fissati nel vertice di Lisbona, che l’Europa vive  in questa condizione di cronica sofferenza.

Si pensava che la ripresa che è arrivata negli altri continenti potesse avere, di rimbalzo, una specie di effetto cortisonico anche sull’Europa, ma non è stato purtroppo così o almeno non è ancora così.

Per il nostro Paese le cose sono andate anche peggio perchè, a questa persistente e  negativa congiuntura dell’area europea,  se ne è aggiunta un’ altra endogena  di tipo strutturale  che rischia di trasformarsi in una crisi di sistema.

Ora il Ministro Tremonti sembra intenzionato a rovesciare quell’elenco di priorità che, fino a qualche tempo fa, sembrava intoccabile e ad anteporre la politica dello sviluppo a quella della stabilità.

E’ un’ottima dichiarazione di intenti, ma ci chiediamo quando, come, in quale misura e su quali binari questa politica di stimolo dell’economia comincerà davvero ad essere attuata. Vedo che, all’interno della maggioranza di Governo, continuano ad esserci idee ancora abbastanza diverse tra loro su come debba realizzarsi questa politica di stimolo. Si era parlato, nelle scorse settimane, della necessità di dare una “scossa” al sistema, ma sarà difficile produrre questa scossa se non si metterà prima di tutto la spina nella presa di corrente. E questo non è ancora avvenuto.

E la cosa ovviamente ci preoccupa perché quando la dialettica e il confronto politico ed istituzionale, pur necessari in un sistema democratico, sembrano continuare all’infinito - ieri come oggi, come forse anche domani - si rischiano effetti paralizzanti nell’azione di un Governo. Con senso di frustrazione che, negli operatori, cresce e si sedimenta di pari passo. Noi siamo convinti – ma da quanto tempo lo diciamo?- che la prima cosa da fare è quella di produrre significativi interventi che possano stimolare prima di tutto l’aumento dei consumi perché è proprio riattivando e allargando la circolazione e la distribuzione della ricchezza che si possono produrre, a cascata, benefici effetti su tutto il sistema, anche su quello industriale e produttivo.

E Tremonti mi sembra oggi convinto che questa,  e non altre, debba essere la linea.

Ma allora il Governo decida finalmente qualcosa perché, andando avanti, nella maggioranza, con questa politica di continui ed assordanti distinguo, si rischia di perdere altro tempo prezioso. Nessuno nega che ad un intervento di tipo espansivo non debba corrispondere una politica di razionalizzazione delle risorse e quindi di taglio di quelle spese che sono chiaramente improduttive per lo sviluppo del sistema.

Ma cosa aspettiamo per usare l’accetta?

Occorre anche rivisitare e razionalizzare il sistema degli incentivi che vengono erogati oggi ad una parte del sistema delle imprese e che - conti alla mano - si sono rivelati, in tutti questi anni,  solo parzialmente produttivi. Ebbene, nella misura necessaria, si faccia anche su questo versante qualche correttivo ma è importante che serva al raggiungimento dell’obiettivo che ci siamo preposto. E vengo al punto che maggiormente interessa il dibattito di oggi. Non nego la necessità di approntare strumenti che consentano a tutti i comparti del nostro sistema economico di riprendere la via della crescita. Ma  c’è un settore che più di molti altri, se adeguatamente sollecitato, potrebbe dare subito risultati di controtendenza assai significativi.Parlo naturalmente del Turismo.

Perché se  è vero che  molti dei nostri prodotti, nel contesto di un mercato globale di sempre più accesa concorrenza, rischiano di diventare sempre meno competitivi – e i motivi di questa crisi di competitività sono oggi tutti ben noti - il nostro “prodotto” turistico conserva un’eccezionale vitalità che andrebbe sfruttata assai di più e meglio di quanto viene sfruttata oggi. E’ una cosa che continuiamo a ripetere e a ripeterci, con monotona litania, da tempo,  ma non c’è peggior sordo di chi – e mi riferisco soprattutto alle Istituzioni- non vuol sentire.

Eppure dovrebbe essere chiaro a tutti che proprio  le nostre imprese del turismo sono oggi in grado di “vendere” un prodotto che, proprio perché unico al mondo e ad alto valore aggiunto, non teme la concorrenza né di quelli americani, né di quelli giapponesi né di quelli cinesi. Un prodotto – clima, ambiente, straordinaria offerta di beni culturali ed artistici di ogni genere - che si trova “in natura” e che perciò non ha alcun bisogno, per essere competitivo ed imporsi nei mercati, di investimenti nella ricerca, nelle tecnologie o in  altro. Ma c’è qualcuno che ne parla? Date una scorsa, ad esempio, a certi documenti del sindacato: pagine e pagine in cui si formulano proposte per almeno arginare il fenomeno di decomposizione, sotto i colpi della concorrenza, di certi nostri comparti industriali. Ma sul turismo nemmeno una parola, un ripensamento, una rimodulazione delle strategie.

Eppure l’impresa del turismo, se adeguatamente potenziata, potrebbe creare, nel medio periodo, centinaia di migliaia di nuovi posti di lavoro sicuramente più “sicuri” di quelli che oggi sono in grado di offrire certi comparti dell’industria.

E gli industriali sono forse disposti a stornare  almeno una parte di quegli incentivi – davvero tanti - che continuano a ricevere per fare in modo che questo prodotto a basso costo, ma ad alta produttività possa ampliare le sue quote di mercato?

Non vorrei annoiarvi con le solite statistiche che conosciamo ormai a memoria ma almeno un paio di cose vanno, in questa sede, messe in luce con tutti i loro giusti contorni. La prima è che l’Europa detiene ancora oggi il 53%, per quanto riguarda il turismo, della capacità ricettiva mondiale e il 58% dei ricavi. Tra il 1990 e il 2002 gli arrivi, nel nostro continente, sono aumentati del 46%, superando i 410 milioni di unità. Nel 2020, secondo stime dell’OMT, gli arrivi in Europa supereranno la quota dei 700 milioni rispetto ad un totale mondiale di circa un miliardo e cento.

Con dati così importanti, l’Europa farebbe bene a dedicare a questo problema assai più attenzione di quella che gli dedica. La seconda è che l’Italia pur essendo oggi, per ricettività alberghiera, la seconda potenza mondiale dopo gli Stati Uniti, rischia, per quanto riguarda il business turistico nel suo complesso, di venir surclassata non solo dalla Francia, ma ora anche dalla Spagna. E potremmo scivolare, in mancanza di interventi, ancora più in basso perché con la globalizzazione dei mercati anche il turismo sta diventando uno strumento di sviluppo economico di sempre maggiore importanza. Le Istituzioni, la politica, presi da altri problemi, fingono di non accorgersene. Difatti, a fronte di una concorrenza che  sta diventando sempre più aspra, non esiste ancora, nel nostro Paese, una politica volta ad una reale ed estesa commercializzazione del prodotto turistico. Almeno mezza Italia, quella del Mezzogiorno, continua ad avere, da questo punto di vista, i cantieri chiusi e ciò rende in gran parte inutilizzabili le sue enormi potenzialità. E ciò ci sembra assai grave.

Vorrei fare solo tre esempi che mi paiono di stretta attualità.

Tra pochi giorni, il primo maggio, sullo scenario internazionale, avverranno contemporaneamente tre fatti nuovi di grande rilevanza soprattutto per il mondo del turismo.

1-La famiglia europea crescerà di numero con milioni e milioni di nuovi consumatori . Mi chiedo chi stia pensando ad un piano che consenta di gestire, sotto il profilo turistico, un evento di simile portata, dove sia un programma di efficace promozione, cosa si stia facendo per predisporre un’offerta che sia in grado di corrispondere a questo nuovo tipo di domanda.

2- Con l’entrata in vigore dell’accordo Ue-Cina, anche il nostro Paese diventerà una potenziale “destinazione turistica” per quel mercato della domanda – almeno 100 milioni di unità entro pochi anni – che si profila come il più grande del mondo. Cosa si sta facendo per accogliere questo nuovo flusso e per evitare che esso si diriga altrove, ad esempio in Spagna?

3- Il cartello della IATA che raccoglie oggi i principali vettori aerei perderà, sempre a partire dal mese di maggio, la propria immunità antitrust cioè il proprio monopolio. Mi chiedo quale sia, di fronte a questi eventi, la strategia della nostra compagnia di bandiera. E’ tanto - e non è detto che ci si riesca - se eviteremo che essa, per ragioni di bilancio, chiuda i battenti, ma dove sono le politiche e le strategie di sviluppo di un settore che, visti i nuovi flussi turistici, ha per noi un valore determinante?

Ho usato questi tre esempi per segnalare il “vuoto” di fronte al quale le centinaia di migliaia di imprese operanti nel settore del turismo si trovano oggi guardando alle Istituzioni e alle strategie di politica economica. Pesa il nostro “gap” infrastrutturale - anche in questo la Spagna ci sta surclassando - pesa una politica fiscale che, di fatto, impedisce alle nostre imprese turistiche non solo di fare nuovi investimenti, ma di rimodulare il suo tipo di offerta in modo che essa possa soddisfare anche i turisti di basso reddito che affluiranno in Europa dall’Est e dai Paesi del Sud Est asiatico, pesa, infine, la mancanza di una politica di marketing che possa stimolare l’attenzione di milioni di turisti verso quello straordinario ed ineguagliabile patrimonio culturale ed artistico di cui dispone il nostro Paese.

Abbiamo almeno cento città, in Italia, che, da questo punto di vista, potrebbero diventare galline dalle uova d’oro. Fino a quando continueremo a ripeterci queste cose  tra di noi, ma poi a non far nulla per trasformare in realtà queste nostre potenziali risorse?

Ecco il punto, ecco l’interrogativo a cui bisogna dare una significativa risposta.

E lasciatemi concludere con una riflessione che tocca fatti accaduti nelle ultime ore e che lascia l’amaro in bocca. Per attivare lo stabilimento Fiat di Melfi lo Stato ha erogato incentivi e contributi a fondo perduto pari a circa un miliardo di lire per unità operativa. Non dico che lo Stato non dovesse incentivare, in qualche modo, anche al Sud, lo sviluppo del settore industriale, ma, riflettendo oggi sulle politiche adottate per favorire questo sviluppo, due fatti mi sembrano incontrovertibili. Il primo è che questa politica degli incentivi non ha fino ad oggi in alcun modo aperto una reale prospettiva di sviluppo industriale nell’area meridionale. Melfi esiste - anche se, come vediamo, con mille problemi - ma continua ad essere un’oasi nel deserto. Il secondo è che, mentre si erogavano tutti questi miliardi per l’insediamento di un piccolo enclave industriale, non si sono poi trovati, invece, i soldi necessari per creare, al Sud, quelle infrastrutture che, per lo sviluppo del turismo, erano indispensabili.

Deserto era, e deserto, in buona misura, rimane. E questo, a fronte delle prospettive di un rilancio della nostro settore turistico, produce in noi solo un pesante, soffocante senso di frustrazione.

 

 

 

 

 

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