SERGIO BILLE' AL FORUM SULLA SICUREZZA ALIMENTARE

SERGIO BILLE' AL FORUM SULLA SICUREZZA ALIMENTARE

MILANO 20 APRILE 2001 (testo integrale)

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20 aprile 2001
sicurerezza alimentare 20 - 21 aprile 2001

“Gli esseri umani potrebbero alla fine rivelarsi come le cavie di quell’esperimento, davvero singolare, che vorrebbe ripopolare la terra con i frutti di una nuova genesi di laboratorio. L’introduzione di nuovi organismi geneticamente manipolati, inoltre, solleva seri problemi per la salute dell’uomo”.

Così, nel suo libro sulla biotecnologia, si esprime Jeremy Rifkin, uno studioso americano che, per le cose che sostiene - ricordate le previsioni che fece, e che si rivelarono in gran parte esatte, sul crollo a Wall Street dei titoli tecnologici - va valutato con molto rispetto.

Io sono meno categorico e meno catastrofico di Rifkin  nel trarre le conseguenze da quella che è senza dubbio, oggi negli Stati Uniti domani nel resto del mondo, una vera e propria rivoluzione alimentare, ma non c’è dubbio che questo problema vada valutato con la massima attenzione e affrontato anche elaborando strategie adeguate, strategie che oggi non ci sono o sono strutturate in modo poco convincente.

Noi siamo stati tra i primi, in un convegno tenuto a Saint Vincent nel lontano 1995, ad affrontare in modo concreto questa questione facendo venire da Washington esperti di primo piano del dipartimento che da tempo lavora nell’area del Biotech.

E già allora si capì quale tracciato avrebbero seguito le biotecnologie, quali interessi avrebbero sollecitato, quale impatto esse avrebbero avuto nella produzione alimentare.

Da allora sono passati sei anni, ma non si può dire che l’Europa e l’Italia  abbiano utilizzato tutto questo tempo per mettere a punto programmi che servissero a fronteggiare questo fenomeno  e strutture idonee a verificarne, dal punto di vista  alimentare, il grado di sicurezza e di compatibilità con la salute dell’uomo.

Un silenzio di molti anni che ora si cerca frettolosamente di colmare.

Io, nel poco tempo che ho a disposizione, vorrei affrontare soprattutto tre questioni.

Biotech  è stata organizzata negli Stati Uniti  con un impianto assai simile a quello che realizzò Hollywood negli anni 50 per produrre film che potessero essere venduti in tutto il mondo, una grande operazione commerciale che riuscì quasi perfettamente.

Ma film western e prodotti alimentari non sono la stessa cosa.

E , sia pure prendendola con le molle perché tutti, anche in questo grande gioco, fanno politica, vorrei citare un’affermazione di Wan Ho, biologa e biochimica portavoce del movimento di Seattle: ”la scienza, dice, non è di per sé cattiva ma c’è in giro molta cattiva scienza. Quella cattiva scienza che attecchisce soprattutto nei giardini delle grandi multinazionali così attente a seguire i richiami del guadagno facile e che potrebbe avere conseguenze spiacevoli e assolutamente inaspettate: peggio delle armi nucleari e delle scorie radioattive, perché i geni possono replicarsi indefinitamente, diffondersi e ricombinarsi tra loro”.

Noi non apparteniamo al popolo di Seattle, ma siamo abituati ad ascoltare tutte le campane e questa ha un suono sordo e preoccupante.

 Così vengo alla seconda questione. L’Unione Europea - meglio tardi che mai - ha definito, nei confronti del Biotech, una specie di codice di comportamento che ha come principale obbiettivo la sicurezza alimentare e con essa la salvaguardia della salute dei consumatori. Da qui una serie di regole di comportamento che  le aziende produttrici o importatrici di prodotti Biotech dovranno d’ora in poi seguire. E’ certamente un buon inizio ma che, per essere suffragato da buoni risultati, ha bisogno di  strategie operative  di sicura efficacia.

Mi sembra che da questo punto di vista molto, troppo sia ancora da fare perché è chiaro che, in un campo minato come quello alimentare, non bastano le enunciazioni, ci vogliono strutture capaci di gestire con intelligenza e prontezza le emergenze, di fare adeguate forme di comunicazione, di coordinare, ma coordinare veramente le iniziative, a vari livelli, dei tanti e diversi soggetti nazionali  che operano in questo settore.

E, da questo punto di vista, siamo indietro, terribilmente indietro perché questo coordinamento per ora esiste solo sulla carta o si traduce in vertici nei quali la consultazione non può che restare episodica, frammentaria con riflessi  operativi che si concretizzano solo nei casi di emergenza come è stato per la mucca pazza e per l’afta epizootica.

Ma la biotecnologia procede, anzi corre sottotraccia e ha bisogno di ben altri controlli, di ben altre verifiche, di ben altre strategie.

Anche perché ogni governo, in mancanza di una vera autorità politica europea, è portato a tirare acqua al proprio mulino difendendo soprattutto i propri interessi che possono essere assai diversi l’uno dall’altro.

Ad esempio, in base alle direttive che sono state approvate dal governo di Bruxelles, spetterà all'autorità alimentare europea decidere quali siano le filiere di prodotti maggiormente a rischio e fissare la soglia quantitativa per gli ingredienti che possono essere utilizzati.

Ma l’interrogativo che tutti ci poniamo oggi è: saranno in grado le strutture europee di assolvere a questo compito? Per come sono oggi ne dubito, ma mi auguro che, con il tempo, le cose potranno migliorare. Ma quanto tempo ci vorrà perché migliorino? E - ultima domanda - cosa accadrà nel frattempo? Non c’è il rischio di chiudere la stalla quando i buoi sono già tutti scappati? Perché è ovvio che, in questa lotta con il tempo, le grandi multinazionali avranno buon gioco. Stanno avendo buon gioco.

Terza e ultima questione che è poi la più delicata di tutte.

Il nostro mercato alimentare è giusto che non abbia più porte e finestre perché non avrebbe senso, in piena globalizzazione, tornare a forme di autarchia  o peggio di boicottaggio di prodotti  che provengono da altri paesi.

Ma ciò non deve voler dire affossare tradizioni, tipicità, qualità del prodotto alimentare italiano le cui caratteristiche ci vengono invidiate da mezzo mondo.

Deve essere una difesa strategica, strutturata nel giusto modo, finalizzata allo sviluppo e non al regresso della nostra agricoltura e della nostra industria alimentare.

E, da questo punto di vista, devo dire che non ci siamo, non ci siamo proprio. La difesa del prodotto italiano non si realizza semplicemente sventolando una bandiera o battendo i pugni sul tavolo in qualche vertice.

Si tratta di creare, invece, strutture che funzionino; che abbiano sufficienti poteri di intervento. Bisogna elaborare strumenti legislativi e regolamentari  che operino su un doppio fronte: da un lato, garantiscano che tutti i prodotti che vengono messi in commercio in Italia rispondano a precisi requisiti di sicurezza e di qualità, dall’altro, consentano alla produzione alimentare italiana di svilupparsi in modo da  consolidare  le proprie posizioni sui mercati  e non solo sul mercato interno.

E poi , ultima questione-bis, va fatto un grande lavoro di informazione e di sensibilizzazione dei consumatori che, fino ad oggi, sentono parlare di alimentazione solo quando esplode il caso della mucca pazza o quello dell’afta. Come se  solo quando c’è il mostro da mettere in prima pagina un problema come quello della sicurezza alimentare possa fare notizia.

Non è così e mi sembra grave la carenza  delle Istituzioni da questo punto di vista.

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