SERGIO BILLE' ALL'ASSEMBLEA ANNUALE DI CONFCOMMERCIO

SERGIO BILLE' ALL'ASSEMBLEA ANNUALE DI CONFCOMMERCIO

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5 luglio 2001
Roma, 5 luglio 2001
Palazzo dei Congressi all'Eur
 

 

ASSEMBLEA GENERALE DI CONFCOMMERCIO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Relazione del Presidente

Sergio Billè

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

C’è un Governo, dotato di una ampia maggioranza parlamentare, che intende cambiare, ma cambiare veramente il modello di questo sistema-paese.

Se è proprio vero, allora per noi è un invito a nozze, perché è quello che, inascoltati, chiediamo da tempo.

Signor Presidente, Confcommercio è e resterà sempre un soggetto politico fortemente autonomo, ma è probabile che, in questa sala, siano idealmente rappresentati alcuni di quei milioni di voti che le hanno consentito di vincere le elezioni.

Bene, ora è arrivato il momento di far vincere anche loro.

E, perché siano loro a vincere, tre cose, chiare come il sole, devono essere fatte:

Primo, far crescere il mercato liberandolo dalle forche caudine dei monopoli che fino ad oggi ne hanno bloccato lo sviluppo.

Il che significa, in primo luogo, porre fine a quelle rendite di potere che ancora esistono e che, invece, non dovrebbero avere più ragione di esistere.

Secondo, demolire, usando, se occorre, anche il piccone, quelle strutture dello Stato e del parastato che, per tutelare meglio i propri interessi, hanno remato contro tutti coloro che hanno cercato di creare forme moderne di mercato e di concorrenza.

Infine, dobbiamo riuscire a creare un sistema economico che abbia regole di garanzia, ma anche strutture, capitali, professionalità che gli consentano di sfruttare al meglio quel che oggi offre la globalizzazione.

Sono tutte cose che si possono fare perché le idee ci sono, le capacità pure.

Solo che dobbiamo schiodarci - e schiodarci è proprio il termine giusto - da un sistema arrugginito e culturalmente impreparato ad affrontare il futuro.

Compresi i tanti rischi che questo salto nel futuro potrà comportare.

Proprio in queste ore, ai piani alti del potere economico, avvengono operazioni che puntano a modificare di nuovo il quadro di comando e di controllo del nostro sistema industriale e finanziario.

Anche questo è un segnale di quel processo di assestamento e di cambiamento che la sempre più accelerata competizione tra imprese, sistemi economici e paesi ormai comporta e con la quale tutti - anche chi si propone di realizzare una politica nuova e che copra l'intero arco di questa legislatura - dovranno fare i conti.

Anche le imprese - e sono centinaia di migliaia - che operano nella grande area del terziario di mercato e che hanno prodotto, da sole, nel 2000, il 54% del prodotto interno lordo di questo paese, sono pronte a fare questo salto nel futuro.

Ma, per poterlo fare, hanno bisogno di avere alle spalle uno Stato che sappia fissare regole che garantiscano un vero processo democratico di sviluppo.

Accettano questa sfida, sempre che il cambiamento vada nella direzione giusta, sempre che, per realizzare il processo di trasformazione di questa società - che sotto il vestito ha oggi molto di vecchio e poco di nuovo - si cambino davvero tutte le cose che devono essere cambiate.

Il documento di programmazione economica e finanziaria e la legge finanziaria che ad esso seguirà rappresentano le piattaforme di lancio di questo programma che, a nostro giudizio, deve cominciare a dare i suoi primi risultati già a partire dal 2002.

Mettere fretta ad un Presidente del Consiglio che è abituato a correre non è certo facile, ma noi cercheremo lo stesso di farlo.

Con uno Stato più moderno e con regole nuove il terziario di mercato potrebbe essere in grado di produrre, in quattro anni, secondo i nostri calcoli, almeno 1.250.000 nuovi posti di lavoro sempre che venga potenziata tutta l'area dei servizi e sempre che l'offerta turistica venga supportata, in tutta Italia, da un'efficiente rete di infrastrutture.

1.250.000 mila posti non sono pochi ma è un risultato che è possibile realizzare.

E’ un grande progetto, speriamo che non resti solo un grande sogno.

E ora parliamo pure delle cose che il Governo si propone di fare nelle sue prime settimane di attività.

Ci sembrano positive le misure proposte per la semplificazione delle pratiche amministrative, per la tenuta dei libri IVA e per la ristrutturazione degli interni degli immobili, anche quelli a destinazione commerciale, liberata finalmente da inutili vincoli.

Ed è anche positivo aver tolto la tassa sulla successione, una misura che favorisce la trasmissione delle imprese da padre a figlio e che permette di non sottrarre risorse che possono essere più utilmente impegnate per nuovi investimenti.

Ma per favorire il rientro in Italia di capitali che, soprattutto per motivi fiscali, sono da tempo tenuti all'estero e che sono stimati in 500 mila miliardi, occorrono misure ben più articolate ed efficaci che azzerino quella che è diventata una purtroppo diffusissima abitudine - meglio direi vizio - di molte delle imprese di media e grande dimensione che hanno i centri di costo in Italia e i centri di profitto all'estero.

Se il Governo riuscisse in questa non facile, anzi sicuramente ardua impresa, l'economia italiana riceverebbe una nuova e importante boccata di ossigeno perché tornerebbe a riempirsi un serbatoio che oggi è mezzo vuoto.

Ma è opportuno parlare anche del resto.

Se il problema era quello di iniettare subito in vena al mondo dell’industria una buona dose di fiducia, devo dire che il Presidente del Consiglio ha agito con la rapidità e la destrezza di un allenato medico di pronto soccorso.

Parlo ovviamente del rilancio della legge Tremonti.

L’estensione dei benefici di questa legge anche alle piccole e medie imprese che operano nell’area del terziario e che, a differenza di altre imprese, hanno soprattutto la necessità di fare investimenti di tipo tecnologico e formativo, è una positiva - ma bisogna vedere se sufficiente - correzione di rotta.

E dobbiamo dire che - ma forse non c’è stato il tempo - meglio sarebbe stato rivedere dalle fondamenta questa legge che è stata congegnata e strutturata per altri obiettivi.

Del resto, era da tempo che certi settori non mostravano così tanta euforia per un provvedimento preso da un Governo.

Vorrei però ricordare al Presidente del Consiglio che, per rilanciare sul serio tutto il sistema economico, non basta un’endovena. Ce ne vogliono due e la seconda andrebbe fatta al mercato che, di questo sistema, è uno degli assi portanti.

Perché non basta che le imprese abbiano più risorse e più capitali a disposizione per i loro investimenti e le loro ristrutturazioni.

Occorre anche rafforzare il fronte della domanda che, per essere rilanciato, ha bisogno prima di tutto che si ricostituisca quel potere di acquisto delle famiglie medie italiane che, in questi anni, si è andato pericolosamente erodendo come i dati sul rallentamento dei consumi chiaramente dimostrano.

Ed è di questa seconda, indispensabile endovena, signor Presidente, che bisognerà parlare al più presto perché anche il rilancio della domanda è una cambiale in scadenza da ormai molto tempo.

Staccarsi subito dalla riva della sfiducia e della stagnazione è stata sicuramente insomma una buona cosa ma ora bisogna portare la nave sull’altra sponda, quella dei consumi, perché, altrimenti, c’è il rischio di un viaggio fatto a vuoto.

Con una riflessione aggiuntiva.

Sarebbe paradossale che le nuove risorse messe ora a disposizione dell’industria venissero, anche a causa dell’anoressia che ha colpito il mercato interno dei consumi, stornate verso quelle aree del pianeta dove la regola è solo quella del profitto finanziario.

Ricordate la vicenda della rottamazione delle auto?

Le aziende del settore fecero il pieno di vendite ma, in Italia, non crearono nemmeno un posto di lavoro in più.

Ha ragione Eugenio Scalfari quando sostiene che c'è il grosso rischio che queste risorse vengano utilizzate dalle imprese più per modernizzare i loro impianti e consolidare i loro capitali che per produrre nuovi investimenti e nuova forza lavoro per rilanciare mercato e consumi.

Non ha tutti i torti. Ma mi domando: come mai Scalfari, nonostante questo sia un problema che ci carichiamo sulle spalle da anni, ha deciso di parlare soltanto ora?

Dovrebbe essere chiaro a tutti che è arrivato il momento di investire e di produrre proprio nel nostro Paese anche perché questo diverso atteggiamento imprenditoriale potrebbe essere la calamita per attirare in Italia quei capitali stranieri che da tempo non considerano più appetibile, per gli investimenti, il nostro mercato.

Naturalmente perché tutto ciò accada è necessario ridare competitività al sistema diminuendo i costi di produzione e rendendo assai più flessibile il mercato del lavoro.

Ma tutti, su questo versante, devono anche cominciare a rischiare qualcosa.

E' giusto insomma che le imprese pensino prima di tutto a ridurre i costi ma come potrà essere rilanciata l'economia se non si cominceranno a realizzare prodotti più competitivi?

Qualche riflessione anche sulla legge che punta a riportare in superficie l’economia sommersa.

E’ senz’altro possibile - se no, non ci sarebbe chi ha tanto insistito per il varo di questa legge - che vi siano oggi imprese che, volendo anche esportare, vogliano tentare la riemersione dato che l'Unione Europea combatte duramente l’export clandestino.

Qualcosa di importante potrebbe muoversi al Sud dove dilaga da tempo l'economia sommersa ma anche in certe aree industriali del Nord dove operano anche aziende che, come i sommergibili, non amano troppo navigare in superficie.

E’ assai più difficile, invece, che abbocchi un altro genere di aziende.

Mi riferisco a quelle imprese del sommerso - più del 35% del totale con un fatturato annuo che si aggira sui 60-70 mila miliardi di lire - ai quali si aggiungono i proventi derivanti da molte altre attività, quello immobiliare in primo luogo - che appartengono a società direttamente finanziate e controllate dalle grandi organizzazioni criminali italiane e straniere le quali utilizzano queste attività non solo per allargare l'area dei loro profitti ma anche come strutture di copertura per il riciclaggio del denaro sporco, la produzione di prodotti falsificati - ce ne è una marea - e di altre attività che di legale non hanno quasi nulla.

Una riemersione di queste aziende potrebbe presentare per le cosche più rischi che vantaggi dato che verrebbero intercettati assetti societari per lo meno strani.

Temo, insomma, che la politica della carota, su questo versante, serva a poco.

Qualcosa potrebbe venir fuori, invece, dal settore - un oceano anch’esso - dell’abusivismo di mercato dove operano decine di migliaia di circoli privati, di falsi agriturismo, di strutture di intrattenimento, che godono di larghe sacche di agevolazioni che consentono loro di operare nella più sleale forma di concorrenza.

E va intensificata anche la lotta alla criminalità economica che, in Italia, ha raggiunto latitudini molto preoccupanti.

Ci sono, infatti, in Italia almeno 250 mila miliardi di beni illegali che restano chiusi nei portafogli delle cosche e che invece dovrebbero essere sequestrati e confiscati.

Ci attendiamo che questo Governo faccia, in questa direzione, più di quanto non siano riusciti a fare i precedenti governi.

Perché non ha proprio senso lavorare per la modernizzazione di un sistema economico e poi consentire che una così grande fetta delle risorse del Paese continui ad essere gestita dalle organizzazioni criminali .

Il confronto sul documento di programmazione economica e finanziaria sarà la prima seria occasione per verificare con quali tempi, modi e priorità il Governo intenda dare l’avvio al suo programma di cambiamento del sistema.

Il nuovo buco che sembra essere stato riscontrato nei conti pubblici, regalo inatteso e non certo gradito del precedente Governo, ci preoccupa, ma non più di tanto perché, in questi anni, è accaduto anche di peggio.

Una cosa deve essere certa: il buco però non dovrà essere rammendato ricorrendo ad altre manovre fiscali, manovre verso le quali ormai, famiglie ed imprese, sono del tutto allergiche.

Sarebbe insomma un guaio se prevalessero ancora una volta le logiche della vecchia burocrazia di Stato da sempre abituata a scaricare sui contribuenti le conseguenze dei propri errori e di una dispendiosa e disordinata gestione della cosa pubblica.

Il Dpef dovrebbe mettere a fuoco alcuni obiettivi che a noi sembrano più urgenti di altri.

Le privatizzazioni, sulle quali si dovrebbe marciare a tavoletta individuando anche metodi di dismissione che assicurino la massima trasparenza possibile.

Fino ad oggi non è stato così e le conseguenze purtroppo si vedono ad occhio nudo.

Gli introiti infatti derivanti dalle privatizzazioni concluse nel corso del 2000 ammontano a circa 14.500 miliardi e a circa 23.000 miliardi quelli derivanti dalle licenze UMTS, mentre si prevedeva un incasso, sotto questa voce, entro la fine del 2000, di almeno 65.000 miliardi.

E' evidente che qualcosa è andato storto e c'è quindi la necessità di accelerare questo processo sia per non minare la credibilità del nostro Paese in sede comunitaria sia soprattutto per accrescere la concorrenza dei mercati.

Non bisogna dimenticare che, specie per alcuni settori come quelli dell'energia elettrica e del gas, si punta alla privatizzazione perché solo essa potrà portare ad una riduzione delle tariffe e alla realizzazione e gestione di nuove infrastrutture come quelle del project financing.

La verità è che il programma delle privatizzazioni è stato gestito favorendo interessi ed aspettative che non erano certo quelle del libero mercato.

E qualcuno dovrà pur fare un giorno la cronistoria - e forse ci vorrà anche qualcos'altro - su tutto quel che, su questo versante, è accaduto in questi anni.

Rimane troppo alto il divario tra i costi di produzione di energia elettrica in Italia e quello degli altri paesi UE, divario che si riverbera inevitabilmente sulla "bolletta energetica".

Difatti, si può dire tutto oggi del mercato dell'energia meno che sia un mercato libero nel quale tutti possono comperare al prezzo giusto e dal migliore offerente.

La legge attuale prevede, infatti, profonde disparità di trattamento tra categorie di utenti e le più svantaggiate di tutte, nell'acquisto di energia elettrica, sono oggi le piccole imprese e, in particolare, quelle del terziario.

L'unico modo per eliminare questa assurda, plateale discriminazione è quello di ridurre il periodo transitorio, vendere al più presto le tre centrali di Genco e ampliare la fascia delle imprese e dei loro consorzi che possono comprare energia sul mercato libero.

Ma andiamo oltre.

Anche l’inefficienza dei trasporti urbani in molte aree metropolitane ha fatto sì che il costo medio che oggi famiglia deve sopportare - potendo usare, per gli spostamenti, solo il mezzo privato - sia aumentato, negli ultimi cinque anni, del 37%.

Volete un altro parametro? Nell'ultimo decennio, fino al '97 sono stati costruiti, in tutta Italia, appena 15 chilometri di rete metropolitana.

Come le strutture commerciali - per parlare proprio di cose di "casa nostra" - continuano ad essere costrette a pagare imposte esose per una serie di servizi che o funzionano in modo discontinuo o non funzionano affatto.

Se il Presidente Berlusconi ha pensato di chiamare il suo movimento politico "casa delle libertà" è evidentemente perché crede che la liberalizzazione sia un fondamentale obiettivo.

E allora ci si sbrighi, per favore, a togliere i coperchi ad un impianto pubblico in cui ancora regnano rendite di monopoli che non dovrebbero più avere ragione di esistere.

C’è anche il problema delle infrastrutture.

Mi sembra che, in proposito, il Governo abbia chiari obiettivi.

Giusto partire dalle grandi infrastrutture - lo svincolo di Mestre, il valico Firenze-Bologna, l’autostrada Salerno-Reggio Calabria i cui cantieri, aperti da tempo infinito, hanno messo, in qualche punto, le ragnatele.

Ma mettere mano alle infrastrutture significa anche volare più basso, anzi in modo radente perché è fuori di ogni logica lasciare che migliaia e migliaia di piccoli comuni restino tagliati fuori dal progresso per l’assenza di qualsiasi tipo di infrastrutture, anche quelle - si pensi all'utilizzo delle fibre ottiche - che oggi offre l'informatica.

Il turismo - un settore in cui operano 300 mila imprese e che oggi conta, in termini di valore aggiunto, 120 mila miliardi - ha bisogno per esprimere tutte le sue potenzialità, di un vero modello di sviluppo che fino ad ora nessun Governo è stato in grado né di disegnare né di programmare.

E' una grave lacuna a cui bisogna cercare di porre rimedio al più presto dando, in primo luogo, alla grande rete delle piccole imprese che, del turismo, sono cuore e polmoni, la possibilità di migliorare la qualità di tutta la vasta gamma di servizi che esse oggi sono in grado di offrire.

E' in questo modo, e non riprogettando modelli adatti a paesi turisticamente emergenti, che il turismo italiano può diventare un grande business.

Ma anche il settore dei trasporti ha bisogno di interventi radicali.

Sappiamo che entro il 2010 la domanda di servizi di trasporto aumenterà del 40% e che la parte più rilevante riguarderà il trasporto su gomma.

Se è vero che bisogna puntare su una programmazione più diversificata dei mezzi di trasporto, è anche vero che l'autotrasporto su strada rimarrà ancora per molti anni una componente strategica del nostro sviluppo economico.

Come resta strategica e da qualificare maggiormente tutta la rete del nostro trasporto marittimo.

Occorre anche rendere omogenee, in sede europea, le normative in modo che il nostro sistema di trasporto non debba essere penalizzato rispetto a quelli di altri paesi.

Infrastrutture e sicurezza sono oggi questioni che, intrecciate tra loro, sono della massima importanza.

Ci sono gravi carenze che non solo rendono ormai inaccettabile il grado di vivibilità in molte aree metropolitane ma impediscono anche alle strutture commerciali di esprimere al meglio tutte le loro potenzialità: è enorme la carenza di parcheggi, inesistente la vigilanza in molti quartieri periferici nei quali l'incolumità di cittadini e commercianti è sempre più a rischio.

Ma ormai gli stessi rischi li corre ogni città, anche la più piccola. Ovunque.

E tutti sappiamo quanti morti abbia prodotto, in questi ultimi anni, la cosiddetta criminalità metropolitana.

Anche il funzionamento dell'apparato giudiziario conserva oggi carenze e disfunzioni gravissime.

Non è possibile, ad esempio, che il processo civile abbia tempi di attesa che, in media, superano i tre anni.

La giustizia è un ombrello bucato che non protegge, in Italia, chi, in condizioni già di per sé difficili, cerca di operare sul mercato e fare impresa.

Come è indispensabile una nuova politica del lavoro.

Il primo obiettivo è quello di ridurre la forbice oggi esistente tra costo del lavoro, retribuzione lorda e retribuzione netta dei lavoratori.

All’aumento del costo del lavoro dovuto ai rinnovi contrattuali ai vari livelli - proprio in questi giorni è stato rinnovato il contratto del settore del terziario, anche grazie al senso di responsabilità delle imprese che intendono investire nello sviluppo di questa grande area di mercato - non corrisponde un equivalente beneficio in termini di potere d’acquisto delle retribuzioni reali e ciò si riflette negativamente sulle stesse aziende e sulla contrattazione.

Le nostre imprese possono puntare allo sviluppo solo se all’offerta corrisponde un’adeguata domanda. Ma questa continuerà ad essere sempre carente se i redditi delle famiglie continueranno ad essere falcidiati, da tasse, oneri, tariffe.

Il mercato del lavoro va sostenuto anche con politiche formative che consentano qualificazione e aggiornamento del fattore umano.

Bisogna agganciare il mondo del lavoro a quello dell'istruzione.

E non posso non parlare di quali oneri non più sostenibili siano gravate le imprese del terziario.

Il pacchetto delle nostre proposte, già sul tavolo del Governo, comprende, tra l'altro, il ricalcolo e la rivalutazione automatica della detrazione IRPEF sui redditi di impresa, una drastica riduzione dell'IRAP, dalla quale andrebbe prima di tutto escluso il costo del lavoro, e ancora l'esclusione della stessa tassa per tutte le imprese a cui si applicano gli studi di settore.

E deve sparire anche la scandalosa imposta sulle insegne, un retaggio che disonora un paese civile.

Come è giunto il momento di procedere ad una profonda revisione della riforma Bersani per correggerne storture e inadeguatezze.

E' importante che imprese e sindacati si confrontino per cercare soluzioni che siano idonee ad un sistema economico che è assai diverso ormai, per regole, latitudini, programmi e obiettivi, da quello di dieci anni fa.

Basti pensare a quel che è successo, in questi anni, in materia di part-time, apprendistato e lavoro a tempo determinato.

Certi rigidi condizionamenti imposti dal vecchio statuto dei lavoratori e da altre altrettanto logore normative non hanno più ragione di esistere.

Il che non significa affatto togliere ai lavoratori diritti e garanzie, ma adottare regole nuove che permettano di accrescere la competitività facendo in modo che tutti ne possano avere un giusto tornaconto.

A questo proposito non posso non fare qualche considerazione sul problema dei contratti a tempo determinato e sulle direttive europee che si vogliono applicare per regolamentarlo.

Sulla sostanza di questa direttiva europea non ho nulla da obiettare e mi sembra di averlo detto fin dall’inizio.

Per lo sviluppo del mercato, infatti, lo strumento della flessibilità è ormai essenziale e più varchi si aprono in questa direzione più occupazione e sviluppo si riusciranno a produrre.

Ma continuo a ribadire che l’aver escluso o aver fatto in modo che si autoescludesse - che è poi la stessa cosa - da questo confronto il maggiore sindacato italiano mi è sembrato un errore di percorso, un fuori pista che sarebbe stato meglio evitare.

Perché, se l’aria che tira è quella del vero cambiamento e se è vero che tutti, anche i sindacati, vogliono questo cambiamento, una politica del muro contro muro su questioni di dettaglio, come è certamente questa, è un errore strategico che potrebbe provocare ritardi ed incomprensioni.

Il mio vuol essere un duplice appello. A Cofferati, prima di tutto, perché si decida a scendere dall'Aventino, ma anche al Governo che ha tutti gli strumenti, i poteri e, credo, anche la sensibilità per poter riaprire in fretta i microfoni del dialogo.

Perché, con i microfoni spenti, non si va da nessuna parte.

Siamo ormai alla vigilia dell’introduzione della moneta unica, un avvenimento epocale di cui mi sembra che si parli troppo poco e l’Europa continua ad essere un cavallo che beve poco, mangia male e soprattutto non sembra avere le energie per vincere il derby con il grande dollaro.

Tra poco pagheremo anche il caffè con l’euro, ma non abbiamo ancora le idee chiare su quel che significherà per noi domani essere europei.

Il filosofo tedesco, Jurgen Habermas sostiene che questa strana forma di labirintite che ci assale ogni volta che pensiamo al futuro dell’Europa, sparirà d’incanto quando all’Europa dei trattati e delle monete si aggiungerà finalmente l’Europa della politica e dei comuni valori.

E quando e come questo potrà avvenire?

L'adesione al trattato di Maastricht ha portato indubbi benefici alla nostra economia ma è come se, dopo aver raggiunto questo traguardo, il treno dell'Europa avesse rallentato la velocità.

E questo ha provocato una serie di contraccolpi negativi.

Primo perché l’euro non ci ha per nulla aiutato a rendere più sopportabile la bolletta petrolifera da sempre agganciata al dollaro come l’edera. Mentre le prospettive iniziali erano tutte diverse.

Abbiamo solo sognato.

Secondo, perché la crisi che ha colpito anche i paesi europei, in primo luogo la Germania, ha dato un colpo di maglio alle nostre esportazioni che sono orientate, per il 60%, proprio verso quest’area.

Terzo, perché le multinazionali continuano a fare quello che vogliono.

Quarto, perché la cronica debolezza dell’euro sta allontanando dall’Europa capitali che continuano a rifugiarsi in altri lidi.

Quinto, perché quella specie di sistema immunitario che avrebbe dovuto essere la struttura europea non è servito né ad arginare il fenomeno del riciclaggio del denaro sporco, né ad impedire la penetrazione nel nostro tessuto economico e commerciale delle grandi organizzazioni criminali dell’est europeo, né a frenare il flusso dell’immigrazione clandestina.

Credo che il nostro Governo dovrebbe avere il coraggio di costringere i nostri partner ad un vero e proprio show down su alcune questioni di fondo.

Innanzitutto un rafforzamento dell’esecutivo. Perché solo così l’Europa delle monete può diventare l'Europa della politica e dei comuni valori.

Secondo, dai recenti sondaggi realizzati a Bruxelles risulterebbe che circa il 25% degli italiani (il 38%, se ci può consolare, dei tedeschi) ha ancora, nei confronti della moneta unica, un atteggiamento di accentuata diffidenza.

E sarà meglio fare qualcosa prima che ci piovano in testa le nuove monete.

Una terza questione è anche la grande globalizzazione che incombe e che sarà il tema centrale del vertice dei G8 che si aprirà tra qualche giorno a Genova.

Riguarda anche noi? Certo che riguarda anche noi perché il nostro sistema, se non riesce ad attrezzarsi in tempo, rischia davvero di restare tagliato fuori da questo "grande slam" dell’economia nel quale gioca solo chi riesce a restare in serie A. Gli altri, tutti fuori, colonizzati o quasi.

Noi, dentro al G8, per fortuna, ci siamo e questo ci darà modo di giocare le nostre carte ma bisogna anche dire che i piani, gli obiettivi, i disegni di questa globalizzazione restano ancora un grosso rebus. Per tutti.

Michael Gorbaciov, una persona che merita la nostra gratitudine per quel che ha cercato di fare per rendere almeno un po’ più libera una parte di questo pianeta, ha paragonato questa globalizzazione ad una di quelle locomotive che, lanciate in una folle corsa, rischiano, ad ogni curva , di uscire dai binari.

Il paragone è senza dubbio forzato, appesantito dal pessimismo di un uomo che sperava che proprio la globalizzazione avrebbe potuto aiutare il suo paese sulla via dello sviluppo e della democrazia.

Ma quel che non ha fatto in Russia, la globalizzazione non è riuscita, per ora, a farlo nemmeno altrove.

Perché se la globalizzazione avesse davvero applicato, come era nei suoi disegni iniziali, il principio dei vasi comunicanti, con una ricchezza che man mano veniva trasferita da un’ampolla alle altre creando un equilibrato benessere nel mondo, allora sì che avremmo trovato il farmaco giusto.

Ma qualcosa deve essere andato storto se, a quasi vent’anni dal suo esordio, ancora esistono, sul pianeta, un miliardo e mezzo di persone costrette a vivere con meno di un dollaro al giorno e se i paesi ricchi, con il 15% della popolazione, continuano ad avere un reddito pro capite 63 volte più alto di quello dei paesi poveri dove vive il 40% della popolazione mondiale.

Qualcosa deve essere andato storto se il 56% dei paesi in via di sviluppo è ancora privo di qualsiasi forma di assistenza sanitaria di base e 2 miliardi di persone sono costrette a vivere senza energia elettrica.

Andrzej Szostek, professore di teologia morale all’università di Dublino, sostiene che, quando verrà completato il ciclo della globalizzazione, il mondo finirà nelle mani di una ristretta cerchia di ricchi investitori i quali terranno a libro paga mezzo mondo.

Evidentemente questo teologo ha visto troppi film di James Bond e della Spectre ma forse un pizzico di ragione ce l'ha.

E non deve sembrare per nulla strano che in un’assemblea di Confcommercio si parli, oltre che della globalizzazione, anche di quel protocollo di Kyoto rimasto fino ad ora lettera morta per l’opposizione di paesi, come gli Stati Uniti, che ritengono che lo sviluppo industriale sia più importante di un problema chiamato clima.

Perché con Kyoto le nostre imprese c’entrano. Eccome.

Perché se non ci decideremo a ridurre in fretta, entro pochi anni, le emissioni di gas serra (anidride carbonica, gas metano, protossido di azoto, esafloruro di zolfo, idrofluorocarburi e perfluorocarburi) il surriscaldamento della terra sarà un fatto ineluttabile.

E quando la temperatura della terra salirà a 55 gradi - perché queste sono appunto le previsioni degli scienziati - che ne sarà del nostro commercio e del nostro turismo?

Chi avrà ancora il coraggio di venire in Italia per visitare i nostri musei?

Anche il ministro degli esteri, Ruggiero sostiene che gli obiettivi del popolo di Seattle non sono poi così diversi da quelli a cui sta lavorando il G8.

Per questo mi è venuta quasi voglia di andare a Genova e di manifestare anch'io.

Non è detto che non lo faccia. Ci sto pensando.

E vorrei che chi è in questa sala, faccia la stessa riflessione.

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