SERGIO BILLE' ALL'AUDIZIONE SULLA MANOVRA 2000

SERGIO BILLE' ALL'AUDIZIONE SULLA MANOVRA 2000

ROMA, 13 OTTOBRE 1999 (testo integrale)

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14 ottobre 1999
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Nessuno vuole negare l'importanza di una Finanziaria che, per la prima volta dopo molti anni, non aumenta la pressione fiscale e, anzi, limitatamente alle famiglie meno abbienti, la diminuisce.

Accanto però a questo fattore positivo, ve ne sono altri di valenza negativa che non si può, con forza, non evidenziare.

Primo, il quadro di riferimento di questa Finanziaria per il 2000 appare sostanzialmente invariato rispetto a quello del Documento di programmazione economica con una crescita del Pil reale che non va oltre il 2,2% per il 2000 e prevede valori solo lievemente superiori per il triennio successivo. Il suo raggio di azione, dunque, ci sembra troppo corto e senza strumenti adeguati per un rilancio, a breve, dell'economia e del mercato.

Il Governo, in sostanza, ha preferito scegliere una linea attendista che definirei di galleggiamento, insufficiente per produrre nuova occupazione e per ridare competitività, sui mercati, alle nostre imprese.

Secondo, essa non tiene conto del pericolo di un rialzo dell'inflazione, pericolo che appare più che fondato sia per le recenti prese di posizione della Banca europea sia per la già affiorante lievitazione dei prezzi industriali e di molti semilavorati.

Nè essa tiene conto - e questo è un aspetto ancora più preoccupante - delle dinamiche che stanno caratterizzando i beni e i servizi di pubblica utilità, degli aumenti di molte tariffe e della sensibile lievitazione di voci come benzina, assicurazioni auto e affitti che, ormai liberalizzate, sfuggono a qualsiasi forma di controllo e di monitoraggio.

Terzo, la finanziaria sopravaluta, sopravaluta decisamente, la crescita della domanda di consumo delle famiglie che, invece, conti alla mano, è in via di tendenziale rallentamento.

La verità è che, da un lato, la diminuzione della pressione fiscale sulle famiglie meno abbienti, serve a compensare, e solo in parte, i corposi aumenti delle tariffe e dei beni che si stanno verificando in ogni comparto - quelli della benzina, del gasolio per riscaldamento, della Rc Auto per citare solo le voci maggiori - dall'altro, continua ad essere debole il potere di acquisto di tutte le altre famiglie, quelle che, componendo il segmento centrale dell'area dei consumi, possono muovere realmente il mercato.

É facile, partendo da queste oggettive premesse, giungere ad alcune conclusioni.

La prima è che, con questa Finanziaria, il gap che, in tema di sviluppo, continua a dividerci dai nostri partner europei, resta pressoché inalterato: la distanza resta la stessa con margini di competitività sui mercati che per l'Italia restano assai ridotti. Questa competitività, anzi, del nostro sistema si sta riducendo all'interno del mercato europeo.

La seconda è che rischia di restare irrisolto, stagnante, il problema dell'occupazione, tema sul quale si sono spese molte parole in questi mesi ma senza riuscire a produrre poi fatti concreti e, soprattutto per quanto riguarda il Mezzogiorno, i prodromi di una vera svolta.

La terza è che lo Stato continua ad aumentare le sue entrate derivanti sia dall'aumento della pressione fiscale sia dalla privatizzazione di aziende pubbliche ma non ci dice come, dove e quando intende utilizzare queste risorse, con quali strategie, per quali finalità.

Si tratta - ma non si conoscono almeno fino ad ora le cifre esatte - di una torta che, nel suo complesso, potrebbe superare i 40-45 mila miliardi di lire senza tener conto delle notevoli entrate che produrrà la vendita del 20% dell'Enel.

Ma di queste entrate la Finanziaria non fa cenno, avendo preferito il Governo "blindare" i conti reali e riservarsi ogni potere su quella che dovrà essere, per il 2000 e gli anni successivi, la programmazione della spesa e quindi dei possibili interventi anche di carattere fiscale.

É una blindatura che manda a carte e quarantotto la concertazione con le parti sociali che pure, per come a Natale fu impostata, avrebbe dovuto essere uno dei cardini, anzi il cardine della programmazione economica di questi anni.

Siamo di fronte quindi ad una politica sostanzialmente dirigistica ,ad una sola via che rischia di essere l'esatto contrario di quel che il governo, all'atto del suo insediamento, si era ripromesso di realizzare.

Sappiamo bene che il governo ha come compito primario il rispetto del Patto di stabilità sancito dal Trattato di Maastricht e quindi, di conseguenza, deve lavorare con assiduità ad  una programmata diminuzione del nostro ingombrante debito pubblico.

Ma ciò deve essere compensato da una politica che attivi il mercato, restituisca fiducia alle imprese e alle famiglie, crei le basi per nuovi investimenti e nuova occupazione, stimoli maggiormente l'export, oggi in crisi per mancanza di competitività, faccia ripartire un mercato che appare tuttora asfittico, stagnante, distante dai parametri europei.

Preoccupa anche la carenza di una politica che porti ad un concreto anche se graduale decentramento della spesa a favore di Regioni e Comuni. Sta accadendo, anzi, come, ieri hanno denunciato le massime rappresentanze degli Enti locali, proprio il contrario e questo non può non alimentare altre preoccupazioni.

La prima è che Regioni e Comuni, vedendo ridotte le loro risorse finanziarie, aumentino le tasse locali. Con conseguenze sul mercato e sul potere di acquisto delle famiglie facili da immaginare.

La seconda è che così si snaturi, si perda per strada, divenga ibrida e scarsamente incisiva la politica di decentramento dello Stato che pure, sulla carta, doveva rappresentare uno dei perni della riforma del nostro sistema-Paese.

Su un piano più generale, il sostanziale stop che il governo sembra voler dare a tutta la politica delle riforme, è fonte di perplessità, anzi di grande preoccupazione.

Non è con una politica di puro contenimento che questo paese può pensare di affrontare i problemi che si presenteranno, sia sotto il profilo economico sia sul versante sociale, negli anni duemila.

Il sostanziale stop, ad esempio, dato alla riforma delle pensioni e del sistema previdenziale, la mancanza di una politica  produttiva di risultati per quanto riguarda i tagli delle spese correnti, la ristrutturazione delle Ferrovie, lo smantellamento di enti e strutture pubbliche assolutamente inutili e costose sono segnali assai preoccupanti e che non si possono sottovalutare.

Aver trasformato, di fatto, la concertazione con le parti sociali in una sorta di podio dal quale il governo si limita, di volta in volta, a dare, quasi sempre a posteriori, comunicazione sulle cose che ha deciso di fare e di non fare per quanto riguarda il rilancio del mercato e le  riforme ci sembra un errore strategico di particolare rilevanza.

Da questa Finanziaria le piccole e medie imprese non traggono sostanziali benefici.

Occorrerebbe, invece, porre mano a provvedimenti volti a:

protrarre nel tempo le forfetizzazioni di imposta per le nuove imprese;

rimuovere il vincolo dell'età per i soggetti che intendono usufruire delle agevolazioni;

agevolare oltre all'apertura di nuove attività anche l'ampliamento di quelle esistenti che intendono incrementare superfici, personale o unità;

  incentivare i consumi e lo smaltimento delle giacenze, seguendo il modello già attuato in altri comparti;

  rendere permanenti le agevolazioni per il rinnovo degli immobili e dei beni strumentali al fine di consentire un rapido adeguamento delle mutate condizioni di concorrenzialità e normative;

  ripristinare più ampi margini di deducibilità di costi per le imprese progressivamente ristretti nel corso degli ultimi anni a causa delle politiche di risanamento finanziario;

  procedere alla riduzione delle aliquote IVA nei settori ad alta intensità di manodopera, secondo le indicazioni e le opportunità UE, comprendendo tra di essi anche il turismo e la ristorazione;

  detassare le mensilità aggiuntive (ad esempio la c.d.  tredicesima) al fine di avviare la ripresa dei consumi dando un concreto segnale di ottimismo alle famiglie ed alle imprese;

neutralizzare o ritardare gli effetti delle addizionali all'IRPEF di competenza degli enti territoriali.

Per il commercio elettronico si auspica che lo stanziamento di 330 miliardi sia destinato a due grandi linee di intervento:

- attuare il disposto dell'art. 21 della Legge di Riforma del Commercio che prevede azioni di formazione imprenditoriale e la realizzazione di progetti pilota in collaborazione con le Associazioni;

- prevedere  incentivi  automatici a favore delle PMI che intendano avviare attività  di commercio elettronico mediante: contributi sugli investimenti sostenuti in attrezzature informatiche, software e servizi; crediti d'imposta sul volume del fatturato derivante dalle transazioni effettivamente poste in essere.

 

Quanto al Fondo unico per gli incentivi auspichiamo che vengano considerate  le seguenti finalità:

 

prolungare l'operatività degli incentivi fiscali per l'acquisto   di beni strumentali;

  rifinanziare la legge sui Confidi;

  finanziare  i Centri di assistenza tecnica;

sanare la situazione delle domande presentate per l'acquisto di strumentazione tecnologica e innovativa;

rifinanziare gli indennizzi per la cessazione di attività commerciali.

 

Per quanto riguarda le risorse per le aree depresse, ci si attende che la Delibera del Cipe di prossima emanazione, suddivida per settore il rifinanziamento della legge 488/92 in considerazione della recente estensione della stessa al commercio e al turismo, e che la quota di risorse per ciascuno di tali settori non sia inferiore a 1.000 miliardi.

Tale ripartizione assume una particolare rilevanza anche in considerazione del fatto che essa rappresenta lo strumento di base indicato nel Programma Operativo Nazionale per il cofinanziamento dei Fondi strutturali.  

L'attuale formulazione del Programma Operativo Nazionale (PON) relativo allo Sviluppo Locale esclude il commercio, destinando gli interventi a favore del solo settore industriale.

L'assenza del commercio nel PON Sviluppo locale, laddove non sanata, determinerebbe di fatto un considerevole minor tiraggio di risorse comunitarie a favore del settore. Infatti a  fronte dei circa 4.000 miliardi (1.978 milioni di euro) che sono destinati al PON, a livello regionale viene attribuita una quota pari a circa 3.000 miliardi (1.523 milioni di euro) da suddividere per 20 regioni e su tutti i settori economici presi in considerazione nei programmi regionali.

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