Sergio Billè alla 52° Premiazione del Lavoro e del Progresso economico

Sergio Billè alla 52° Premiazione del Lavoro e del Progresso economico

Udine, 24 ottobre 2005

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25 ottobre 2005
Intervento di Sergio Billè

L'aumento della produzione industriale, da un lato, e la crescita, dopo quasi due anni di gelo, dei consumi delle famiglie, dall'altro, sono segnali importanti. Certo, per ora, da un lato come dall'altro, si tratta solo di deboli, quasi impercettibili "refoli" di ripresa, davvero troppo modesti per poter già dire che la nostra economia sta cominciando realmente a svoltare. Sarebbe però anche un errore sottovalutarli o considerarli del tutto insignificanti.

Io, proprio perché abituato a ragionare solo su numeri e fatti concreti, non sono mai stato fra quelli che praticano l'ottimismo d'accatto.

E' anche vero però che bisogna prendere atto che qualcosa si sta finalmente muovendo, com'è, del resto, logico e giusto che accada in un paese che, possedendo ancora un grande bagaglio di energie, di risorse e di potenzialità, non accetta l'etichetta di paese in declino e che sia destinato a soccombere sotto il rullo compressore della globalizzazione.

Ma qual è oggi il problema? E' quello, a mio giudizio, di incanalare, di convogliare e poi di gestire questi refoli di ripresa in modo tale che essi servano a produrre anche un modello nuovo di sviluppo.

Perché sarebbe sciagurato, direi imperdonabile attaccare oggi questo piccolo carro di ripresa a cavalli vecchi e ormai sfiancati cioè a modelli e strategie di sviluppo che, nelle logiche di mercato oggi imposte dalla globalizzazione, non sono più competitive, anzi non hanno più ragione di esistere.

E ponendo questo problema non intendo affatto personalizzarlo su responsabilità di questo o quel versante politico, della destra come della sinistra.

Chiunque assumerà, infatti, le responsabilità di governo nella nuova legislatura dovrà affrontare prima di tutto il problema di un nuovo modello di sviluppo che porti fuori il paese dalle secche in cui oggi purtroppo si trova.

O si metterà mano a questo nuovo modello con strumenti e strategie e su pilastri adeguati o il ritorno ad una competitività del sistema resterà purtroppo solo un miraggio.

E devo dire che il confronto che si va accendendo soprattutto a livello politico e istituzionale in questa campagna elettorale è, su questo cruciale problema, purtroppo ondivago, sfocato, in una parola ancora privo di proposte che appaiono, in questo senso, credibili o addirittura risolutive.

Bisogna risanare il debito e poi? Bisogna far fronte prima di tutto alle emergenze imposte da settori in crisi e poi?

Giusto tamponare, in qualche modo, le falle che si sono aperte nello scafo della nave, ma siamo sicuri che questo basti per farle riprendere il mare e per farle seguire le rotte oggi imposte dall'economia internazionale?

Io dico che non basta. O cominciamo ad avere l'occhio lungo sui problemi che oggi pone la sempre più esasperata concorrenza dei mercati o la nostra economia rischierà di finire chiusa dentro un giardinetto di pochi metri quadrati e senza sbocchi.

Cosa vuol dire lavorare oggi per la realizzazione di un nuovo modello di sviluppo? Per me significa fare soprattutto tre cose:

 

1-                Cominciare prima di tutto ad utilizzare le grandi potenzialità che questo paese ancora conserva: industria e manifatturiero certo, ma anche turismo e dinamiche di sviluppo di tutta l'area dei servizi.

Voglio dire cioè che fino a quando la programmazione della nostra economia resterà ancorata solo alle logiche e alle priorità che hanno fatto testo negli anni ottanta e novanta non solo non si avrà un nuovo modello di sviluppo ma il nostro ruolo finirà con l'essere quello di un paese sempre più gregario, sempre più asfittico, sempre più a rimorchio di altri mercati.

 

2-                Nuovo modello di sviluppo significa stabilire nuove, diverse e ormai inderogabili priorità. Niente di più e niente di meno di quel che altri paesi a noi concorrenti hanno, del resto, già fatto da tempo.

Il che vuol dire mettere in primo piano e con intenti finalmente risolutivi problemi che si chiamano logistica, infrastrutture, comunicazioni, trasporti, servizi alle imprese e alle persone.

Fino a quando questi problemi non saranno davvero affrontati e risolti, la competitività del nostro sistema non potrà che scendere nelle graduatorie internazionali. Basta, del resto, scorrere le classifiche che oggi vengono fatte sul grado di competitività dei singoli paesi, per capire che così l'Italia non può andare avanti. Siamo scesi al 41° posto. Dobbiamo scendere ancora o ci decidiamo finalmente a fare qualcosa per risalire la china e per riavere, nei mercati, il peso e il ruolo che ci spetta?

 

3-      Proprio questa città e questa regione sono oggi un simbolo dell'Italia che non solo non si arrende, ma che anzi lotta, con il cuore e con i denti, per non soccombere: un livello di operosità che dovrebbe essere di esempio ad altre regioni italiane.

Ma - ed è appunto questo il grande rebus di fronte a cui si trova oggi il nostro paese - o queste operosità, questa voglia di guardare sempre avanti, queste energie vengono convogliate in un modello di sviluppo che abbia valenze, latitudini e strumenti di programmazione di nuovo conio e perciò di maggiore efficacia o il nostro sistema economico rischia di non andare più da nessuna parte.

 

Si dirà che è difficile cambiare il motore in corsa.

Vero. Del resto, anche altri paesi europei - chi più chi meno - hanno oggi gli stessi nostri problemi: costi del sistema sociale troppo onerosi, poche risorse disponibili per la ricerca e per l'innovazione dei prodotti, concorrenza quasi selvaggia da parte di paesi e di mercati che, godendo di regimi fiscali assai diversi e avendo un peso del Welfare quasi inesistente, possono mettere alle corde, strapazzare o addirittura schiantare quel che si offre e si produce all'interno del vecchio sistema europeo.

E' come se l'Europa fosse ancora legata ai dettami del Vecchio Testamento, dettami che poco hanno a che fare con quelli del Nuovo Testamento imposti oggi dalla globalizzazione dei mercati.

E, difatti, la Germania, per sopravvivere, sta "delocalizzando" gran parte dei suoi impianti industriali. Il fatto è però che, nel frattempo, in conseguenza di questa più che logica trasformazione, il numero dei disoccupati in Germania è cresciuto a dismisura tanto da porre oggi, a livello anche politico, nuovi e gravi problemi di gestione del sistema economico.

Persino negli Stati Uniti, paese simbolo del libero mercato, la General Motors, per sopravvivere, ha dovuto chiudere dieci fabbriche e licenziare 25 mila dipendenti.

E da noi che si fa?

Giusto, più che giusto attuare politiche che cerchino in ogni modo di evitare che la crisi del manifatturiero si trasformi in una debacle occupazionale.

Com'è giusto che le nostre Istituzioni, per quanto riguarda la programmazione dell'economia e l'utilizzo delle risorse ancora disponibili, procedano in modo assai cauto e guardingo attenti a non spostare il baricentro degli interessi e delle aspettative del sistema.

Ma questo, allo stato delle cose, resta purtroppo solo piccolo cabotaggio: un po' meno debito da una parte, qualche opera di tamponamento dall'altra.

E poi?

Ecco perché il problema di un nuovo modello di sviluppo che vada oltre la siepe del quotidiano mi pare ormai diventato assai stringente.

Ho detto tutto il bene possibile, ad esempio, di una proposta di legge finanziaria che oggi finalmente punti al taglio strutturale della spesa pubblica improduttiva che è poi la causa primaria del nostro debito pubblico.

E' un passo che, se si farà - e io mi auguro proprio che si faccia - andrà proprio nella direzione giusta perché è solo così oggi che si può, da un lato, ridimensionare il nostro debito e, dall'altro, si possono recuperare risorse per investimenti che siano utili alla modernizzazione e quindi al rilancio del sistema.

Ma questo passo, da solo, non è sufficiente.

Non è giocando in difesa che il sistema può sperare di vincere la concorrenza di paesi - la Cina, l'est europeo, l'India e altri - che, per conquistare fette di mercato, ormai vanno all'assalto all'arma bianca.

Occorre, ripeto, un modello nuovo di politica economica che dia finalmente respiro, forza e possibilità di manovra a tutto ciò che di produttivo e di concorrenziale questo paese è ancora in grado di esprimere.

Non possiamo pensare solo a saldare i debiti che si sono accumulati e che l'Europa giustamente ci rimprovera.

Ci vuole anche dell'altro, ci vuole una politica che consenta di sfruttare tutte le potenzialità che il nostro sistema è oggi in grado di esprimere.

Ed è appunto il sistema dei servizi - un'area che, da sola, produce ormai il 55% della nostra ricchezza - il comparto che può attivare un processo di sviluppo e di nuova concorrenzialità e competitività del sistema.

Cerchiamo, in ogni modo - sarebbe un guaio non fare qualcosa di importante in questa direzione - di migliorare la competitività dei nostri prodotti nel mondo.

Ma cerchiamo anche di operare perché questo sistema, al suo interno, divenga sempre più produttivo di ricchezza.

Ecco perché il mio richiamo al problema della logistica e delle infrastrutture.

Se non lo si risolverà il grande motore del turismo internazionale prenderà altre strade. Purtroppo lo sta già facendo.

E aver trascurato questo settore, mi pare un enorme errore.

Se esso fosse messo in grado di esprimere tutte le sue enormi potenzialità, ecco che anche le risorse da esso prodotte potrebbero essere poi convogliate anche per il rilancio di altri settori produttivi perché lo Stato avrebbe maggiori risorse da gestire per ogni genere di investimenti.

Continuando col piccolo cabotaggio, ripeto, sarà difficile uscire da questa situazione.

Ecco perché siamo ad un vero giro di boa del sistema. Mi auguro che anche le Istituzioni della nostra politica ne siano oggi coscienti.

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