Sergio Billè alla 60° Assemblea Fipe

Sergio Billè alla 60° Assemblea Fipe

Saint Vincent, 4 luglio 2005

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4 luglio 2005
Penso che abbia fatto bene il governo a scegliere una linea di politica economica che, almeno nel breve periodo, puntasse più

Penso che abbia fatto bene il governo a scegliere una linea di politica economica che, almeno nel breve periodo, puntasse più allo sviluppo che al rientro del nostro sempre più ingombrante deficit.

Del resto, quando un sistema è proprio a rischio di affogamento, l'unica cosa che si può fare - e di questo si è resa conto anche l'Unione europea - è quella di lanciargli una ciambella di salvataggio.

Resta da vedere, però, se questa ciambella sarà robusta abbastanza da consentire al sistema almeno di galleggiare.

Ed è appunto quel che cercheremo di verificare quando, sul documento di programmazione economica e finanziaria, il governo deciderà di aprire un reale confronto con le parti sociali.

Mi piacerebbe essere ottimista, ma non riesco ad esserlo più di tanto fino a quando non potrò verificare quale reale grado di affidabilità abbiano le misure contenute in questo Dpef e poi in quale direzione esse si muovano e per il raggiungimento di quali primari obiettivi.

E mi pare che la mia prudenza sia più che giustificata perché di ciambelle di carta fino ad ora ne sono state lanciate fin troppe e con i risultati che tutti conosciamo.

E aggiungo: altre inefficaci o ingannevoli operazioni di soccorso rischierebbero di accrescere quel senso di angoscia e di frustrazione che, anche per le centinaia di migliaia di imprese dei pubblici esercizi che sono rappresentate in questa sala, è ormai diventato pane quotidiano.

Ancora niente che faccia sperare in un futuro diverso, ancora nulla di concreto su cui poter far leva per riprendere la via dello sviluppo.

Il nostro mercato interno intanto vive il paradosso dei paradossi.

Mentre le nuove impennate del prezzo del petrolio stanno facendo venire le vertigini a mezzo mondo, la nostra inflazione, in sempre più marcata controtendenza rispetto a quel che avviene nel resto d'Europa, scende a giugno di un altro decimo di punto.

Segno di virtù il nostro o anche di qualcos'altro?

E' appunto questo qualcos'altro, cioè una caduta dei consumi che non ha eguali negli ultimi quindici anni, a toglierci ormai il sonno.

La domanda di consumo è ormai proprio alla frutta e non è solo un modo di dire.

Per colpa del petrolio certo, ma non solo.

Mentre il costo dei biglietti aerei è aumentato, in un solo anno, del 23,6% e quello, in generale, dei trasporti del 4,6%, i costi dei servizi bancari sono cresciuti del 9% e quelli delle abitazioni del 4,6% con impennate da capogiro soprattutto per le locazioni a pubblici esercizi nelle aree urbane.

Nel contempo i prezzi dei beni di consumo sono cresciuti, invece, nello stesso periodo, solo dell'1,1% e del 2,6% quelli di alberghi e di pubblici esercizi.

Qualcuno dirà che è tutto un imbroglio perché sono solo e sempre i commercianti a salassare oggi i consumatori e a farli scappare a gambe levate.

Vecchia storia. Ma una domanda, se mi è consentita: quale vantaggio avrebbe oggi l'Istat a manipolare e a truccare al ribasso questi dati e a colpire, invece, banche, affitti e trasporti?

Anche il governo avrebbe tutto l'interesse a lavarsi la coscienza scaricando sui commercianti e su chi opera nel settore dei servizi le responsabilità di una domanda di consumo che è ormai ai piedi di Cristo.

Se non osa farlo, è perché si tratta ormai di una tesi evidentemente non più sostenibile.

I costi per una piccola impresa del pubblico esercizio, tra ritocchi più o meno striscianti di varie imposte locali, energia - voce che incide pesantemente sulla catena del freddo - approvvigionamento delle merci, smaltimento dei rifiuti, affitti, lievitazioni nelle imposte di bollo, ecc., sono cresciuti, in un solo anno, del 13%.

E cosa deve fare questo esercente? Mettere tutto sul conto traumatizzando ancor di più un già fin troppo angosciato e traumatizzato cliente?

Tutto questo per dire che o il nuovo documento di programmazione economica metterà in cantiere qualcosa di serio, da un lato, per almeno arginare l'aumento dei costi di gestione delle imprese e, dall'altro, per tutelare maggiormente il potere di acquisto alle famiglie o i consumi prenderanno, da qui a poco, un altro bagno.

Ed è questa l'ultima cosa che lo Stato si può oggi permettere.

Per un motivo assai semplice: diminuendo ancora i consumi, diminuiranno anche le già risicate risorse a disposizione dello Stato per investimenti nelle infrastrutture, per il rilancio della competitività del sistema delle imprese, per l'innovazione e per la riduzione del deficit, una cambiale quest'ultima che dovremo cominciare a pagare, soldi in mano, fin dall'anno prossimo, se no, a metterci nel libro nero, non saranno solo le autorità di Bruxelles ma anche le società di rating.

Un ulteriore declassamento del nostro sistema da parte di queste ultime ci manderebbe, difatti, davvero al tappeto.

Cosa fare, visto che l'ipotesi di una riduzione generalizzata delle tasse è diventata ormai solo un sogno di mezza estate?

Io penso che siano almeno tre le vere priorità.

La prima è mettere finalmente un po' d'ordine nella enorme e troppo spesso improduttiva spesa pubblica corrente perché fino ad ora, da questo punto di vista, mi pare che si sia solo scherzato.

Non riusciremo mai, ad esempio, a far quadrare i conti con i parametri di Maastricht se non rivedremo dalle fondamenta anche il nostro patto di stabilità interna, il che vuol dire non solo tagliare con l'accetta le spese dello Stato centrale, che sono ancora quelle di un paese di Bengodi, ma anche passare al setaccio quelle delle amministrazioni locali che troppo spesso vanno anch'esse a "go-gò".

Leggo, ad esempio, che la Regione Calabria ha deciso di dotare di auto con autista assessori, membri di giunta e presidenti di commissione, un parco macchine che rischia di diventare elefantiaco.

E che dire di certe Regioni che, soltanto per discutibili motivi di marketing promozionale, tengono in piedi uffici di rappresentanza a Park Avenue, la più costosa strada del mondo?

Nessuno vuol fare di ogni erba un fascio perché vi sono molte amministrazioni locali che gestiscono al meglio le risorse disponibili, ma è arrivato il momento - e lo deve fare lo Stato centrale che è poi quello che oggi tira fuori la maggior parte dei soldi - di mettersi tutti intorno ad un tavolo e di decidere quali Regioni vanno premiate per la virtuosità della loro gestione e quali, invece, insieme con certi ministeri inutilmente spendaccioni, vanno prese a randellate.

E, in questo contesto, va affrontato anche il problema dell'Irap, un'imposta creata per finanziare la spesa sanitaria.

Giusto che lo Stato supplisca ad essa dirottando alle Regioni risorse alternative, ma sarebbe altrettanto corretto che anche le amministrazioni locali, per assicurare l'indispensabile servizio sanitario, provvedessero a sforbiciare altre voci di bilancio che, in un momento di massima emergenza come quella che sta vivendo la nostra economia, non hanno ragione di essere.

Perché sarebbe impensabile che, per coprire il grande buco di risorse lasciato dall'Irap, lo Stato centrale da una parte e l'ente locale dall'altra, subissassero di nuove imposte il sistema di mercato.

C'è questo rischio e gli amministratori pubblici sappiano fin d'ora che noi staremo con gli occhi bene aperti.

La seconda priorità si chiama energia.

Il ministro delle Attività produttive, Scajola ha detto qualche giorno fa che, entro il 2010, la produzione di elettricità sarà, in Italia, indipendente dal petrolio perché gas, carbone e centrali idroelettriche saranno sufficienti a colmare il nostro fabbisogno.

Ecco una buona notizia, ma oggi possiamo davvero considerarla attendibile?

Temo di no.

Primo, perché la costruzione di nuove centrali idroelettriche e il completamento delle reti di trasmissione stanno accumulando giganteschi ritardi.

La sindrome "NIMBY" - not in my back yard, non vicino a casa mia - sta, infatti, bloccando una buona parte dei progetti.

Secondo, perché, da un lato, il troppo lento processo di liberalizzazione del mercato e, dall'altro, la vaghezza se non addirittura l'inconsistenza dei progetti messi in cantiere fino ad ora per la realizzazione di fonti alternative - nucleare, eolico e altro - costringono il sistema a vivere in un imbuto che sta diventando sempre più costoso e soffocante.

Ed è appunto di questo ormai insopportabile imbuto che bisogna oggi parlare.

Basti dire che una piccola impresa commerciale che abbia consumi annui intorno a 160.000 KWh sopporta un costo, al netto delle imposte, del 43% superiore a quello di un'impresa spagnola che abbia gli stessi prelievi di consumo.

Se consideriamo il prelievo fiscale e parafiscale (stranded cost) il gap dell'impresa italiana, in termini di spesa annua, è stato, nel 2004, maggiore di 8.000 euro rispetto a quella spagnola.

E non è finita qui perché al gap esterno si aggiunge un altrettanto incomprensibile gap interno. Una piccola impresa commerciale, infatti, paga, soprattutto a causa dell'elevata fiscalità, un chilowattora il 27% in più di una grande impresa.

Anche per il gas c'è un'anomalia tutta italiana.

I prezzi italiani, infatti, al lordo delle imposte, per ogni metro cubo di gas, sono del 59,9% superiori a quelli di Francia, Spagna, Belgio e del 138% superiori a quelli del Regno Unito.

Credo che le misure più urgenti siano queste.

La prima è una più forte liberalizzazione del mercato dal lato dell'offerta e ciò non potrà essere realizzato fino a quando l'Enel manterrà una posizione dominante.

La seconda è incentivare l'utilizzo del carbone pulito come fonte di produzione di energia elettrica che è poi quel che già da tempo fanno i paesi che, in Europa, non dispongono di centrali nucleari.

La terza è decidere che la costruzione di centrali e di reti di trasmissione è di interesse nazionale e va, per questo, svincolata da interessi o veti di carattere locale.

Non possiamo più su temi come questi restare ancora appesi al chiodo delle semplici promesse perché chi pagherà il costo di questi ritardi sarà sempre di più il sistema di mercato.

A nulla servirà abbassare dello "zero virgola" il nostro debito pubblico se non affronteremo prima di tutto il problema dell'energia.

Se non lo risolveremo, la nostra economia farà la fine del topo.

Vorrei concludere il mio intervento tornando al tema che oggi, in questa assemblea, ci sta più a cuore.

Parlo dei pubblici esercizi.

Le imprese che operano in quest'area erano, sono e saranno sempre di più un fattore trainante per lo sviluppo della nostra economia.

C'è chi le considera solo come ruote di scorta del sistema.

Un accessorio utile ma a cui fare ricorso solo nei momenti di emergenza quando altri settori di imprese restano in panne ai bordi della strada.

No, così non va. Non è più accettabile questo modo di ragionare.

Ma, lasciatemelo dire, che strane ruote di scorta sono queste imprese che oggi, più di qualsiasi altra, contribuiscono a creare nuovi occupati.

Che strane ruote di scorta sono queste imprese che, continuando a tirare la carretta in piena crisi, assicurano una sempre più consistente parte del nostro prodotto interno lordo.

E che fine avrebbe fatto il nostro turismo se proprio queste ruote di scorta non avessero avuto la costanza e la volontà necessarie per affrontare i problemi di un mercato che ogni giorno, da ogni lato, si muove con sempre maggiori difficoltà.

Del resto, c'è chi vorrebbe considerare anche tutta l'area del terziario di mercato e non solo i pubblici esercizi come una ruota di scorta.

Importante sì ma solo nella misura in cui serve a rafforzare altri interessi, altre aree economiche, altre rendite di potere.

Volete qualche esempio?

Cominciamo dal divieto di utilizzare le zuccheriere in bar e ristoranti.

Si dirà che è ben poca cosa dinanzi ai grandi problemi dell'economia. Concordo, ma resta pur sempre un provvedimento incomprensibile.

Sapete quanto costa questo scherzetto?

22 milioni di Kg. di zucchero e 72 milioni di euro. Questa è la dimensione dello spreco.

E vogliamo parlare dell'acqua minerale?

Mercoledì entrerà in vigore, il provvedimento che impone a bar e ristoranti di non poter più somministrare acqua minerale in bottiglie superiori al mezzo litro.

Se è così che si pensa di stimolare l'innovazione nel nostro sistema produttivo allora è facile capire perché continuiamo a perdere competitività.

E non mi si venga a dire che le motivazioni di fondo del provvedimento stanno nella tutela della salute dei consumatori che più volte hanno rischiato l'avvelenamento trovando solventi anziché acqua minerale.

Falso, falso, falso, come lo stesso Ministero della Salute ha più volte dichiarato ufficialmente. E poi, siamo seri, in 7 anni casi di questo tipo si sono riscontrati soltanto cinque volte al bar. E pensare che basterebbe soltanto colorare i solventi come si fa con l'alcool denaturato.

Questi provvedimenti hanno un solo nome: RENDITA.

E già che ci siamo parliamo di buoni pasto.

Al Ministro Siniscalco abbiamo strappato l'impegno a riportare il problema all'interno di una normale dialettica di mercato.

Occorre intervenire con tempestività per ridare serenità a imprese e clienti.

Ma vogliamo fatti concreti , che assumano contorni legislativi precisi  e attuabili.

Non accetteremo soluzioni irrispettose delle legittime aspettative delle migliaia di imprese che in questi giorni hanno dato vita allo sciopero dei buoni pasto.

Una vertenza intorno alla quale si è coagulato un mondo imprenditoriale composito che va oltre i nostri confini di rappresentanza.

Tutti devono capire che la partita è DELICATISSIMA!!!.

Noi ci stiamo adoperando per tutelare il mercato mettendolo al riparo dalle tante spinte centrifughe che rischiano di farlo implodere.

E queste spinte hanno diversi nomi:

gare al massimo ribasso, fragilità finanziaria di alcuni emettitori, commissioni esagerate, malcostume nell'utilizzo dei buoni.

E' necessario un forte e diffuso senso di responsabilità.

Io penso che sia proprio arrivato il momento di finirla con  ragionamenti capziosi.

Il terziario di mercato produce ormai il 54% del nostro prodotto interno lordo e più dell'80% della nuova occupazione.

E non accade solo in Italia perchè anche negli altri paesi industrializzati si sono messi a cavalcare da tempo il settore dei servizi gettando alle ortiche la vecchia cultura fordista.

Con una differenza però sostanziale.

Mentre negli altri paesi le imprese del terziario - e penso proprio a quelle più in particolare dei pubblici esercizi - sono diventate da tempo punto di riferimento dei piani di sviluppo del sistema economico, da noi sono state, invece, lasciate ai margini di ogni tipo di piano e di strategia.

Perché gli incentivi erano destinati sempre ad altri, perché, sulle misure di sostegno, c'era sempre chi poteva esercitare - e non si sa perché - una specie di diritto di prelazione, perché gli investimenti per migliorare le infrastrutture e la logistica nelle aree urbane erano sempre meno importanti di qualche catena di montaggio di auto in più.

Sono purtroppo le Istituzioni e la politica ad aver considerato per troppo tempo il terziario come una ruota di scorta.

E chi ha pagato il prezzo di questa ottusa pianificazione delle nostre risorse è stato tutto il nostro sistema economico che oggi, a corto di energie e di risorse, non sa più da che parte guardare e a cosa attaccarsi per tornare a fare sviluppo.

Io mi auguro che questa storia della ruota di scorta sia ora proprio finita.

E mi auguro anche che sia arrivato il momento, da parte delle Istituzioni di questo paese, di una profonda riflessione su quelli che possono essere davvero i nostri principali asset di sviluppo.

Se, del resto, questa riflessione non venisse fatta, se le Istituzioni non si accorgessero che è arrivato il momento di affrontare i problemi dell'economia reale, allora vorrebbe dire che hanno scelto la strada del suicidio.

Io mi auguro che questo ripensamento a tutto tondo della politica economica di questo paese arrivi al più presto.

Noi ci batteremo, con tutte le nostre energie, perché arrivi al più presto.

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