SERGIO BILLE' ALLA CONFERENZA STAMPA SULLA FINANZIARIA

SERGIO BILLE' ALLA CONFERENZA STAMPA SULLA FINANZIARIA

Roma, 4 ottobre 2002

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4 ottobre 2002
4 ottobre 2002

Saltando tutti i preamboli vorrei dire tre cose.

1- Questa legge finanziaria, non avendo potuto far leva su una quantità sufficiente di risorse, risorse che sono venute a mancare a causa del crollo delle entrate e dei contraccolpi di una crisi economica, interna ed internazionale, che è andata ben oltre le previsioni, è solo una piccola ciambella di salvataggio lanciata ad un sistema che stava davvero rischiando di annegare. E questo è meglio di niente: almeno si galleggia. Ma questa manovra non è certo in grado, da sola, di tirare fuori il sistema dalle acque fredde della crisi - e purtroppo vi sono già preoccupanti sintomi di assideramento - e di riportarlo a riva, all’asciutto. Quindi il più resta ancora da fare. E prima lo si fa e meglio sarà per tutti.

2- E’ importante che questa manovra abbia cercato, da un lato, di creare meccanismi di controllo della spesa pubblica, spesa che ha ricominciato a correre a preoccupante velocità e, dall’altro, di adottare misure che consentano finalmente di distribuire, in modo più equo - ed era proprio ora - i carichi fiscali tra i diversi settori di impresa perché era semplicemente assurdo tenere in vita un sistema fiscale che riservava un trattamento di favore - e di favore è dir poco - alle grandi imprese a danno di tutte le altre. Ma il problema ora è di vedere se, primo, questo controllo sulla finanza pubblica, quella locale in particolare, riuscirà davvero a dare i suoi frutti - e noi qualche dubbio ce lo abbiamo - e, secondo, se questo lodevole intento di eliminare o almeno attenuare tutte le sperequazioni oggi esistenti tra grandi e piccole imprese per quanto riguarda il trattamento fiscale andranno a buon fine. Non vorremmo che questi buoni propositi si perdessero per strada. Il rischio c’è e, per questo, staremo con gli occhi bene aperti, pronti a metterci di traverso se, durante l’iter di questa legge, si cercherà di cambiare le carte in tavola. Non sarebbe, del resto, la prima volta che, per problemi del genere, si adottasse la politica del gambero: un passo avanti e due indietro.

3- Se, fino a qualche tempo fa, era forse legittimo prevedere che la nostra economia, dopo aver toccato il fondo, anzi il sottofondo, nel 2002, potesse svoltare subito, come d’incanto, nel 2003, ora questa previsione resta assai dubbia, da valutare con largo beneficio d’inventario. Perché se, come è ormai più che probabile, il 2002 si chiuderà con una crescita del Pil che rischia di essere addirittura al di sotto dello 0,6% - stando alle nostre previsioni, non si andrà oltre lo 0,4% - non si vede proprio come, nel 2003, il sistema potrà ripartire a razzo maturando una crescita di almeno il 2,3%, cioè un’impennata verticale, un vero e proprio salto con l’asta. Meglio allora non creare - nel 2002 è stato purtroppo così ed è questa una grave responsabilità del governo - altri panieri di illusioni e, invece, darci subito da fare per mettere in piedi altre misure - quelle della finanziaria sicuramente non bastano - che possano consentire al sistema almeno di riprendere, sia pure a velocità ridotta, la navigazione. Si tratta insomma di giocare d’anticipo e di cercare di metterci, in qualche modo, al riparo dai rischi che un prolungamento, anzi un inasprimento dei fattori di crisi - guerra in Iraq ma non solo, mancato rilancio dell’economia americana ma non solo, rischio di ulteriore avvitamento di quella europea ma non solo - potrebbe provocare.

Nella tabella che vi abbiamo oggi consegnato troverete le nostre previsioni che sono assai più caute, per il 2003, di quelle inserite dal governo nel Dpef: +1,8 di Pil , invece del 2,3 previsto dal governo, +1,6 di consumi delle famiglie contro il 2,5 del governo, +0,7 di spesa corrente contro il +0,5. Previsioni sballate le nostre? Non lo furono quelle per il 2002 – avevamo previsto un +0,6 di Pil quando il governo e la Banca d’Italia ancora davano per sicuro un 2,3 - e non vediamo perché dovrebbero esserle per il 2003.

Noi riteniamo che, per evitare un peggioramento che andrebbe a sommarsi ai disastrosi risultati conseguiti quest’anno, tre dovrebbero essere le vere priorità:

1-                misure, in primo luogo, che consentano un reale, sostanzioso, equilibrato rilancio dei consumi. La riduzione delle aliquote Irpef per le famiglie meno abbienti qualche effetto lo potrà produrre ma entro margini assai limitati. Primo, perché queste famiglie, vivendo già sulla soglia della sopravvivenza, difficilmente potranno aumentare il loro livello di consumo anche perché i pochi soldi che si metteranno in tasca serviranno - e non si sa, in molti casi, se basteranno - ad assorbire tutti gli aumenti che, sul versante delle tariffe e dei servizi, sono maturati nel corso di quest’ultimo anno. Potranno , insomma, bere qualche caffè in più ma non certo acquistare beni durevoli, il settore oggi maggiormente in crisi. E davvero qualcuno pensa che così possa ripartire il sistema e si possano riportare consumi e produzione di ricchezza a livelli accettabili? Secondo, perché non sono state, invece, nemmeno sfiorate dalla riforma quelle famiglie che, collocate nella fascia di reddito che va dai 25 mila ai 40 mila euro e che produce oggi circa il 70% dei consumi di questo paese. Quindi, su questo versante, bisogna fare qualcosa di serio e che consenta di ottenere risultati anche nel breve periodo.

Una soluzione è urgente ma scavalcare gli innumerevoli ceppi frapposti dalla nostra burocrazia ma anche dalle strutture del credito non sembra cosa facile. Comunque noi diciamo subito che anche questa misura non può considerarsi sufficiente: occorre, entro il 2003, affrontare il cuore della riforma fiscale, quella che riguarda le famiglie di medio reddito, fissando almeno scadenze certe ed indifferibili, scadenze che oggi, invece, appaiono assai incerte e nebulose. Solo così si potranno ripristinare quel clima di fiducia e quelle aspettative che oggi sembrano essersi perse per strada. Poi agendo, in ogni modo possibile, anche sul fronte delle imposte indirette e, infine, ponendo finalmente un freno, un freno che però sia di carattere strutturale, alla corsa verso gli aumenti di tutto il comparto della finanza locale. Il temporaneo blocco dell’addizionale Irpef è qualcosa, ma non risolve certo il problema che abbiamo di fronte e che, alla distanza, potrà avere effetti ancora più perversi.

2-                E, difatti, proprio questa è la seconda, ormai inderogabile priorità a cui bisogna far fronte. Giusto bloccare l’addizionale Irpef - anche se lo si sarebbe dovuto fare molti mesi fa e non si comprende proprio perché non lo si sia fatto - ma c’è il più che fondato rischio che Regioni e Comuni, per fare comunque in qualche modo cassa, tentino di aggirare questo ostacolo attuando aumenti a raffica su altri versanti non toccati, anche perché non di sua competenza, dalla legge finanziaria: Ici, costi dei servizi di pubblica utilità, imposte sulla nettezza urbana, ulteriori ticket sanitari, imposte sull’occupazione del suolo pubblico, ecc. E se tutto si risolvesse in un tortuoso giro di conto gli effetti del blocco di questa addizionale sarebbero esigui, quasi inesistenti. Con imprese e famiglie costrette a sopportare oneri ancora maggiori di quelli attuali. La verità è che questa riforma federalista, per come è stata impostata e per come si sta evolvendo, continua a far acqua da troppe parti. Questo perché non sono stati individuati né i meccanismi né le risorse che consentano l’attuazione di un vero federalismo fiscale. Con due conseguenze che oggi si toccano con mano: un aumento generalizzato degli oneri perché quelli imposti dallo Stato si vanno sommando a quelli delle Regioni e degli altri enti locali; la creazione di un sistema che rischia di spaccare il paese in due tronconi con Regioni dei ricchi e Regioni dei poveri e più tasse per tutti perché se, come sembra, almeno nove Regioni oggi sono sull’orlo della bancarotta, qualcuno dovrà pur pagare i loro buchi di bilancio. E chi se non il contribuente e il sistema produttivo?

3-                Non ci saranno mai soldi sufficienti per attuare le riforme di sistema fino a quando l’amministrazione pubblica non verrà rivoltata come un guanto e cioè costretta a ridurre sostanzialmente le sue spese di gestione corrente. La finanziaria prevede, per il ministeri, un taglio del 10% delle spese. Ottima cosa ma, intanto, ci si poteva pensare prima, già alla fine dell’anno scorso, visto i dati disastrosi che, sotto questo profilo, arrivavano alla tesoreria. E poi siamo sicuri che, nel tagliare queste spese, si taglieranno davvero quelle improduttive o c’è il rischio che a rimetterci, volendo ogni ministero conservare il proprio “status” (poteri di intervento, numero di impiegati e scrivanie) siano proprio quelle spese oggi destinate alla produzione di servizi per le imprese e le famiglie? La verità è che la struttura amministrativa centrale, al di là dei grandi pronunciamenti che sono stati fin qui fatti, tende ancora a mantenere inalterato il suo potere, oggi in concorrenza, talvolta addirittura in conflitto, con quello delle amministrazioni locali. Così corrono le spese e le casse si svuotano per pagare gli stipendi con il risultato che non ci sono fondi sufficienti per avviare quegli investimenti, nel settore soprattutto delle infrastrutture, che avrebbero dovuti essere un’assoluta priorità.

Provo a tirare qualche conclusione.

La prima è che, non avendo rimosso questa situazione e le principali cause che la determinano, sicuramente aggravate anche dalle conseguenze della persistente crisi economica, le riforme sono ancora quasi tutte al palo:

1-                Per il recupero del Mezzogiorno ci sono meno soldi di prima, cosa che rende ancor più difficile, addirittura improbabile, nel breve periodo, ogni seria possibilità di rilancio economico.

2-                Settori chiave come quelli della scuola e della sanità rischiano di non avere fondi sufficienti per realizzare sostanziali riforme, quelle che avrebbero dovuto rendere più efficienti le strutture abbassando i costi dei servizi.

3-                Ci si avvia ad una stagione di rinnovo dei contratti che, proprio per i margini assai ristretti di spesa entro cui si possono muovere oggi sia lo Stato sia il sistema delle imprese, rischia di accrescere le tensioni sociali e quindi di limitare ulteriormente le possibilità di ripresa del sistema. E ancora - perché slittato per fortuna a gennaio - non è ancora entrata in ballo la modifica dell’articolo 18, un altro detonatore che resta innescato e che potrà produrre ulteriori tensioni.

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