Sergio Billè alla presentazione dell'annuario statistico "Piemonte in cifre 2005"

Sergio Billè alla presentazione dell'annuario statistico "Piemonte in cifre 2005"

Torino, 13 luglio 2005

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13 luglio 2005
Intervento di Sergio Billè

Ho seguito con molta attenzione il dibattito aperto in questi giorni dal quotidiano "La Stampa" su quelle che potranno essere, nel quadro dell'ormai ineludibile processo di trasformazione delle strutture portanti della nostra economia, le linee di sviluppo di una grande città come è certamente Torino e di una grande regione come è certamente il Piemonte.

E' un dibattito che offre stimoli di indubbio interesse che trovano, del resto, riscontro anche nell'indagine che oggi viene qui presentata e che evidenzia come il Piemonte, soprattutto sotto il profilo dell'impianto sociale, della ricerca, dell'innovazione tecnologica, delle dotazioni culturali e delle capacità imprenditoriali, sia una delle regioni non solo dell'Italia ma anche dell'Europa che ha oggi maggiormente le carte in regola per raccogliere le sfide che ci riserva il futuro.

Io non so - e credo, in questo, di essere in buona compagnia - quale tipo di futuro potrà essere riservato al polo industriale che ha come suo perno la Fiat.

Non posseggo la palla di vetro e, del resto, la convulsa, quasi frenetica globalizzazione dei mercati non consente più alcun tipo di previsione che non confini con la magia.

Certo, mi auguro fortemente che questo futuro possa esserci anche se credo che, per costruirlo, sia ormai indispensabile adottare strategie che puntino ad una radicale innovazione sia della politica industriale che delle forme di approccio ai mercati.

E prima queste scelte verranno portate al loro più idoneo e più efficace punto di approdo e meglio sarà per tutti.

Vorrei anche dire però che sarebbe un grave errore attendere l'esito di questo processo per "cantierizzare" progetti di sviluppo dell'economia piemontese che fossero, in qualche modo, alternativi a quelli del polo industriale.

Penso, invece, che, per dar corpo a questi progetti, non vi sia più nemmeno un minuto da perdere e per almeno due motivi.

Primo, perché se trasformandosi il polo industriale fosse costretto a ridurre - magari in misura congrua - sia la sua portata occupazionale sia il suo valore aggiunto, l'economia piemontese avrebbe già assetti, energie e risorse sufficienti per controbilanciare queste - mi auguro solo eventuali - perdite.

Ma anche nel caso che, invece, le cose anche su questo versante andassero per il meglio - ed è quel che sinceramente mi auguro - ecco che l'economia piemontese si troverebbe nella condizione di poter fare un altro importante e significativo scatto di dimensione e di valore sia nei confronti del mercato interno che di quello internazionale.

Ma perché ciò avvenga è necessario mettere in campo idee e realizzare un piano coordinato di investimenti che, da un lato, valorizzino le molteplici entità imprenditoriali che oggi già operano con successo nella regione e, dall'altro, consentano il potenziamento anche strutturale di tutte le imprese che operano nel grande settore dei servizi.

Le enormi potenzialità che riserva, ad esempio, il polo turistico vanno adeguatamente gestite e sfruttate.

In questo quadro, le Olimpiadi invernali del 2006 rappresentano un'importante pedana di lancio che però, per produrre poi risultati che siano di lungo periodo, ha bisogno di una programmazione che consenta di inserire anche questa Regione, piena come poche di ricchezze da valorizzare, nel grande circuito del turismo internazionale.

E poi - e vengo al secondo motivo - andare proprio a tavoletta per quanto riguarda la ricerca, l'innovazione e soprattutto le tecnologie per le quali, come ben evidenzia una delle tabelle di quest'indagine, il Piemonte possiede un valore di gran lunga maggiore a quello di quasi tutte le altre regioni italiane.

Muoversi, anzi correre verso il futuro mi sembra l'unica vera ancora di salvezza del nostro sistema economico.

Consentitemi di legare questo mio intervento anche ad alcune considerazioni di ordine generale che riguardano lo stato della nostra economia nazionale.

Devo dire che sono oggi preoccupato quanto lo siete voi.

Per tre ragioni. La prima è che dalle Istituzioni della politica continuano ad arrivare proposte di soluzione di questa crisi, che da congiunturale è ormai diventata strutturale, che non sono ancora per nulla convincenti. Il documento di programmazione economica e finanziaria che domani ci verrà esposto a Palazzo Chigi appare, infatti, come un elenco di buoni propositi che però non si sa né come né quando né facendo leva su quali risorse potranno essere realizzati. Tutto insomma continua a galleggiare sul mare del " forse", un po' poco per un paese che ormai vive con i piedi dentro la recessione.

La seconda cosa che più ci preoccupa è la mancanza di prospettive. Ci viene detto che il problema primario resta quello del risanamento della spesa pubblica, ma, se deficit e debito anziché diminuire, sono cresciuti in misura esponenziale, allora a cosa sono serviti i sacrifici che imprese e famiglie sono stati costretti a fare in questi ultimi anni?

La terza è che non si capisce, stando almeno alle proposte che fino ad ora sono state avanzate, dove davvero finisca la politica di risanamento e dove cominci, invece, quella dello sviluppo e delle riforme da attuare per far ritornare ad essere competitivo il nostro sistema economico.

Con un'ulteriore preoccupazione: quella che anche quest'opera di risanamento finisca con l'essere solo di facciata, quanto serve per rabbonire chi a Bruxelles ha il compito di tenere a posto i conti dell'economia dei paesi dell'eurozona.

Non sarebbe di facciata se il governo si decidesse a mettere sul tavolo un vero piano di tagli strutturali della spesa pubblica improduttiva.

Ma di questo piano continua purtroppo a non esserci traccia. Il che vuol dire che si sta costruendo, come è già accaduto negli ultimi anni, sulla sabbia.

Consentitemi, a margine, un'ultima riflessione.

Nessuno sottovaluta - ci mancherebbe altro - il problema del terrorismo che ormai, come le nubi radioattive sprigionate dall'impianto nucleare di Chernobyl dopo il famoso incidente, rappresenta anche per noi una minaccia mortale.

Una cosa però andrebbe evitata, quella di utilizzare queste nubi radioattive come alibi per procrastinare scelte, decisioni, interventi di politica economica che ormai, invece, al sistema servono come il pane.

Si tengano distinti i due problemi e si decida di affrontare entrambi con strumenti e misure di sicura efficacia.

Non mi pare che ci siano alternative.

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