SERGIO BILLE' ALLA XXXIII GIORNATA DEL CREDITO

SERGIO BILLE' ALLA XXXIII GIORNATA DEL CREDITO

ROMA, 1° DICEMBRE 1999 (testo integrale)

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1 dicembre 1999
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Con l’integrazione di mercati e il processo di globalizzazione che sta avendo ritmi sempre più accelerati, la competizione economica non è più soltanto  competizione tra imprese, ma tende sempre più a diventare - lo è già in buona parte – competizione tra sistemi economici.

 

La competizione cioè si vince  facendo leva su un complesso di fattori sempre più intrecciati tra loro.

 

Da un lato, continuano a giocare ovviamente il loro importante ruolo la qualità dei prodotti, l’efficienza delle strutture distributive, una moderna politica di marketing, i prezzi, dall’altro, hanno un ruolo sempre più rilevante le infrastrutture, l’efficienza dei trasporti, i costi energetici, quelli imposti  dalle pratiche amministrative, una adeguata politica del credito e della finanza.

 

La rapida evoluzione delle tecnologie non è più riferibile in via esclusiva a particolari segmenti  di imprese manifatturiere o di servizi cosiddetti avanzati, ma impegna direttamente anche settori economici che fino ad ieri a questo processo erano interessati solo marginalmente.

 

Si modificano i cicli produttivi e distributivi, si accorciano le fasi del ciclo di vita di prodotti e di servizi, cambiano le modalità di trasmissione degli ordini, cresce il ruolo strategico della componente logistica nell’organizzazione dei processi distributivi.

 

In  questo contesto di rapida evoluzione, il mondo delle imprese manifesta fabbisogni finanziari diversificati sia per quanto riguarda la gestione corrente che il sostegno ai nuovi investimenti.

 

E così arriviamo al nocciolo del problema che qui vorrei analizzare e che riguarda  le possibilità di sviluppo, nel contesto che ho appena descritto, delle piccole e medie imprese che operano in Italia e che oggi, per motivi congiunturali ma non solo congiunturali, attraversano un momento di particolare crisi.

 

 

 

Soffrono - e soffrono più di altre imprese –per la mancanza di un “sistema-Paese” che abbia strutture, infrastrutture, supporti, leggi e strumenti operativi  adeguati alle esigenze  di una moderna economia.

 

Soffrono - e soffrono certamente di più di altre imprese - a causa di un sistema fiscale  a dir poco oppressivo  che  toglie loro fiato e fiducia nel domani.

 

Ma soffrono ancora - assai più di altre imprese - per la mancanza  di  supporti finanziari  che servano a farle uscire da quel “nanismo” imprenditoriale  che le ha sempre contraddistinte e che oggi, nella grande competizione dei mercati,  non ha più ragione di esistere.

 

Cosa fare - questo è l’interrogativo che, in questa sede, va posto in modo prioritario - perché questo tipo di imprese dispongano finalmente  dei supporti finanziari oggi diventati indispensabili  per operare in questo nuovo contesto?

 

La politica di concentrazione delle strutture bancarie si concilia con questa finalità o, al contrario, rischia di renderla ancora più difficile?

 

Esiste o no il rischio che, a seguito delle aggregazioni e concentrazioni che stanno avvenendo nel sistema bancario, si indebolisca anziché rafforzarsi il rapporto tra banche e territorio, tra grande banca e piccola impresa?

 

Potrebbero esserci questi elementi di rischio e analizzarli non è proprio inutile.

 

-          Penso all’irrigidimento, in primo luogo, delle procedure e alla macchinosità anche burocratica di funzioni che potrebbero rendere  più difficile la comprensione, da parte delle strutture bancarie, delle reali esigenze delle aziende di piccole dimensioni.

 

 

 

-          E mi riferisco anche  ai costi amministrativi delle singole operazioni che per le grandi banche potrebbero diventare troppo elevati e quindi non proporzionali all’ammontare del credito che si vorrebbe concedere alla piccola impresa.

 

-          E quando non c’è convenienza, cade l’interesse  ad un certo tipo di rapporto.

 

-          E penso, infine, allo sviluppo di processi di innovazione finanziaria che possono interessare solo marginalmente le imprese di minori dimensioni proprio perché progettate, pensate, architettate per un altro genere di imprese.

 

E’ vero che, negli ultimi anni, sono state create le condizioni per un incremento dello spessore finanziario del mercato azionario italiano e per lo sviluppo di nuovi strumenti.

 

Dal 1992 il rapporto tra la capitalizzazione complessiva delle società italiane quotate in Borsa ed il Pil è, infatti, passato dall’11,5% al 46,1% con  una media giornaliera di controvalore degli scambi che è passata da 136 ad oltre 3200 miliardi.

 

Però  è anche vero che il numero delle imprese  quotate in Borsa, dal 1992 ad oggi, è rimasto praticamente inalterato.

 

E’ un problema su cui riflettere anche perché, rispetto a quanto accaduto ai paesi ad alto processo di industrializzazione, è un fatto atipico e, aggiungerei, preoccupante.

 

Ciò sta a significare che il mondo della piccola e media impresa italiana è stato fino ad ora quasi completamente estraneo al processo di sviluppo del mercato azionario.

 

Ciò significa che, se si procederà ad una progressiva riduzione del debito pubblico con conseguente liberazione  di capitali,il risparmio privato, in  mancanza di appetibili forme di investimenti in Italia, si indirizzerà verso mercati finanziari esteri.

 

E’ un fenomeno, del resto, che sta già avvenendo.

 

Così le piccole e medie imprese italiane rischiano di essere tagliate fuori dal processo di modernizzazione del sistema economico e finanziario.

 

Rischiano di sparire o, peggio, di vivacchiare ai margini di un sistema  che va in tutt’altra direzione.

 

Occorre quindi un salto di qualità, occorre capire che  la grande galassia delle piccole e medie imprese italiane ha bisogno di una politica  che tenga conto della sua particolare specificità.

 

Se no, il gap che già esiste tra il nostro e gli altri mercati sarà destinato ad allargarsi ed appesantirsi a tutto danno del prodotto italiano.

 

La mancanza di una politica del credito programmata in questa direzione insieme con altri fattori che poi citerò ha fatto sì che l’80% delle imprese con meno di cinque dipendenti siano rimaste, nell’arco dell’ultimo decennio, nella propria classe dimensionale, una classe “nana” e che  è destinata a diventare, se permangono queste condizioni, sempre meno competitiva.

 

Naturalmente la responsabilità di tutto ciò non ce l’ha solo la finanza.

 

Altri elementi quali l’eccessiva pressione fiscale, l’eccesso di pratiche amministrative, la stagnazione dei consumi  hanno contribuito, in misura altrettanto rilevante, a creare questa situazione.

 

Per svoltare e impedire che il nostro mercato divenga asfittico occorre operare  in più direzioni.

 

Certo, il problema di fondo è quello di realizzare lo sviluppo  di reti all’interno delle quali le imprese di una stessa filiera produttiva  possano operare diminuendo i costi  e migliorando la loro competitività.

 

Ma la costruzione di queste reti non sarà possibile se non sarà supportata da adeguati strumenti  di incentivazione finanziaria.

 

E’ risaputo che la piccola e media impresa italiana è caratterizzata da un elevato livello di indebitamento a  breve termine e da un basso grado di capitalizzazione. Troppo spesso gli investimenti fissi sono finanziati con passività correnti.

 

Tutto ciò va corretto prima che il grande mercato  sommerga queste entità imprenditoriali distruggendo così una parte importante e significativa dell’imprenditoria italiana.

 

Il problema è dunque quello di individuare i giusti strumenti per accrescere la disponibilità di strumenti finanziari che servano al consolidamento dei debiti a breve  e diano incentivi alle aziende  per  riequilibrare i propri bilanci  e per creare le condizioni di base per nuovi investimenti.

 

In altri paesi tutto questo è stato realizzato da tempo. Preoccupa il ritardo con cui, in Italia, ci si sta muovendo nella stessa direzione.

 

Senza l’aiuto del sistema bancario è difficile che  le piccole imprese possano  guardare al domani con sufficiente fiducia.

 

E’ bene rendersene conto e agire per tempo.

 

Si pensi, in particolare, allo sforzo che le piccole imprese dovranno sostenere - e mi riferisco in particolare al settore del commercio - per ristrutturarsi, finanziare il  magazzino, adottare nuovi strumenti di pagamento, adeguarsi insomma  ad una realtà di mercato  che cambia alla svelta e che non aspetta più nessuno.

 

Gli aiuti dello Stato non basteranno certo da soli a risolvere questo problema.

 

E vorrei richiamarmi a quello che è sempre stato un problema “storico” per l’accesso al credito delle PMI, cioè al problema della garanzia.

 

La banca, in mancanza di altri elementi conoscitivi sull’attività dell’impresa, ricorre all’acquisizione di una garanzia che di norma è patrimoniale.

 

In questo quadro, per quanto riguarda il settore terziario, rappresenterà sicuramente un passo avanti la rapida definizione dei regolamenti di attuazione delle società finanziarie previste dall’art.24 della legge di riforma  del commercio e costituite con la partecipazione dei confidi di settore  con l’obiettivo di rafforzare le capacità operative e finanziarie del sistema di garanzia a vantaggio delle imprese.

 

Io credo  che ciò non solo sia possibile ma sia necessario.

 

Anche questa  riforma, del resto, si cala nell’alveo di quelle riforme, strutturali e non, di cui l’economia italiana  ha assoluto bisogno per guardare al domani  con maggiore ottimismo.

 

Deve fare la sua parte la politica - e sappiamo quanto grande  sia questa parte  se riferita  all’obiettivo delle grande riforme del sistema - ma devono fare la loro parte anche tutti gli altri componenti di questa società.

 

 Noi intendiamo muoversi in questa direzione, ma non possiamo certo fare tutto da soli.

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