Sergio Billè alle celebrazioni del 60° di Confcommercio Firenze

Sergio Billè alle celebrazioni del 60° di Confcommercio Firenze

Firenze, 29 aprile 2005

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29 aprile 2005
Intervento di Sergio Billè

Vi sono diversi modi di leggere e di interpretare momenti celebrativi come quello che noi oggi viviamo.

Io vorrei scegliere tra questi diversi modi - e penso che si tratti di una scelta che voi condividerete - quello del pragmatismo, della concretezza e dell'antiretorica.

Sono, difatti, sempre state queste le tavole della legge di chi opera - e la sua è ormai una storia più che centenaria – in un libero mercato cioè nel luogo dove i grandi temi della politica, della società e del suo sviluppo si traducono, ogni giorno, in problemi concreti, a misura d'uomo, per risolvere i quali occorre assumere responsabilità specifiche, dirette e, in alcun modo, eludibili.

Ad ogni angolo di strada non c'è retorica che tenga perché, dal suo quotidiano setaccio, passa solo la farina a doppio zero, quella di scelte e fatti che, agli occhi della gente, siano davvero credibili.

Quando essi non lo sono, diventano  più crusca che pane e, di fatto, per il mercato, sempre meno commestibili.

E' un problema serio sul quale mi pare che non si stia riflettendo abbastanza.

E' come se le ragioni del mercato e quelle della politica continuassero a procedere oggi su itinerari diversi e con diversi tempi di percorrenza.

E' il mercato ad aver sbagliato itinerario o è piuttosto la politica a doversi convincere che è arrivato il momento di dover rivedere la propria rotta?

E' l'orologio del mercato a segnare l'ora sbagliata o è, invece, quello della politica?

Sono riflessioni che gli operatori del mercato si fanno ormai ogni giorno e con sempre maggiore preoccupazione ed affanno.

E' vero che le spiagge della nostra economia continuano ad essere erose dalle mareggiate di una crisi che parte da lontano e che sta investendo anche quelle - chi più chi meno -  di quasi tutta l'Europa, come è anche vero che il brusco abbattimento delle barriere ha improvvisamente fatto franare regole e logiche protettive di ogni singolo mercato. Ma tutto, mi pare, possiamo fare oggi meno che alzare sul pennone la bandiera del fatalismo e dell'arrendevolezza come se ci trovassimo di fronte ad un fatto compiuto ed ormai irreversibile.

Non è così e comunque non può finire così perché, come ha ricordato di recente anche il Capo dello Stato, il nostro è un grande paese che ha enormi energie ancora da spendere ed enormi potenzialità ancora da esprimere.

Il fatto è - e lo vorrei dire con trasparente chiarezza - che le insidie più pericolose non vengono dai prorompenti mercati della Cina, dell'India o da quelli dell'Europa dell'est.

Le insidie maggiori ci vengono, purtroppo, da dentro casa.

Sono quelle di un'Europa che, per quanto riguarda le strategie di politica economica, appare oggi assolutamente inerte.

E sono anche quelle di istituzioni e strutture politiche che, nel loro insieme, invece di affrontare i problemi reali del nostro mercato ormai giunto sulla soglia della sopravvivenza, continuano a mettere, poi a togliere e poi a spostare bandierine su una mappa di strategie che resta, in gran parte, virtuale.

Quel che chiediamo oggi è meno bandierine e più decisioni concrete, meno strategie a lungo termine e più azioni di pronto intervento, meno "infioritura" di dispute e di dibattiti e più pragmatismo.

Il che vuol dire finalmente decidere chi deve fare che cosa, con quali risorse e attraverso quale tipo di scelte.

Sono alcuni anni che si gira intorno a questi tre interrogativi senza riuscire a dare ad essi una credibile e soprattutto efficace e concreta risposta.

La politica dei "miraggi", del vedremo appena sarà possibile e dei conti scritti e riscritti a matita ha davvero fatto il suo tempo.

Chi fa che cosa e poi se ne assuma, di conseguenza,  tutte le dirette responsabilità è il primo ed ormai ineludibile corollario di una svolta della nostra politica economica.

Mi pare - ma vorrei sbagliarmi - che su questo punto non sia stata fatta ancora chiarezza. Male perché non è ancora rimpallando le responsabilità di qua e di là che possono essere fatte scelte certe e definitive di politica economica.

E poi i contenuti di questa politica che, ripeto, agli occhi del mercato, devono oggi essere "farina a doppio zero", scelte vere e non double face fatte cioè per accontentare tutti e quindi alla fine nessuno.

Nessuno pensa che, se i soldi non ci sono, si possano, come accadde nel periodo più burrascoso della rivoluzione francese, immettere sul mercato "assegnati" cioè carta moneta quasi senza valore.

Ma allora, se questi soldi non ci sono, lo si dica con chiarezza e si attui una politica diversa e di assai più accentuato rigore. Verranno pure dei mal di pancia, ma è meglio qualche mal di pancia in platea che un collasso dell'economia dietro le quinte del palcoscenico.

Altrimenti, se questi soldi ci sono, si mettano sul tavolo uno sull'altro e si decida, con grande chiarezza, come impiegarli e per soddisfare quali priorità.

Questo chiede il mercato a misura d'uomo, questo chiedono le imprese che operano ad ogni angolo di strada, questo e non altro chiede Confcommercio oggi alle istituzioni della politica.

Mi auguro che questa virata di bordo nel segno della chiarezza e della concretezza venga fatta dal governo al più presto.

Non si tratta - non c'è più tempo ormai per questo - di costruire un nuovo grattacielo cioè di mettere in piedi, in poche notti, un diverso e globale modello di sviluppo. Si rischiano altre fumisterie, altri falò di illusioni.

E' quello che tentò di fare Alessandro I'imperatore di Russia per impedire l'avanzata di Napoleone. Ma mentre egli ancora cercava faticosamente di assemblare le proposte che venivano avanzate dalla corte dei suoi generali, Napoleone con le sue truppe era già entrato a Mosca.

Piani a lungo termine potevano essere progettati qualche anno fa, ora mi pare che non ci sia proprio più tempo.

Ma scelte sì, radicali e fatte tutte nella giusta direzione.

E di scelte, credo, bisogna farne subito almeno tre.

La prima è quella di un radicale taglio della spesa pubblica improduttiva che, per il suo enorme costo, sta togliendo fiato ed energie a famiglie ed imprese. Io sono convinto che se questi tagli si materializzassero sul serio, famiglie ed imprese, prendendo coscienza che qualcosa di serio sta finalmente accadendo, comincerebbero a guardare alle Istituzioni con occhio diverso e sarebbero animati da un maggiore spirito collaborativo.

La seconda. Non si è ancora capito - nessuno lo ha capito, noi meno di tutti gli altri - se questo paese vuole affrontare i drammatici problemi posti dalla concorrenza dei mercati indossando ancora la marsina del vecchio sistema industriale oppure un vestito diverso e tagliato finalmente sulla misura imposta dalle diverse condizioni di un mercato in cui è la grande area dei servizi - e nessun altro - a produrre ricchezza e nuova occupazione. Nessuno di noi pensa a scelte che siano demolitrici del vecchio sistema. E' certo però che il tempo dei favoritismi e dei surrogati assistenziali per risolvere almeno problemi di facciata sta finendo. Lo sanno le famiglie che, di questi favoritismi, pagano oggi tutto il costo, lo sanno le imprese dell'area del terziario, oggi stanche di tirare la carretta dell'economia senza ottenerne nessun significativo beneficio.

La terza. La schermaglia dialettica che, sulla realtà dei nostri conti pubblici, il nostro governo ha iniziato con le autorità di Bruxelles, mi pare, per il nostro mercato e per i suoi progetti di sviluppo, scarsamente produttiva almeno per quel che sta accadendo nelle tasche della gente.

Non si tratta di discettare su uno zero virgola in più o in meno sulla quantità del nostro deficit e del nostro debito, ma cominciare a rendersi conto che, anche se noi abbiamo ragione e Eurostat ha torto, stiamo comunque affogando nei debiti.

E noi ad affogare proprio non ci pensiamo. E' bene che le istituzioni della politica comincino a rendersene conto.

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