Studi di settore, pressione fiscale e spesa pubblica: un "cortocircuito" da risolvere

Studi di settore, pressione fiscale e spesa pubblica: un "cortocircuito" da risolvere

Intervento del Presidente all'Assemblea 2007

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8 giugno 2007

Le tasse vanno pagate e la lotta all'evasione e all'elusione va condotta con determinazione.

Questa affermazione di partenza non è un'ovvietà, perché - quali che siano le stime e, secondo l'Istat, si tratta almeno del 17% del Pil - la quota del "nero" nel nostro Paese è troppo elevata.

E non è neppure una "excusatio non petita". È, invece, una premessa al ragionamento che cercherò di sviluppare, che ha un obiettivo fondamentale: richiamare l'attenzione di tutti - ma anzitutto quella del Governo - su una elementare verità. E cioè che va riconosciuto il fatto che, proprie per le sue dimensioni, il "nero", l'evasione, l'elusione rappresentano una patologia che investe l'intero Paese.

Investe - e qui cito – "milioni di persone e tutte le categorie sociali: imprese medie, grandi e piccole, lavoratori autonomi, lavoratori dipendenti, pensionati… È inutile, strumentale e fuorviante impostare la questione della lotta all'evasione in termini di categorie sociali".

Non potrei davvero dire meglio. Dire meglio, cioè, di come ha scritto il Vice Ministro Visco, da un cui intervento ho tratto la citazione.

Questo riconoscimento – il riconoscimento, cioè, della necessità di una lotta all'evasione e all'elusione condotta, per così dire, a 360 gradi, ma senza la ricerca di facili capri espiatori - è stato la premessa politica di un confronto non facile, sviluppatosi lungo il percorso di discussione parlamentare della Legge finanziaria per il 2007.

Un confronto che ha portato, nel dicembre del 2006, al rinnovo del Protocollo d'intesa sugli studi di settore tra le Organizzazioni che hanno promosso questa conferenza stampa, il Vice Ministro dell'Economia e delle Finanze - Vincenzo Visco - e il Ministro dello Sviluppo Economico, Pierluigi Bersani.

Perché lo abbiamo sottoscritto?

Semplicemente perché quel Protocollo sancisce principi per noi importanti.

Conferma, anzitutto, "la volontà di riequilibrare il prelievo fiscale, attraverso una progressiva riduzione dello stesso in misura proporzionale alla emersione di base imponibile".

Ritiene prioritaria "l'esigenza di migliorare la capacità d'intervento selettivo degli Studi di settore", riconfermando "la volontà di non modificarne la natura trasformandoli in strumento automatico con azione indiscriminata".

Dice della necessità di "rafforzare in modo mirato l'attività di controllo e repressione nei confronti degli evasori totali, soprattutto se l'evasione deriva da secondo lavoro".

Dice della necessità, ancora, di "attuare interventi di semplificazione degli adempimenti burocratici da coniugare a specifiche misure di sviluppo economico".

Insomma, il Protocollo è stato un atto di concertazione, che riapriva il confronto tra le nostre Organizzazioni e il Governo, sostanzialmente dopo una Finanziaria rispetto alla quale concertazione non c'era stata e che, soprattutto, era stata "bocciata" dai circa 4 milioni di imprese che noi rappresentiamo.

Bocciata perché fondava il riaggiustamento dei conti pubblici e la ricerca di risorse per lo sviluppo tutta sulla leva delle maggiori entrate, facendo poco o nulla per mettere sotto controllo e per ridurre la spesa pubblica.

Con il risultato complessivo di una manovra da 39 miliardi di euro, di cui ben il 67%, cioè 26 miliardi, dovrebbero essere il risultato di un accresciuto gettito tributario.

Non avevamo sbagliato nel giudizio sulla Finanziaria. Perché ora, nel 2007, ci troviamo di fronte ad un quadro che vede la spesa pubblica al 50,5% del Pil e la pressione fiscale e contributiva al 42,8% del Pil.

La strada da percorrere era e resta, invece, quella suggerita proprio nelle prime righe del Protocollo. Occorreva e occorre, cioè, contestualità tra recupero di base imponibile e riduzione del prelievo fiscale.

Lo si può fare. Lo si deve fare per consolidare la ripresa e per rimettere in moto la domanda interna e i consumi delle famiglie.

Ciò richiede, naturalmente, un atto di responsabilità politica. La scelta, cioè, di iniziare a ridurre la spesa pubblica. Anche se, per come sta andando la discussione sulla spartizione delle spoglie del "tesoretto", non c'è di che essere ottimisti su questa volontà.

Queste, dunque, le condizioni di contesto entro le quali è nato il Protocollo e queste, soprattutto, le sue indicazioni per il percorso che si apriva dopo la finanziaria.

Con il che capite, dunque, quale è la prima ragione politica di questa conferenza stampa.

Dire che, ancora una volta, non ci siamo. Perché registriamo la crescita del gettito e la crescita della pressione fiscale, ma di processi strutturali per il controllo, la riqualificazione e la riduzione della spesa pubblica francamente, a tutt'oggi, non c'è traccia.

Anzi, quel che si prepara - ad esempio in materia di mancata attuazione o di attuazione annacquata delle riforme previdenziali di Dini e di Maroni - e quel che si fa - ad esempio con i generosi aumenti contrattuali per il pubblico impiego a fronte dei quali gli impegni per la produttività e la mobilità valgono solo a futura memoria – va in direzione opposta.

E poiché siamo ormai alla vigilia del Dpef, ci è sembrato doveroso ricordarlo e ricordarlo con forza.

Né è privo di significato il fatto che abbiamo scelto di ricordarlo parlando da Milano. Perché le questioni delle quali stiamo discutendo sono, in definitiva, il nocciolo duro della "questione settentrionale".

Sono, cioè, la ragione profonda della frattura tra un'economia e una società che chiede esattamente minore pressione fiscale e maggiore qualità e produttività della spesa pubblica e le politiche del Governo.

Sono le ragioni di un popolo di evasori? Non mi pare proprio. Sono le ragioni di un popolo di produttori che tiene in piedi questo Paese. Sono le ragioni di quella società del rischio, di cui ha parlato un acuto analista come Luca Ricolfi contrapponendola alla società delle garanzie.

La prima è l'Italia di chi - al Nord, al Centro, al Sud - si confronta, ogni giorno e senza ammortizzatori, con il mercato e la concorrenza. La seconda è l'Italia delle rendite, alimentate dai mille rivoli della spesa pubblica.

C'è, oggi, una goccia che rischia di fare traboccare il vaso; di aggravare e di non rendere recuperabile questa frattura.

La "goccia" è costituita dall'applicazione dei cosiddetti indicatori di normalità economica alla metodologia degli studi di settore.

Anzitutto - alla faccia di tutti i buoni principi dello Statuto del contribuente - si tratta di una applicazione retroattiva per il periodo d'imposta 2006.

Ancora una volta, cioè, le regole fiscali cambiano in corso d'opera. Costringendo il contribuente e chi lo assiste a scoprire solo a fine d'anno il quadro delle norme con cui ci si deve confrontare.

Non sarà "elegante", ma è necessario sottolinearlo: lo avevamo detto prima, durante e dopo la finanziaria.

In secondo luogo, si tratta di indicatori costruiti autonomamente dall'amministrazione finanziaria, senza confronto con le categorie economiche. Ed anche questo lo avevamo segnalato, dicendo che meglio sarebbe stato se gli indicatori fossero stati il frutto di quell'ordinario lavoro di manutenzione e di aggiornamento degli studi di settore che vede la partecipazione delle imprese e di chi le rappresenta.

Ma soprattutto - come è inevitabile quando si fanno le cose davvero un po' troppo in fretta e furia - gli indicatori sono stati costruiti - passatemi la metafora commerciale - all'ingrosso e non al dettaglio.

Sono stati cioè costruiti facendo sì riferimento ai circa 200 studi di settore operanti, ma non ancora ai circa 2000 modelli organizzativi che ne costituiscono l'articolazione più di dettaglio.

La conseguenza è che, alla fine, questi indicatori in troppi casi mal si attagliano alla realtà vera delle imprese e del lavoro autonomo. Mal comprendono l'estrema diversificazione di quei quasi 4 milioni di contribuenti cui gli studi si applicano.

Gli indicatori avrebbero dovuto investigare la struttura dei costi aziendali, la cosiddetta coerenza dei costi. Ma se gli strumenti d'indagine non sono tarati bene, il risultato è che anche la tradizionale indagine sui ricavi, finalizzata ad accertarne la cosiddetta congruità, in troppi casi appare "sballata".

Qualche "pezza" è stata messa. Perché le più recenti circolari della Agenzia delle Entrate segnalano la necessità di una estrema prudenza nell'applicazione di questi indicatori alle cosiddette imprese marginali, alle imprese, cioè, che operano in territori disagiati o che hanno titolari anziani con ridotti volumi di attività.

E, più in generale, ora anche l'Agenzia riconosce la necessità che, in ragione del carattere ancora approssimativo degli indicatori, sarà bene assicurare ai contribuenti la possibilità di motivare in tranquillità il loro scostamento rispetto ai parametri degli studi, senza che ciò sia l'anticamera obbligata dell'accertamento.

Dal mio punto di vista, dal nostro punto di vista, sono segnali di una consapevolezza - tardiva, ma crescente - del fatto che c'è più di qualcosa che non gira nella macchina degli indicatori.

Quel che non gira è che si è fatta un'operazione calata dall'alto, senza adeguato confronto, senza adeguato approfondimento.

Quel che non gira è che il balzo previsto dei contribuenti incongrui dal 30% al 60% non può non essere il segnale del fatto che l'asticella dei ricavi è stata posizionata troppo in alto rispetto al "fiato corto" di tanti contribuenti.

Intendiamoci: non sto dicendo che gli indicatori non intercettino anche situazioni di evasione ed elusione che vanno recuperate. Dico, però, che, non essendo ancora un vestito fatto su misura, in molti casi rischiano di andare stretti anche a tantissima gente in regola.

Per questo contestiamo gli indicatori. Perché - smentendo il Protocollo - la loro equità e selettività appare assai dubbia e rischia di far virare bruscamente gli studi verso - come dicono i tecnici - una forma di catastizzazione del reddito. O - per dirla più chiaramente - rischiano di farne una sorta di Bancomat per fare cassa.

Ed allora - visto che la cassa va già più che bene e che, piuttosto, sarebbe giunta l'ora di spendere un po' meno - che senso ha questo accanimento generalizzato e tutt'altro che terapeutico nei confronti degli studi di settore?

Non rischiamo, forse, tra consumi al palo e overdose tributaria e di burocrazia fiscale, molte, troppe chiusure di attività e molti, troppi ripiegamenti nel sommerso e nel nero?

Non mi sembra un gran risultato.

La mia proposta è semplice. Moratoria degli indicatori per il 2006 e rapida definizione di nuovi indicatori nell'ambito dell'ordinario processo di revisione degli studi.

C'è del gettito da recuperare? Lo si faccia procedendo in maniera analitica, verificando pregresse situazioni di non congruità e ricercando gli evasori totali, anche gli evasori - altro principio del Protocollo fin qui disatteso - da secondo o terzo lavoro in nero.

Insomma, si proceda con equità e senso della misura. Senza la ricerca di soluzioni ad effetto mediatico assicurato come la pubblica gogna per la mancata emissione dello scontrino fiscale.

Perché chi non lo emette sistematicamente deve essere giustamente sanzionato.

Ma ho già avuto modo di consigliare al Vice-Ministro Visco la lettura del libro "agrodolce" di Luigi Furini. Un vostro collega giornalista che, ad un certo punto della vita, pensa di aprire una pizzeria a taglio.

Il titolo del libro è: "Volevo solo vendere la pizza". Il sottotitolo è: "Le disavventure di un piccolo imprenditore". Vi è narrata l'odissea vissuta dal Furini piccolo imprenditore.

All'interno di questa odissea, non mancano naturalmente le sanzioni per omesso rilascio dello scontrino fiscale. In un caso perché - come racconta la commessa Nicoletta – "è venuta in negozio la mia maestra delle elementari. Mi ha riconosciuta e ci siamo salutate. Aveva in braccio il bambino e io gli ho regalato una fetta di pizza". Nel secondo caso, perché - racconta un'altra commessa – "c'era confusione, io l'ho battuto, ma quella è uscita di corsa".

Un anno dopo la chiusura della pizzeria "Tango", Furini riceve dalla Agenzia delle Entrate un avviso di rettifica e liquidazione, con il quale si comunica che si ritiene che il valore dichiarato nell'atto notarile di vendita della pizzeria "non sia aderente alla potenziale redditività dell'azienda".

E, benché l'atto riportasse centomila euro e centomila euro Furini avesse effettivamente ricevuto e non i 140 mila determinati dalla Agenzia, il consiglio del commercialista è quello di profittare della riduzione della sanzione prevista nel caso in cui l'atto non venga impugnato!

Ecco - vedete - quando parlo di indicatori e di scontrino fiscale, io non mi preoccupo di chi evade e di chi elude. Io mi preoccupo di centinaia di migliaia di piccoli imprenditori che, come Luigi Furini, cercano di stare nelle regole, ma che - troppe volte – finiscono stritolati da regole mal fatte.

Regole complesse e che mutano disordinatamente. Regole che sanciscono nuovi obblighi, come quello della trasmissione telematica dei corrispettivi, senza che a ciò si accompagni chiarezza circa il superamento della valenza fiscale dello scontrino. Regole che reintroducono obblighi già soppressi, come la tenuta dell'elenco clienti e fornitori.

Per questo, mi piace concludere con quanto ha detto, nelle Considerazioni finali di quest'anno, il Governatore Draghi, dopo avere ricordato quanto ancora c'è da fare per contrastare e recuperare evasione: "Livello eccessivo del prelievo, variabilità e complessità delle regole fiscali scoraggiano l'investimento in capitale fisico e umano; rendono più onerosa l'osservanza delle norme".

Non c'è davvero altro da aggiungere.

Perché questo è quello che - qui ed oggi – anche noi chiediamo: la tassazione del reddito effettivo e non presunto; l'impegno alla riduzione della pressione fiscale; la semplificazione degli adempimenti e il senso della misura.

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